Il termine “impiccio” l’ho mutuato da Polbi, lo uso sempre più spesso e ogni volta mi scappa quasi da ridere. Il nostro amico sarà anche uomo del sud incastonato tra Scilla e Cariddi che ha vissuto per parecchio tempo a Detroit, ma l’inconfondibile – e a mio sentire irresistibile – cadenza tipica dell’Agro Romano è una sua caratteristica, così come l’uso di parole tipiche di quella zona d’Italia. Mi confronto spesso con lui e rimango sempre affascinato dai concetti che esprime, ma il suo accento e i suoi modi di dire mi irretiscono allo stesso modo.
Il tema degli “impicci” lo affronto a ogni piè sospinto, sono anche arrivato ad elaborare la teoria secondo la quale l’essere umano volente o nolente deve affrontare una certa razione di impicci, razione decisa dalle imperscrutabili leggi che regolano l’Universo, e dunque occorre essere tutto sommato felici e riconoscenti quando gli impicci che capitano sono bagattelle risolvibili.
Chiaro che se la gestione razionale degli stessi è tutto sommato semplice, quella di pancia è un po’ più complicata e lastricata dalle madonne che solitamente si tirano.
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Un mercoledì di novembre qualunque, prima mattina. Alle ore 06,20 suona la sveglia della pollastrella. Poco male, Palmiro (la cotoletta di pelo) ci aveva già svegliato – come fa ogni mattina – in preda ai suoi soliti raptus sentimentali; usa quel suo muso umido a mo’ di ariete contro le nostre facce fino a che il portone delle nostre anime cede. Dalle mura del mio dormiveglia cerco di colpirlo con frecce e olio bollente, ma la pantera nera della Domus Saurea schiva il pericolo e continua l’attacco a testa bassa.
Sono pressoché sveglio ma posso prendermela comoda, manca ancora più di mezz’ora allo squillo ufficiale della mia sveglia, per questo me ne sto ancora un poco qui a pensare, a pensare come cantava il grande Ivan.
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La pollastrella si prepara, fa uscire Il Diavoletto Nero della Tasmania di Borgo Massenzio, beve in fretta un succo di frutti rossi e corre al lavoro. Io mi polleggio nel letto, volto gallone (come diciamo qui in Emilia) e cerco di prepararmi spiritualmente per una altre giornata di ordinaria bluesaggine. L’Inter domenica ha perso in malo modo, il riscaldamento globale fa sì che questo novembre sembri un fine settembre, so ormai per certo che non uscirà mai la versione definita dell’album dal vivo The Song Remains The Same che vada a correggere le edizioni discutibili del 2007 e del 2018, la situazione politica/economica/culturale del paese (e del mondo) pare sia diretta verso l’abisso, ieri ho visto una donna sui 38/40 anni andare a fare la spesa con felpa sbrindellata, pantaloni della tuta dozzinali e ciabatte … avrei tutti i motivi per restare sotto le coperte se non che sento suonare alla porta.
Chi è che va a suonare il campanello di una abitazione di campagna alle 6,50 del mattino? Prendo la mazza da baseball e apro la porta … non vedo nessuno, penso ad uno scherzo, ma i sensi sono all’erta … poi, tra la foschia e le tenebre che ancora tengono per la gola il mattino, sento una voce: “Tyrrell, ti dispiacerebbe venire a darmi una mano che ho bucato una gomma?”.
La stretta stradina lunga e tortuosa in cui è situata la Domus Saurea sembra ormai la Parigi – Dakar. Sebbene sia stata rifatta non troppi anni fa, il continuo passaggio di trattori mostruosi e pesanti camion del latte ha accartocciato l’asfalto, occorrerebbe avere un carro armato per passare indenni su quella via. A qualche decina di metri dalla Domus vi è quello che chiamo il “crostone d’asfalto assassino”: se sei in macchina e non presti attenzione succede quello che è successo alla pollastrella (e al nostro vicino), se sei in moto e non te ne accorgi puoi mettere in preventivo un bagno fuori stagione nel fosso lì di fianco.
Mi metto la tuta e scendo. Capire come funzionano questi nuovi cric e come far scendere la ruota di scorta posta sotto alla macchina non è operazione immediata, ma ce la caviamo, poco più di un quarto d’ora e la pollastrella può ripartire. Torno in casa sudato e stanco. Mi faccio una doccia, poi vado a prendere Strichetto nel sottotetto. Sono due settimane che passa le notti rinchiusa per un problema ad una zampina posteriore: le si sono rotti i legamenti. Il veterinario ha detto che ricostruirli non è proprio una cosetta da nulla e anche metterle un chiodo tra tibia e femore forse non è consigliabile per una gattina così minuta. Dobbiamo attendere una ventina di giorni e vedere come va, la speranza è che si rimetta a posto da sola, ma io non sono fiducioso. Vado di sopra, apro la porta e la faccio uscire, controllo se è stata una notte tranquilla e mi accorgo che – come successo ieri notte – Strichetto ha vomitato. Mettersi a pulire il pavimento dopo che hai cambiato una gomma della macchina e prima di andare al lavoro non mi mette di buon umore, sapendo già che stasera dovrò riportare la gattina dal veterinario per i frequenti rigurgiti di questi ultimi giorni.
Stricchi scende in casa, mangia qualcosina e poi si arrotola sul morbido tappetino del bagno. La accarezzo e le do dei baci, voglio che senta una volta di più che le voglio bene e che mi prendo cura di lei.
Ho ancora 5 minuti, mi preparo la colazione. Mi pregusto il “cappuccino” che sto per farmi con la macchina del caffè quando mi accorgo che la macchina ha di nuovo preso a perdere copiosamente acqua dopo che ho infilato la capsula e spinto il pulsante. Maledico chi dico io, rinuncio alla colazione e scendo in cerca di Palmiro
Per fortuna il mio amico peloso è in zona si fa prendere comodamente. Dopo i tre impicci mattutini mettermi gli stivaloni di gomma e andarlo a cercare tra le vigne non mi avrebbe fatto piacere.
Mi calmo e mi dico che gli impicci come questi sono bazzecole. Accarezzo la Ragni che spigozza sotto un pino, do un’occhiata alle vigne…
Salgo in macchina. Per mettere un altro carico sulla briscola degli impicci quotidiani, scelgo di ascoltarmi un oscuro album di Edgar Winter del 1994. Era un bel po’ che non lo tiravo fuori e mi metto a pensare che solo un uomo di blues come me può aver un album simile sulla chiavetta. I grandi artisti degli anni settanta negli anni novanta hanno tutti patito, Edgar in primis. Album messo in piedi con la batteria elettronica e con canzoni non indimenticabili. In pratica un demo tape.
Eppure mentre I’m Not A Kid Anymore gira nel mio car stereo mi commuovo; sarà che sono uno che nella nostalgia e nella malinconia ci sguazza, sarà che insieme al mio vecchio amico Tommy Togni alla fine degli anni ottanta scrivemmo un pezzo intitolato Non Sono Più Un Bambino, sarà che l’inizio assomiglia a Don’t Follow degli Alice In Chains (anch’esso uscito nel 1994 – in gennaio – guarda un po’), sarà che il passare del tempo mi prende spesso alla gola ma il mio animo si apre a questo tipo di sentimento da strapazzo.
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E allora avanti, tra stradine di campagna, via Emilia e stradoni, diretto a Stonecity per una nuova, entusiasmante, scintillante, magnifica giornata in ufficio.
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Titolo originale. Articolo ancora di più!
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The Long And Winding Road, ogni giorno ne capita una! Cerchiamo di compensare i blues quotidiani con le nostre coperte di Linus fatte di album, libri fumetti e altra roba che ci portiamo dal passato. Come previsto, il fidanzatino di Scarlett Sabet non ha mantenuto le nostre aspettative e non ci resta che riesumare vecchi bootlegs che (ormai sappiamo) non vedremo mai sullo scaffale di un megastore.
Ps. Spero che la Stricchi si riprenda presto….
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