Antonio Manzini “Pista Nera” (Sellerio 2013/2018)

21 Apr

Di Antonio Manzini e del personaggio vicequestore Rocco Schiavone, protagonista dei suoi libri, me ne parlava Paolo Barone da tempo. Io registravo il consiglio del mio amico e quindi mi dicevo “sì, prima o poi comprerò qualcosa”. Ogni volta tuttavia rimandavo: guardavo le pile dei libri da leggere sul comodino e sul comò, i numeri arretrati ancora da prendere in mano della fanzine sui Free, facevo mente locale circa l’elenco degli articoli da scrivere per il blog e sui pezzi che mi sarebbe piaciuto “tirar giù” con la chitarra, scuotevo la testa e mi dicevo “riuscirò mai ad affrontare nuovi (almeno per me) autori? ” Vedevo inoltre che venivano fatte anche serie TV con protagonista il vice questore in questione ma continuavo a posticipare.

Nonostante Barone (come il sottoscritto) stesse (e sta) passando un momento (lungo alcuni anni) molto particolare, trova il tempo di inviarmi una copia del primo capitolo della serie. Io lo ricevo con piacere e mi congratulo ancora una volta con me stesso per le amicizie che ho e che sono riuscito a coltivare; io e Polbi (come lo chiamo io) siamo amici più o meno da 25 anni e nonostante in questi ultimi due lustri lui viva sulle coordinate del triangolo Roma-Reggio Calabria-Detroit, è l’amico che sento più spesso, quello con cui più o meno settimanalmente passo almeno mezz’ora al telefono, anche quando c’è l’intero oceano Atlantico di mezzo.

Mi metto a leggere Pista Nera dunque, accantonando altre letture che avrebbero dovuto avere la precedenza. L’impatto non è semplice, il vice questore Schiavone è un tipo sgrauso come diremmo qui a Reggio Emilia, fin troppo. Soffro un po’ quei suoi modi bruschi, quell’eloquio aggressivo, all’apparenza volgare e politicamente scorrettissimo. Mi ricorda me stesso, in versione Ittod… i lettori più attenti (bontà loro) di questo blog ricorderanno forse gli accenni al mio tripolarismo, la personalità sbrindellata un po’ simile a quella che canta Vasco Rossi in Senorita (ma sí che sono io, tre uomini diversi, uno non sono io e gli altri due son persi) a cui devo sottostare, i tre personaggi in cerca d’autore che pervadono la mia animuccia blues: Stefano, Tim e Ittod. Ittod, dicevo, è quello guidato da furia iconoclasta, schietto, malfermo sulle idee e impaziente, quello che versava le sue intemperanze sui miei scritti miserelli, fossero essi miei racconti o riflessioni vergate sul blog. Rileggendo quelle mie cosucce provo sempre un po’ di stizza, un po’ di imbarazzo, lo stesso sentimento provato alle prese con i modi di Schiavone. Via via che le pagine andavano a dissolversi sul bagnasciuga della mia maruga e che altre, più impetuose, si susseguivano, Rocco Schiavone però assumeva contorni meno ostici e sempre più accattivanti. Il suo sangue romano (lo stesso di Polbi) iniziava a scorrere anche nelle mie vene (d’altra parte la conoscete la mia passione per la capitale del mondo noto, no?).

Insomma,finiamo di giraci intorno: questo è un gran bel libro, disegnato intorno ad un personaggio azzeccatissimo i cui blues feroci non smettono mai di azzannargli l’animo. Un tipetto giusto per questo blog. Proseguiremo senza dubbio a seguire le indagini del vice questore Rocco Schiavone. Grazie dunque a Manzini, alla Sellerio e al mio amico Paolo Barone.

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Sinossi

https://sellerio.it/it/catalogo/Pista-Nera/Manzini/5503

Un  vicequestore nato e cresciuto a Trastevere, che odia lo sci, le montagne, la neve e il freddo viene trasferito ad Aosta. Rocco Schiavone ha combinato qualcosa di grosso per meritare un esilio come questo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. È violento, sarcastico nel senso più romanesco di esserlo, saccente, infedele, maleducato con le donne, cinico con tutto e chiunque, e odia il suo lavoro. Però ha talento.
Una rilettura della tradizione del giallo all’italiana, capace di coniugare lo sguardo dolente del neorealismo e la risata sfrontata di una commedia di avanspettacolo.

Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima si chiama Leone Miccichè. È un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa Pec, un’intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Difficile individuare quella giusta, data la labilità di ogni cosa, dal clima alle passioni alla affidabilità dei testimoni, in quelle strette valli dove tutti sono parenti, tutti perfettamente a loro agio in quelle straricche contrade, tra un negozietto dai prezzi stellari, un bar odoroso di vin brulé, la scuola di sci, il ristorante alla mano dalla cucina divina.
Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. È violento, sarcastico nel senso più romanesco di esserlo, saccente, infedele, maleducato con le donne, cinico con tutto e chiunque, e odia il suo lavoro. Però ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav’uomo ma non si può non parteggiare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l’unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida («in natura la morte non ha colpe»), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.

 

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