IL MISTERO DE ANDRE’ – di Giancarlo Trombetti

26 Ago

Ricordo che era una primavera molto fredda di tanti anni fa. E che si stava cenando in casa di un cortese ospite che aveva avuto l’accortezza di tenere ben acceso il camino. L’ospite di riguardo, per quella sera, era un noto cantautore genovese caduto colpevolmente in disgrazia ma che, su pressioni della nuova casa discografica, aveva appena sfornato un singolo che lo avrebbe riportato in auge. In tutta onestà, il tipo che da lì a poco avrebbe dovuto molto a una serie di persone che lo aiutarono in quel frangente, non entrò mai del tutto nelle mie grazie: troppo spocchioso, troppo presuntuosamente auto referente, se mi viene concesso il termine. Ma ricordo perfettamente che quella sera sarà stato per il freddo, sarà stato per il suo attaccamento agli alcolici, mentre si scolava  bicchierino dopo bicchierino, un bottiglione da cinque litri di whisky sotto gli occhi stupefatti del padrone di casa, parlando di canzoni e di Arte se ne uscì con questa frase, più o meno:

“La composizione è arte che prende chi la sappia coltivare, ma non basta! E’ cosa rara che viene data in natura a pochi, e mentre io senza dubbio la possiedo e tu no, può darsi che a te sia toccata un altro genere di arte!”.

Ecco, non che mi sarei mai messo in competizione coll’anziano cantautore, ma sentirmi dare del disutile mentre era lì proprio per cercare un appoggio mi parve, quantomeno, fuori luogo e non mi aiutò mai a farmelo restare del tutto simpatico.

Il fatto che oggi sia ancora lì, ad attendere di nuovo che passi l’uccellino della “composizione adatta”, mi fa pensare che, in fondo, se a lui era toccata in natura una fetta di Arte, beh…essa non era poi in fondo così abbondante e durevole… Ma quella serata e le altre che seguirono non furono del tutto sprecate. Ce ne fu una, in particolare, in occasione di un’importante manifestazione romana, dove il “bassotto” – come qualcuno del mio gruppo iniziò a chiamarlo – in compagnia di un paio di suoi colleghi molto meno pieni di se, riuscì ad afferrare un paio di volte bandoli di ragionamenti validi in assoluto.

Parlavamo di canzoni immortali – si, lo so, siamo ed eravamo noiosi, ma provate voi a parlare d’altro con i cantautori! – e dell’arte, tutta speciale, di avere il coraggio di affrontare una canzone “importante” e famosa; di farsi venire il coraggio, in sostanza, di mettersi a nudo e farsi confrontare con l’immortalità di alcune cose, di quelle che gli stessi autori difficilmente riescono a modificare senza causare traumi al proprio pubblico. Ed eravamo tutti d’accordo sul fatto che quelli che avevano avuto il coraggio di andare contro la propria stessa arte e fortuna erano solo una manciata di folli o un esiguo gruppo di veri artisti che “se lo potevano permettere”.

Parlando di cantautori fu impossibile non citare Dylan su tutti, l’uomo che stravolgeva allora e continua oggi a disintegrare i propri parti di genio, ma toccò a me, che non avevo allora né possiedo oggi l’arte della composizione, fare una banale constatazione:

“Probabilmente esistono autori così speciali da riuscire a comporre una canzone che sia così perfetta da restare aperta ed accessibile a chiunque! Canzoni che nessuno potrà mai scoprire quanto perfette siano fino a che non esisterà chi avrà il coraggio di farle proprie…canzoni che si potrebbero adattare ad ogni intonazione o ad ogni interpretazione come un guanto!”.

Ricordo che quella volta toccai la suscettibilità di tutti i presenti che si affrettarono a specificare che in realtà stava alla grandezza dell’interprete saper cogliere, afferrare, l’essenza della canzone e farla propria e che non poteva esistere in natura un prodotto o, peggio ancora, una serie di prodotti, pronti per tutti, di facile accesso.

La mia prima idea fu che costoro stessero difendendo le proprie posizioni; a chiunque sarebbe potuto accadere in qualsiasi momento della carriera di appropriarsi del lavoro di un altro ed in quel caso avrebbero tutti voluto essere applauditi per il “loro” lavoro e non per la facilità con cui esso era stato reso facile dall’originale autore. Peccato che questo, che accadde da lì a poco a tutti i presenti, non fosse già accaduto. Avremmo potuto discuterne a lungo e l’avrei trovato estremamente interessante…

Tutti questi ragionamenti mi sono venuti in mente pochi giorni or sono quando, cambiata la “cassettiera” del mio cd in auto con “nuovi” oggetti, me ne andavo sfiorando i 110 l’ora in direzione nord. Stavolta non avevo avuto il tempo di curare molto la selezione; in genere cerco di avere più possibilità, perché non sempre si ha voglia di ascoltare rock and roll, talvolta l’orchestrale rilassa e fa riflettere maggiormente, talvolta è il blues o il country a favorire il ragionamento e mi riesce difficile appassionarmi a un intero disco di un autore italiano. Ecco perché mi curo le mie raccolte selezionando ciò che preferisco ed ecco perché, nella fretta, avessi scelto, stavolta, due dischi dal vivo registrati in occasione di un tributo a un autore davvero speciale: Fabrizio De Andrè.

Il genovese per eccellenza ha fatto parte della mia gioventù, accompagnando a tratti pezzi della mia strada ma, come è quasi sempre accaduto per tutti gli italiani, non mi ha fatto mai scoppiare l’amore incondizionato come invece è accaduto con Gaber. Fu una volta, nel 1990, quando mi obbligarono (fisicamente) a intervistarlo, a parlare con lui, schivo e timido, restio a qualsiasi chiacchierata ufficiale, che qualcosa accadde. Fu l’incontro tra due timidi, tra due che non volevano parlarsi, e ne venne fuori una bellissima discussione: facile, televisivamente inutile, ma piacevole per entrambi.Ci stringemmo la mano e ci dicemmo reciprocamente “grazie”, cosa che, immagino, non eravamo pronti a fare un’oretta prima. Fu lì che iniziai ad accettarlo con maggior facilità. Fu da lì che, quando venne a mancare, decisi di comprarmi quei due dischi di quel meraviglioso, irripetibile, spettacolo genovese dove c’erano quasi…quasi…tutti. Ricordo che non potei esserci, i biglietti erano introvabili e ricordo che la mia personalissima antipatia per l’uomo Fabio Fazio che fungeva da presentatore servì a lenire il dispiacere.

E ricordo anche che pensai a lungo quanto difficile sarebbe stato per tutti loro riuscire a confrontarsi con un Maestro, limando il proprio ego a favore della canzone che gli sarebbe toccata. Ricordo anche la mia curiosità stava anche nel vedere cosa, ognuno di loro avrebbe scelto – perché non ho mai creduto alle lotterie in questi casi! Troppo rischioso il raffronto – per omaggiare Fabrizio.

E ricordo anche che i nomi che mancavano, a mio parere “erano voluti mancare” o che l’immensa eterogeneità delle personalità avrebbe reso un pastrocchio della serata. O così volevo vederla, un po’ come la volpe e l’uva. Non mi curai delle recensioni del giorno dopo, ne conoscevo gli autori: poco affidabili. Non mi affidai ai resoconti dei telegiornali, sempre poco o nulla attendibili. Attesi il disco che sapevo o speravo che sarebbe arrivato nonostante la difficoltà di recuperare tutti i diritti sparsi tra decine di etichette. E ci vollero tre anni. Poi, con diffidenza ma curiosità, recuperai i due dischi e mi misi all’ascolto. No, non quello di pochi giorni fa, sulla mia vecchia carretta.

In un primo momento ne dedussi che era stato fatto un incredibile lavoro interpretativo e che Adriano “idiota” Celentano a parte, ognuno dei presenti aveva saputo spogliarsi per cinque minuti del proprio nome riuscendo a salire su quel palcoscenico solo ed esclusivamente per fare un sincero tributo ad un amico importante. Molto bello, lirico, poetico, raro.

Ma pochi giorni fa, il caldo, l’autostrada vuota in direzione nord, i campi di grano che ribollivano, la macchina che pareva non arrivare mai, la noia, l’assoluta mancanza di voglia di fare quella riunione hanno accentuato la mia attenzione verso l’anima di quelle voci, di quelle presenze, come mai era accaduto prima.  Così ognuno di loro, come se ascoltassi per la prima volta, mi è sembrato interpretare una propria canzone e non una di un altro; ognuno di loro mi è parso perfetto esattamente per quella canzone, ognuno di loro mi ha costretto ad ascoltarlo nella sua canzone, non in quella di Fabrizio. E così ho ascoltato Ligabue cantare la sua “Fiume Sand Creek”, la Bertè che proprio non riesco a farmi piacere, cantare meravigliosamente la sua “Una storia sbagliata”, Vasco proporre una sua “Amico fragile”, Vecchioni sentirsi ideale dentro “Hotel Supramonte”, Zucchero essenziale con la sua “Ho visto Nina volare”, Battiato commovente e commosso nella sua “Amore che vieni amore che vai”…e tutti gli altri…perfetti, o quasi. Celentano a parte ma anch’esso utile a capire perché non appaia dal vivo da decenni, da sempre: non se lo può permettere.

Ed ho capito come mi avessero fregato, quel giorno, tutti e tre. Perché avevo ragione io. Le canzoni che si sapevano adattare esistevano e al di là di qualsiasi splendido spirito interpretativo, erano loro a voler calzare come guanti e a diventare oggetto di tutti. Perché ascoltare quella sequenza significa capirlo, perché la voce calda e intonata di De Andrè non l’avrebbe mai fatto scoprire, perché ci voleva la sua mancanza per capire quanto malleabili fossero quelle parole, quelle note. Al punto che per un attimo mi sono convinto di stare ascoltando una delle mie raccolte. E non un disco, due, a tributo di un grande autore. E quella è stata la migliore emozione di quella giornata. Ed una splendida scoperta.

Giancarlo Trombetti

2 Risposte a “IL MISTERO DE ANDRE’ – di Giancarlo Trombetti”

  1. Sara Crewe 26/08/2011 a 10:19 #

    Per una fan (da sempre) di De Andrè, come la sottoscritta, un bel modo di iniziare la gornata, con questo bellissimo ricordo. Le canzoni di Fabrizio hanno vita propria, ciascuna di loro è un mondo, o un pezzetto di mondo. Sono storie abitate, dove parole e note costruiscono personaggi e “luoghi” indimenticabili. Esistono da sole – come tutte le opere dei grandi, come tutte le grandi poesie. Grazie!:-)

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  2. paolo barone 26/08/2011 a 12:59 #

    Grazie per aver condiviso con noi queste riflessioni. Non una ma mille volte Grazie.

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