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Mauro Repetto con Massimo Cotto “Non ho ucciso l’Uomo Ragno. Gli 883 e la ricerca della felicità” (Mondadori 2023) – GGG+ (di Giacobazzi)

30 Ott

Jackob (Giacobazzi insomma) da lettore è diventato una delle colonne di questo blog, io e lui ci sentiamo via email e sono sempre scambi degni di uomini di blues che si rispettino. L’altro giorno mi diceva en passant che aveva letto il libro che troverete recensito qui sotto, mi riportava le sue impressioni che ho trovato subito profonde tanto da chiedergli di scrivere due righe per il blog. Cosa ci fanno gli 883 qui sopra vi chiederete, nulla ci fanno, non è roba che ci appartiene, ma il libro narra di una storia di provincia e di figure secondarie che in realtà sono quelle principali (un po’ come si evince dal docufilm di Netflix sugli Wham) che penso sia interessante. La prosa di Jackob poi è una di quelle che piacciono a me, dunque eccolo qua. Nella email, con la sua tipica asciutta ironia aggiunge:

“Avevo scritto un lungo preambolo ma ho deciso di cassarlo; pareva il vecchio(?) rocker che si deve giustificare, anzitutto a suoi stessi occhi, per aver letto un libro sulla metà scema dei dioscuri di Pavia… mah! Evidenziato con asterisco il luogo per inserimento di un eventuale tirellismo.”
Ladies and gentlemen, please welcome, per la prima volta sul blog, Mr Jackob.

 


“Sono solo un Jack Sparrow sul Ticino” (pag.8)

Un lungo yarn in prima persona, un monologo senza soluzione di continuità nel quale Mauro Repetto, metà degli 883, racconta i suoi primi 55 anni dando del tu al lettore … 165 pagine, di cui un centinaio dedicate al periodo in cui ha fatto coppia con Max Pezzali. Due ragazzi di provincia senza alcuna nozione musicale e con pochi e confusi punti di riferimento (Kiss, Public Enemy, Janet Jackson, Richie Sambora…), che riescono ad arrivare a quel successo che tutti ricordiamo.

Leggendo si scopre che l’ideatore del progetto, colui che mette in moto tutto, è proprio Repetto, generalmente considerato -anche dal suo stesso pubblico- una figura di secondo piano, quello che balla dietro al cantante. Invece è lui il volitivo, lui che persegue con tenacia ammirevole e una buona dose di faccia tosta l’evento che, dopo una mole di tentativi a vuoto e delusioni, si rivelerà pivotale nella loro carriera, l’incontro con Claudio Cecchetto. Inciso: per il guru di Ceggia il nostro ha una sorta di venerazione: “carisma da vendere”, “il Walt Disney italiano”, perfino un imbarazzante “in quel momento, era come Gesù Cristo”.

Raggiunto il successo però qualcosa si rompe. Sentendo che quanto ottenuto non corrisponde a ciò che tanto desiderava, Repetto opta per un taglio netto: “Devo fuggire. Via da tutto”. Personale impressione è che in questo frangente egli sia vittima di quel burnout e disorientamento da fama improvvisa che hanno colpito tante star, e che la spiegazione che dà a se* stesso e ai lettori, non è più il mio sogno, sia una razionalizzazione ex post. Mi confortano in quest’idea le (dis)avventure successive. Abbandonato il sodale Pezzali, Repetto parte per gli USA. Prima a Miami, con l’obbiettivo di conoscere una modella intravista a una sfilata milanese e più in generale di vivere il sogno a stelle e strisce (pursuit of happiness della Dichiarazione d’indipendenza, richiamato non a caso nel titolo del libro). Poi a NY, dove ai Power Station imbastisce assieme a Russell Simmons della Def Jam un disco che non vedrà la luce, almeno nella sua concezione originaria. Vola allora ad LA, e costituisce una società di produzione cinematografica per realizzare un film di cui però non girerà un metro di pellicola.

Decide di tornare in Italia e porta a compimento gli studi universitari, per poi dare l’ennesimo colpo di vela e partire ancora: “mi trasferirò a Parigi alla ricerca del nulla.” Vuole sparire, rendersi invisibile. Assunto a Disneyland Paris come operaio, diventerà executive. Steso in collaborazione con il giornalista Massimo Corto, il racconto viaggia sulle highway piane di un italiano volutamente colloquiale anche se non mancano punti in cui la lingua improvvisamente rotola folle: “E le palme continuavano a guardarmi, e io mi chiedevo cosa cazzo avessero da guardare quelle palme di merda, con la loro alterigia da dee dell’antico Egitto”.

Il lettore troverà non poca filosofia spicciola, condita qua e là da occasionali riferimenti alti che al mio orecchio suonano fuori luogo: André Breton, Socrate, Andy Warhol, la madeleine proustiana, un’improbabile “antropologia culturale”. Nell’insieme una lettura scorrevole, che può incuriosire chi abbia percorso una traiettoria di vita coincidente in qualche misura con quella del protagonista: la provincia profonda, il sogno di uscirne con la musica, i dietro le quinte dello show biz…

©Giacobazzi 2023

Mauro Repetto con Massimo Cotto Non ho ucciso l’Uomo Ragno

VUOTO 5 (riflessioni sul Rock) – di Paolo Barone

26 Mar

Ormai sapete tutti chi e cosa sia l’uomo che chiamo Polbi per me …amico, fratello, gemello, carne della mia carne … di solito tra i grandi amici che ho sono io (o meglio Ittod lo è) sempre quello più, diciamo così, rivoluzionario, come atteggiamento, come modo di pensare, come pulsione politica, ma quando mi confronto con lui (in partica ogni giorno) capisco che il mio essere un liberal radicale (in senso americano) non è nulla in confronto dell’approccio del mio amico. Anche riguardo la nostra smisurata passione per la musica Rock è lui quello più progressista, anticonformista, aperto, benché mi scocci un po’ ammetterlo. Sono giorni, settimane, mesi, che siamo inquieti, irrequieti, tormentati … il mondo di oggi, la narrazione a senso unico che viene usata, l’Europa occidentale ormai colonia statunitense, quel cazzo di guerra intollerabile, la Nato che vuole fagocitare il mondo, e poi gli anni che passano, il Rock che ormai è solo un ricordo o perlomeno una nicchia per uomini allo sbando come noi (alla faccia di chi continua a propinare sui social l’esatto opposto) … insomma sono tempi turbolenti per gli uomini di blues. Con tutto questo background in corpo mi sorprendo quando ieri l’altro mi scrive:

“Hey hey what can I say….giornate di sconforto profondo, ma sono giunto alla conclusione che gli UFO periodo Lights Out sono la più grande band della storia del rock. Grazie alla chiavetta che mi hai mandato anni fa e che resta la mia principale fonte di musica quotidiana. Che succede nella tua anima amico mio?”

Polbi che ascolta gli UFO post space rock? Incredibile. E adesso mi manda questo fiotto di lava intellettuale che trovo perfetto per questo blog governato dai tre uomini che sono (Stefano, Tim e Ittod, appunto). Ho intitolato questo post col nome del file arrivatomi. Un file .pages chiamato appunto VUOTO 5 che ho faticato ad aprire (io ho un codice etico tutto mio e non voglio avere a che fare con la Apple). Mi pare un titolo indicato. Se io e Barone dovessimo fare una band insieme VUOTO 5 non sarebbe male come nome. Buona lettura allora.

Ladies and Chesterfileds, please welcome from U Scigghiu, Atlanic recording artist, Paolo Barone!!!

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FOTO DI REPERTORIO: Tim & Polbi – Fidenza Ottobre 2018 – Foto Saura T.

VUOTO 5 (riflessioni sul Rock) – di Paolo Barone

Noi non siamo cervi. Siamo esseri umani, e l’essere umano è complicato cazzo.

(Livia Cocchi, Detroit 8/6/2019)

Ci bolle sempre l’anima a noi, c’è poco da fare, questa cosa per scomoda che sia la dobbiamo accettare in qualche modo. E allora traffichiamo, ci sbattiamo, ognuno con il suo stratagemma, anzi, con tutti i possibili espedienti che trova strada facendo, cerca di fottere la consapevolezza di essere al mondo. Ci si butta a pregare a pecoroni, in ginocchio, si leggono i libri, si guarda Pornhub, la squadra di calcio, la passeggiata in montagna, lo xanax, lo yoga, i fiori, i cani i gatti e i figli, insomma ognuno cerca di far finta di niente come può.

Noi, anche se sempre più a fatica, ci illudiamo con la musica Rock e tutto quello che è parte di questo mondo quasi in via di estinzione.

Oh, ormai lo abbiamo capito, a voi padrepio e a noi Loureed, pari e patta, e se uno ce li ha tutti e due buon per lui, e amen.

C’è stato un tempo però, nemmeno troppo lontano, che dentro queste isole di culture specifiche si litigava da matti. Oggi sembra strano a ripensarci, ma se eri uno a cui piacevano i Dead Boys rischiavi la fucilazione sul posto se scoprivano che ti piacevano anche gli altri Dead…insomma ve lo ricordate benissimo, sembra ieri.

(Poi in America c’era un mistero che si chiama Tom Petty, che piaceva veramente a tutti, sono anni che mi chiedo il perché ma non l’ho mai capito). Questo fenomeno di stampo un po’ calcistico, iniziò a cambiare inconsapevolmente. Nei primi anni duemila, il giro della musica Rock più alternativa, iniziò ad indossare le magliette di band spudoratamente mainstream con un aria un po’ da saputelli e un po’ da presa in giro competitiva…del tipo, io piuttosto che supportare le band che suonano musica tipo la mia, mi metto la maglietta dei Journey che almeno loro un pezzo che spacca lo avranno pure scritto, e soprattutto non potranno mai essere in competizione con il mio orticello di fans underground! Beccatevi questa! E domani Kiss e Queen, poi vediamo se hai il coraggio di venire a un concerto con la maglietta dei Flaming Lips! Poi la cosa è un po’ sfuggita di mano, e le band hanno capito che le t-shirt ai concerti non se le comprava più nessuno. Ma ormai era tardi, e un altra essenziale fonte di guadagno per le piccole band è andata a farsi fottere. Nel frattempo però, con il concorso di altri fattori concomitanti, le tribù del rock si erano sciolte, e qualche talebano fuori tempo massimo a parte, si era sancito che ti potevano piacere i Ramones e gli Scorpion senza doverti letteralmente vergognare degli uni o degli altri! Ai concerti ci si ritrovava un po’ tutti, e non ci stavamo rendendo conto che un intera cultura popolare aveva i giorni contati, e forse questo superare i generi era già uno dei tanti segnali della fine. L’epoca glaciale dei grandi eventi da duecento euro, e delle band che per suonare in un club dovevano accettare qualsiasi compromesso stava già arrivando nel cavallo di troia dello smartphone che abbiamo in mano. Tantissimi club avrebbero chiuso per sempre, e la dimensione di concerto da qualche migliaio di posti sarebbe entrata in crisi profonda.

Un genocidio culturale che ci ha colto disarmati, dal quale forse il mondo del Rock non si riprenderà più, perlomeno e sicuramente non come lo abbiamo conosciuto fin grosso modo all’inizio dell’era degli smartphone.

Insomma, tutto sto sproloquio per dire che io per campare un po’ meglio ho bisogno della musica Rock, e ho bisogno di vederla e sentirla suonare dal vivo. E questo da quando ero un ragazzino, quindi in mezzo secolo e passa di vita mi sono sorbito di tutto pur di avere quel brivido, quella cazzo di vertigine. Tipo che una volta mi sono quasi fatto arrestare per vedere Ella Fitzgerald (della quale non me ne frega praticamente niente) e via dicendo, che un giorno scriverò un pezzo chiamato Derive e Concerti, o una cosa del genere.

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Qualche mese fa, tornando a casa dopo cena, ho sentito un pezzo dei Deep Purple suonato dal vivo, era una cover band davanti a un bar della piazza principale e mi sono avvicinato. In genere le cover band non le reggo. Tolgono spazio già risicato a chi si sbatte per proporre pezzi suoi, e nella maggioranza dei casi non reggono i pezzi originali, non li sanno suonare e men che meno interpretare. Ma ci sono delle eccezioni, come in tutte le cose, ci sono le eccezioni…e davanti a me avevo una band che sembravano i Deep Purple, i Rainbow, i Black Sabbath, in una serata di grazia al Madison Square Garden nel 1973. Giuro. Per loro non esisteva il bar e qualche decina di spettatori, per quanto entusiasti devo dire, no, erano in un arena degli anni settanta e suonavano esattamente con quella convinzione, con quel carattere, credendoci al cento per cento. Kind of Burning il nome della band, che se vi capitano andateveli a vedere. Erano anni che cercavo di farmi piacere le band super underground che passavano da queste parti, ma che alla fine ti rendi conto che ci vai per sostenere una realtà a cui sei molto attaccato esistenzialmente, ma torni a casa come uno che va al ristorante e gli danno i piselli congelati passati al microonde.

E per una sera vaffanculo a tutto, cori karaoke, NWOBHM, frittata di cipolle e rutto libero, che Loveless dei My Bloody Valentine è una cacata pazzesca!

In chiusura arrivano Rock Bottom e Doctor Doctor degli UFO. Tirate, intense, rock and roll, emozionanti. Tanto che nei giorni a seguire le vado a cercare, ma non nel disco live. Che degli UFO mi piace la fase Space Rock e poi il live, che il resto mi è sembrato sempre un po’ al limite. Un piede sempre al confine con il kitsch, con il AOR un po’ cafone. E invece. Rivelazione, ho visto la luce ancora una volta. I dischi in studio del periodo Lights Out sono proprio coinvolgenti.

LIGHTS OUT UFO 1977

LIGHTS OUT RETRO UFO 1977

Sì, è quello stile lì, scontato, sopra le righe, fatto anche per vendere, ma fatto bene cazzo. Con convinzione e con quel qualcosa in più. È roba Cheesy come dicono in maniera un po’ intraducibile letteralmente gli americani, ma alla fine, a conti fatti, il rock and roll di cui tutti si fregiano averne capito la vera essenza, non è fondato sul Cheesy?!?

Non siamo cervi, abbiamo bisogno anche di queste cose per andare avanti, che la ballata con i chitarroni smuove qualcosa dentro anche ai fans dei Suicide. Quindi ora e sempre grazie agli UFO, ai Kind of Burning e ai momenti in cui ci rendiamo conto di averne bisogno.

©Paolo Barone 2023

Annie’s back in town (La prima volta: LED ZEPPELIN “The Song Remains The Same”…il film)

23 Giu

Nel 2013 qui sul blog pubblicai un articolo relativo alle sensazione ricevute da alcuni di noi (io, Pike, Polbi, Giancarlino Trombetti) la prima volta che vedemmo il film concerto The Song Remains The Same

https://timtirelli.com/2013/04/29/la-prima-volta-led-zeppelin-the-song-remains-the-same-il-film/

Tempo fa si aggirava qui sul blog una lettrice che si firmava Annie, che poi in qualche modo sparì. Ora Annie si è rifatta viva, mi scrive che “per una serie di vicissitudini molto blues della vita, non sono stata in grado di commentare ancora. Tuttavia, essendo un’appassionata di musica, ho sempre letto con piacere i nuovi articoli. Durante la prima ondata della pandemia riguardai per l’ennesima volta The Song Remains The Same, e mi venne in mente di scrivere un testo, di getto, in cui riversare le impressioni avute alla prima visione del film. Mesi dopo, scartabellando tra le pagine del blog, mi imbattei in un articolo in cui voi, uomini di blues, ricordavate la vostra “prima visione” del film. E così, dopo due anni, mi sono detta: “Perché non mandare il mio testo? ” E hai fatto bene cara Annie, anche perché come dici tu sarà bello leggere un opinione di una giovane donna nata alla fine degli anni novanta a proposito di un vecchio filmato musicale che ci ha cambiato la vita. E Annie …welcome back.

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“New York, goodnight!” Il semplice, spensierato saluto con cui Robert Plant chiude lo spettacolo è talmente incisivo da togliere il fiato. New York. Gli anni ’70. Una serie di concerti entrati nella storia del rock. Un’epoca scintillante e cupa al tempo stesso, effimera, eppure ancora presente. Il tempo sembra sospeso all’interno di una dimensione surreale. La telecamera segue i quattro musicisti mentre scendono dal palco e attraversano il backstage del Madison Square Garden, grigio e disadorno, con i pilastri di cemento e le fredde luci al neon — un contrasto con la meraviglia del concerto. Jimmy Page si passa una mano sulla fronte e sul petto, madido di sudore, esausto ma felice, le labbra increspate da un sorriso soddisfatto e a tratti incredulo. Robert Plant lo segue, con la camicia azzurro cielo e i lunghi capelli dorati a incorniciargli il volto, quasi fosse un eroe epico creato dalla fantasia di Tolkien. John Paul Jones e John Bonham procedono accanto a loro. Le limousines li attendono, pronte a immergersi nella notte newyorkese, accompagnate dalla versione di studio di “Stairway To Heaven”. Ed ecco di nuovo i quattro musicisti davanti al celebre Starship, con il vento tra i capelli, pronti a partire per una nuova città. Come marinai erranti di tempi lontani.

La fine di “The Song Remains the Same” mi colpì molto, fin dalla prima volta. Quattro giovani stelle in cima al mondo, sempre in viaggio da un luogo all’altro. Mi fece subito pensare a un’intervista che Jimmy Page fece nel 1976. Parlando dell’album “Presence”, disse: “It was recorded while the group was on the move, technological gypsies. No base, no home. All you could relate to was a new horizon and a suitcase.” Un nuovo orizzonte e una valigia. Ecco tutto. In fondo non erano altro che quattro ragazzi con una sfrenata passione per la musica. Musica e vita, intrecciate in maniera indissolubile. Per una ragazza come me, nata troppo tardi per vedere i Led Zeppelin suonare dal vivo, “The Song Remains the Same” è più di un semplice film concerto. È un dono straordinario. Non dimenticherò mai la prima volta che lo vidi. Era una fredda sera di dicembre ed ero seduta a gambe incrociate sul divano. Come per incanto, le scene di apertura e la pacata melodia acustica di “Bron-Yr-Aur” mi riportarono indietro nel tempo. E così pensai: È l’estate del 1973. Sei A New York. Sei al Madison Square Garden. Lo spettacolo sta per cominciare. E in un’istante mi ritrovo nell’arena, immersa nell’;atmosfera inebriante che precede il concerto. Mi sembra quasi di essere accanto agli amplificatori, giornalista e groupie devota al tempo
stesso. Riesco a sentire il pubblico delirante immerso buio, posso vedere i flash delle macchine fotografiche brillare come migliaia di lucciole. Improvvisamente la band esplode sul palco. Sono sufficienti poche battute e mi ritrovo stregata dalla bellezza della musica, conquistata dal seducente fascino della band. Loro sono lì, davanti a me. I miei Led Zeppelin, con gli abiti scintillanti e le luci soffuse a creare un’aura di magia. Jimmy Page, di una straordinaria bellezza preraffaellita, con il vestito di velluto nero cosparso di stelle e lustrini, la testa sensualmente inclinata all’indietro in completo abbandono. E il suono inarrivabile delle sue chitarre, così naturale, così perfettamente imperfetto. Robert Plant, con la camicia sbottonata, i jeans pericolosamente attillati e una voce unicamente duttile — a volte bassa, quasi un morbido sussurro, altre volte forte e aspra. John Paul Jones, con la sua iconica giacca in stile elisabettiano, avvolto da una luce fioca, suona ora le tastiere ora il basso, ma resta sempre inequivocabilmente riconoscibile. E John Bonham, con la fascia luccicante stretta attorno alla fronte, è capace di creare un ritmo potente e perfettamente amalgamato, un tappeto sonoro geniale e inconfondibile. La cascata di musica si snoda attraverso i riflessi di un mondo in cui le eteree atmosfere celtiche incontrano la visceralità del blues. Un flusso continuo di suoni e immagini: la poesia di “Stairway to Heaven” e di “The Rain Song”, il blues psichedelico di “Dazed and Confused”, la misteriosa, quasi inquietante “No Quarter”, il provocante medley di “Whole Lotta Love”…

Sembra quasi una lotta tra opposti. E forse, dopotutto, è proprio così. Light and shade, luce e ombra, diceva Page. Una dicotomia, la vera forza motrice della loro musica. “The Song Remains the Same” è un’esperienza travolgente, totalizzante. E mentre il concerto volge al termine, mi sento lentamente ritornare al tempo presente. I titoli di coda scorrono, e lo schermo diventa nero. The end.
Le immagini di quei momenti magici non svaniranno mai. Vivranno nella mia mente. Per sempre. La passione. Il talento. La leggenda. E la musica. Dopotutto, è semplicemente una questione di musica, non è vero? La musica non cambierà mai. The song remains the same.

[N.d.A. L’articolo a cui si fa riferimento è “Technological Gypsy” di John Ingham, tratto da “Sounds”, 13 marzo 1976]
© Annalisa Mucchi 2022

 

I Firm, i loro fratelli e il depotenziamento del rock – di Paolo Barone

22 Mag

Qualche giorno fa parlando con in nostro Polbi abbiamo toccato l’argomento FIRM; il nostro boy from Scilla mi diceva che non era mai riuscito ad acquistare i due album del gruppo a me comunque caro. In questi giorni lo ha fatto fatto così gli ho chiesto di scrivere una riflessione per il blog, riflessione che diventa pensiero ad ampio respiro circa la fine che fece certo Rock negli anni ottanta. 

◊ ◊ ◊

La mia vita non sarebbe quello che è senza i miei dischi.

Non mi importa poi più di tanto se siano vinili o cd, ma senza questi scrigni delle meraviglie io non so proprio come avrei fatto certe volte.

L’altro giorno ero da solo in macchina per un viaggio di parecchie ore, una condizione molto congeniale per quanto mi riguarda per ascoltare musica senza rotture di coglioni.

Ne ho approfittato, dopo qualche giro nella discografia dei Beatles, che è sempre un esperienza strabiliante, per ascoltare come si deve i due dischi dei Firm.

The Firm - The Firm - Front

Ora, se siete lettori di questo Blog non ha alcun senso presentare la band anni ottanta di Jimmy Page e Paul Rodgers. E forse è anche inutile dire che sono un fan assoluto dei LZ e un grande appassionato della musica dei Free.

Eppure, per tutta una serie di ragioni non ho mai, dico mai, preso un album dei Firm. Mi ricordo perfettamente della loro uscita nei negozi di dischi, e di tutte le volte che li ho incrociati, specialmente negli Stati Uniti nelle sezioni vinile usato a pochissimi dollari. Quindi non stiamo mica parlando di bootleg o di edizioni limitate delle colonne sonore di Page, no, questi sono album pensati per la grandissima distribuzione e ho avuto infinite occasioni per portarmeli a casa e ascoltarli come si deve, cazzo stiamo parlando di due album interi con JP alle chitarre.

The Firm - Mean Business - Front

Eppure, non li ho mai presi. Il mio personale motivo è molto semplice, e risuona chiaro più che mai in questo ultimo tentativo di ascolto: non riesco proprio a trovare una scintilla di vita in quei dischi. Nei Firm sento essenzialmente un suono fiacco, banale, prevedibile e scontato all’inverosimile. Sensazione che ricevo quando ascolto il novanta per cento degli album prodotti negli anni ottanta. Non voglio affatto essere lo snob saccente, odioso e con il paraocchi, è proprio che quando sento dischi dei miei artisti preferiti degli anni sessanta e settanta, prodotti in quel terribile decennio, mi chiedo cosa sia successo.

Perché giganti, come in questo caso il cantante dei miei amati Free e addirittura Jimmy Page, siano finiti a produrre cose agli antipodi delle esplorazioni cosmiche, dei feeling intensissimi, della vera e propria arte della loro opera storica.

Promo shot 1984 - The Firm

Promo shot 1984 – The Firm

Non ne esce vivo nessuno dagli anni ottanta, soprattutto il pubblico, gli appassionati. Chissà perché decretarono il successo di una musica rock così scadente rispetto a tutto quello che era uscito pochi anni prima.

Sarà stata la cocaina? Regan, la Tatcher? Craxi Andreotti e Forlani? Mah…

MTV? Non ho una risposta….

Vedi un filmato qualsiasi del rock 60/70 e sei travolto dal fascino e dalla magia, non solo della musica, ma anche dalla personalità degli artisti e del pubblico. Vedi uno dei tanti video prodotti nel decennio della videomusica e sembra di vedere le pubblicità delle tv private locali.

THE FIRM promo shot

 

Una tristezza infinita, colori mode e suoni invecchiati malissimo, un senso del ridicolo tragicamente involontario che tutto pervade. Un paio di anni prima ci sono i Clash di London Calling, Patti Smith e Knebworth, e poi in un attimo le cravattine dei Duran Duran.

Sembra un complotto dello stato imperialista delle multinazionali per depotenziare al massimo il potenziale sovversivo del rock. Ma anche provando a scherzarci su, il passaggio 70/80 e’ un enigma. Bisognerebbe chiederlo ai protagonisti, magari proprio a Page e Rodgers. Come cazzo avete fatto a produrre roba così inutile, proprio voi santiddio, proprio voi, che un brano solo scartato e uscito postumo dei Led Zeppelin o dei Free vale il triplo di quel progetto anni ottanta tutto insieme?!? Oggi gli adolescenti anni ottanta come me, si trovano riproposta tutta quella roba senza anima, in chiave nostalgica di un tempo delle mele perduto.

Forse è solo un mio limite, forse a me il suono anni ottanta evoca brutti ricordi. Il mondo impazziva per Asia e Spandau Ballet, mentre io scoprivo Stones e Ramones. Come dicono i Saint Vitus: Born too Late.

@Paolo Barone 2022

P.S.

Questa mia personale riflessione vale soprattutto per la produzione rock di massa del periodo 81/89. In questi anni bui qualcosina di buono è emerso nelle varie nicchie underground, chissà forse perché meno coinvolte dal delirio della video musica, o perché logicamente più libere di esprimere quello che sentivano di fare.  

 

C. M. Kushins “Beast: John Bonham and the Rise of Led Zeppelin” (2021 Hachette Books) – BB – di Bodhran

8 Nov

Il nostro Bodhran ci parla della recente nuova biografia di John Bonham

La segnalazione di questo libro mi arriva da Tim qualche settimana fa. Forte di un paio di recensioni positive sulla rete mi carico l’ebook sul Kindle e metto lo metto al primo posto nel la lunga fila di letture programmate, l’idea di un libro dedicato a Bonham è allettante; in passato avevo letto quello scritto dal fratello Mick, ma a parte qualche aneddoto familiare non lo avevo trovato particolarmente interessante. Difficile anche scrivere su un musicista a distanza oramai di 40 anni dalla morte, dei LZ sappiamo quello che c’è da sapere, i dischi che ha registrato li abbiamo tutti, si può aggiungere qualcosa?

C. M. Kushins "Beast: John Bonham and the Rise of Led Zeppelin"

Il libro parte con la prefazione di Dave Grohl, segno buono si direbbe (piaccia o non piaccia Grohl è oramai l’attuale santone del rock, che si è anche dato – in buona fede o meno che sia – l’obiettivo di diffondere il verbo a quanta più gente possibile), se non altro, mi dico, se c’è una collaborazione di questo calibro sarà un lavoro ben scritto.

E invece, facciamola breve, la lettura è stata una perdita di tempo bella e buona.

Mi chiedo quale fosse il target a cui si è rivolto l’autore mentre lo scriveva, perché un libro su Bonham lo legge chi vuole saperne “di più”, e, si sa, chi è fan di un gruppo tende a leggere di tutto.

Quindi possibile che non ci sia stato qualcuno tra le tantissime persone ringraziate (un’elenco che nemmeno fosse un disco o il demotape di una band) che non si sia accorto delle infinite scopiazzature dai testi di Mick Bonham, Barney Hoskins e Stephen Davies – queste almeno quelle che mi sono saltate violentemente agli occhi – certo, questi autori sono nominati tra i ringraziamenti ma non sono espressamente citati nel testo. Perché un libro così dovrebbe avere l’onestà di mettere una nota alla fine di ogni paragrafo, paragrafi che dovrebbero essere stati virgolettati, perché spesso non c’è stato nemmeno lo sforzo di fare la parafrasi ai testi altrui.

E qui un breve inciso, in questo tempo di fake-news, post-verità, commenti buttati là senza pensarci troppo al grido di “è così perché lo dico io” possibile che anche in un campo tutto sommato innocuo come la musica si debbano saltare le regole minime di verifica dei fatti e rispetto del modo in cui si scrive un libro? Mi sono chiesto lì per lì se avessi per le mani un libro autoprodotto, ma non è così, c’è anche una casa editrice.

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Imprecisioni varie sparpagliate qua e là, un esempio su tutte scrivere che Jenning Farm Blues (Bron Yr Aur Stomp, per capirci) è stata registrata nelle sessions di LZ IV. Sono io troppo pignolo e brontolone oppure in un libro sui LZ scritto nel 2021 questa roba è intollerabile? Tra le varie cose una mi ha fatto sorgere un dubbio: viene detto che durante il primo tour (gennaio/febbraio ’69) i LZ avrebbero annullato 3 serate allo Scene Club di New York per consentire a Bonham di tornare qualche giorno a casa. Ora, considerato che il primo tour si narra sia andato in rosso, mi pare cosa molto improbabile. Se qualcuno da queste parti ne sa di più ben vengano aggiornamenti.

Si sottolinea più volte il dispiacere di  Bonham nel ricevere poca attenzione da parte della stampa sul suo modo di suonare, e di concentrarsi di più sulle sue intemperanze e sul gossip (ma possiamo ben dire: vagli a dar torto!) e quindi il libro forse vorrebbe provare a far giustizia: sono riportati – quelli sì, virgolettati – brani di recensioni dell’epoca sulle esecuzioni di Moby Dick (e sulle reazioni estasiate del pubblico) e ci sono alcune descrizioni tecniche di alcuni brani, ma sono notazioni superficiali, semplicemente descrittive. In realtà, facendo ciò che pare voler criticare, non fa che sciorinare uno dopo l’altro fatti e misfatti compiuti negli alberghi, backstage e locali.

Ecco, forse l’unica cosa che mi ha colpito nel rileggere per l’ennesima volta la storia di quei 10 anni e poco più è vedere con tristezza la parabola zeppeliniana, di quanto il meritato successo abbia distrutto le personalità prima e la creatività poi, parabola ben riassunta da una frase di Danny Golberg a commento di una delle tante gratuite performance di /maleducazione/ arroganza/violenza di Bonham: “It was a particularly ugly example of the way some performers lost common civility when intoxicated with extended periods of adulation”.

John Bonham, Kezar Stadium San Francisco California. Foto by Neal Preston. 02 June 1973

John Bonham, Kezar Stadium San Francisco California. Foto by Neal Preston. 02 June 1973

In conclusione, un libro che, a modesto parere del sottoscritto, il fan dei LZ può tranquillamente evitare di acquistare, così come il semplice appassionato, che in libreria ha certamente di meglio a disposizione.

©Bodhran 2021

Quando Trombetti parla dei Led Zeppelin …

18 Lug

Quando Trombetti parla dei Led Zeppelin mi tremano le ginocchia, perché non ne parla (solo) da fan, ne parla con cognizione di causa: li segue dal 1969, li ha visti e – nella veste di prestigioso giornalista musicale quale è – li può soppesare seguendo una prospettiva così più ampia che più ampia non si può; quindi – se anche un figura come la sua ne scrive in maniera così netta – non possiamo che avere conferma di quello che già pensiamo da sempre: i Led Zeppelin sono stati il più grande gruppo Rock mai apparso sulla Terra.

– articolo tratto dal blog Rock Around The Blog (il blog di Trombetti e Riva) – 

https://www.rockaroundtheblog.it/eroi-o-copioni-la-storia-del-gruppo-che-ha-cambiato-il-rock-and-roll/

◊ ◊ ◊

 

ANGEL according to BEPPE RIVA

12 Mar

In occasione della pubblicazione dell’ultimo album dei suoi amati Angel, ci sentiamo onorati di ospitare sul blog una volta ancora il maestro in persona (Mr Beppe Riva insomma). Welcome back my friend to the blog that never ends.

♦♦♦

Intro

Per quanti hanno vissuto i tempi indimenticabili dell’hard rock americano degli anni ’70, l’inverno 2019 rimarrà nella memoria per il ritorno discografico degli Angel. Chi mi conosce sa che per me hanno rappresentato una splendida “ossessione”, per le ragioni che leggerete, documentate anche da
alcuni scritti “storici” qui riprodotti, con i quali tentai di trasferire ad altri la mia passione. Motivato da questo come-back, dopo anni di inattività avevo a mia volta pensato di farne il pretesto per tornare a scrivere, inaugurando così un progetto che avevo in mente, ma che finora è rimasto nelle intenzioni … Sono trascorsi alcuni mesi, “Risen” non è più una novità ed ho pensato di offrire a Tim questa “celebrazione”, che ha volentieri accettato di pubblicare. Non è stata proposta a nessun altro, non ce n’era alcun bisogno (!),spero che possa piacervi…Un caro saluto ai lettori di Tim Tirelli.

BR

♦♦♦

ANGEL has RISEN from the grave!

di BEPPE RIVA

Solo nelle scellerate fantasie di inconsolabili nostalgici dell’epoca aurea dell’hard rock (i Seventies, tanto per chiarire…) si poteva vagheggiare nel 2019 un nuovo album degli Angel.
Invece, vent’anni dopo l’episodica riunione dell’effimero “In The Beginning”, allestita senza troppi clamori da Frank Dimino con Barry Brandt e qualche mese oltre il 40° anniversario dell’uscita di “Sinful” (1979), autentica pietra miliare pop-metal, ecco risorgere il gruppo dei “Faraoni in seta bianca”, citando un mio scritto di ere geologiche fa, apparso sul Rockerilla nel 1983.

Perché emozionarsi tanto alla notizia di questa storica, quantunque incompleta rifondazione? Ebbene, il quintetto di Washington D.C. emigrato a Los Angeles, sfortunatamente una meteora del rock a stelle e strisce, esordì con un autentico tripudio di innovazione stilistica nel 1975, l’omonimo “Angel”, su Casablanca. Perorava la causa persa di un’eretica “contaminazione”, fra gli slanci trasformistici del progressive, per sua stessa definizione un genere libero dagli schemi,ed il rimbombante suono da “arena” del rock duro, naturalmente riconducibile a strutture più rigide. Gli Angel sono stati il prototipo definitivo del pomp-rock americano, meno debitori verso i modelli prog inglesi rispetto ai pur fondamentali Styx e Kansas, e più originali degli stessi Legs Diamond, efficacissima risposta d’oltreoceano ai Deep Purple. Brani imponenti per magnitudine sonica come “Tower” e “The Fortune”, immortalati nei
primi due albums, ne sono la chiave di lettura.

Nonostante uno spettacolare apparato scenico che si avvaleva di peculiari trucchi illusionistici ed il primato fra i gruppi rivelazione nel referendum della rivista Circus (1976), dove precedevano Boston ed Heart (entrambi destinati a ben superiore risonanza), gli Angel non decollarono mai verso un fragoroso successo. Nemmeno la svolta verso un suono più immediato e senza troppi ornamenti estetizzanti dei successivi “On Earth As It Is In Heaven”, “White Hot” e “Sinful” servì ad incrementarne le quotazioni commerciali, così il “Live Without A Net”, doppio dal vivo del 1980, divenne l’epitaffio degli originali musicisti “angelici” e dei loro Casablanca Years (titolo del cofanetto che racchiude la loro discografia 1975-80, edito da Caroline nel 2018 -nda). Ma il loro testamento artistico è assolutamente significativo, nonostante lo scioglimento avvenga proprio agli albori del decennio che segnerà il boom dell’hard melodico e del glam metal negli U.S.A. : una generazione di musicisti che nel suono come nell’attenzione verso la “posa”, non sarebbero mai stati tali senza l’azione pionieristica degli Angel.

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Venendo ai tempi nostri, avvisaglie della rinascita giungono da Frank Dimino, che nel 2015 torna “in sella” come titolare di un album su
Frontiers dal titolo profetico, “Old Habits Die Hard”…Nel rampante brano d’apertura, “Never Again”, l’assolo di chitarra è opera dell’iconico chitarrista degli Angel, Edwin Lionel “Punky” Meadows.
L’anno successivo è la volta di Meadows nel realizzare “Fallen Angel”(Main Man Rec.) la prima opera solista di una carriera iniziata addirittura nel 1968 con l’esordio dei Cherry People, gruppo pop che doveva rappresentare una risposta americana all’epocale “british invasion”. Dimino restituisce il favore cantando nella versione bonus di “Lost And Lonely”, probabilmente il pezzo di matrice Angel più evidente dopo la loro scomparsa, d’inconfondibile identità melodica.Il sodalizio “Punky Meadows & Frank Dimino of Angel” torna ad esibirsi dal vivo e con questa sigla nel 2018 pubblica un EP (Deko/Main Man)che ripropone le citate “Never Again” e “Lost And Lonely”, oltre all’inedita “Tonight”. Il passo successivo è riappropriarsi del nome Angel con l’inconfondibile logo simmetrica, sebbene solo chitarrista e cantantesi ripresentino della formazione originale. A ben guardare, non èpoco, perché si tratta dei ruoli essenziali di ogni R&R band, inoltrefra i compositori del prezioso repertorio “angelico” manca solo Gregg Giuffria, ormai agiato uomo d’affari in Las Vegas… Un’assenza che indubbiamente pesa, perché a mio avviso si tratta del miglior tastierista di sempre dell’hard rock U.S.A., capace nei momenti topici di riecheggiare iperboli Emersoniane. Rilevante è anche la perdita di Barry Brandt, un drummer mai riconosciuto per il suo reale valore, emulo delle possenti figurazioni ritmiche di John Bonham. Defezionario infine il bassista Felix Robinson (eppure nella line-up di “Fallen Angel”), che aveva sostituito Mickey Jones (al tempo di “White Hot”), poi prematuramente deceduto.


ANGEL: “Risen” (Cleopatra, 2019)
Nel nuovo sestetto, Punky reca con sé un secondo chitarrista, Danny Farrow, ed il collaudato tastierista Calvin Calv (già con gli Shotgun Symphony negli anni ’90); entrambi avevano suonato in “Fallen Angel”, mentre la sezione ritmica è formata da Steve Ojane (basso) e Billy Orrico (percussioni).
Con Punky e Frank a dirigere le operazioni, non sorprende che il nuovo album, “Risen”, si riallacci allo stile più essenziale privilegiato dagli Angel a partire da “On Earth…”, quando lo stesso chitarrista si dichiarò stanco di “castelli e temi mitologici” che caratterizzavano gli esordi.
Sebbene una replica di “Angel Theme” (epilogo con diversi arrangiamenti dei primi due album), inauguri i solchi di “Risen”, le mosse successive, “Under The Gun”, “Shot Of Your Love” e “Slow Down” confermano la scelta di un hard a fuoco rapido, corroborato dagli assoli concisi ed eleganti di Punky e dalla voce di Frank che non ha perso il gusto di stentoree acrobazie, marchio di fabbrica di uno dei cantanti più ingiustamente sottovalutati di sempre. Le tastiere di Charlie Calv rivestono essenzialmente il ruolo di un corposo e raffinato background senza avvicinare i momenti egemonici di Giuffria, ma anche il successore del magistrale Gregg vive il suo momento di gloria, nel brano più nostalgico e forse più avvincente della collezione, quel “1975” che si ispira palesemente alle origini del gruppo. Avviene nella maestosa overture, un fulgido mix sinfonico fra “Can’t Keep From Cryin’” degli American Tears di Mark Mangold e la leggiadra“The Fortune”; come in quest’ultima, le tastiere sfumano nel raffinato arpeggio di Punky e tutto il brano sfoggia intensità passionale, eccedendo solo nell’inciso “sussurrato” da una voce femminile…

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I Nuovi Angeli hanno altre frecce al loro arco, a partire dall’impetuosa “We Were The Wild”, fra gli episodi spiccatamente heavy, con un riff roccioso che ricorda i loro epigoni Dokken, mentre “Desire” cattura l’approccio più vintage, con indizi rivelatori quali l’organo Hammond ed i trascinanti intrecci vocali tipici del pop-metal definitivo di “Sinful”. Da segnalare anche “Punky’s Couch Blues”, un energico incrocio fraarena rock e hard blues, matrice quest’ultima sempre presente nell’opera degli Angel, in brani affini agli Aerosmith dei settanta, basti ricordare “Big Boy” e “Under Suspicion”.

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A suggello di “Risen”, l’ultima corsa spetta ad un perenne cavallo di battaglia qual’é “Tower”, in una nuova versione che ha l’unico torto di esser fin troppo fedele all’originale, ma che conferma gli Angel 2019 ancora degni di confrontarsi con uno splendido passato, su tutti un 68enne Dimino in gran forma! Non solo nella copertina che ripropone il classico appeal dei musicisti in veste bianca, “Risen” è quanto di più vicino si poteva immaginare allo stile rappresentativo degli Angel, ed in quest’ottica è tutt’altro come-back rispetto a “In The Beginning” (dall’anima Zeppeliniana insolita per loro e abusata altrove…). E’ probabilmente appesantito da una durata eccessiva e da qualche episodio in tono minore, peccato originale da quando la durata del CD ha raddoppiato i tempi di un classico LP, ma si tratta di un lavoro concepito e realizzato con grande dignità e senso delle proprie radici, costellato
da lampi di autentica emozione per ogni consapevole fan degli Angel. Una band cruciale per lo sviluppo dell’heavy anni ’80. In Terra…come in Paradiso!

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10 INDIMENTICABILI VOLI ANGELICI CHE NE RIPERCORRONO LA STORIA

di BEPPE RIVA

TOWER (da “Angel”, Casablanca 1975)
All’epoca del debut-album, gli Angel non sfoggiavano il look in “puro bianco” antitetico agli oltraggiosi Kiss ed il nome stesso non si ispirava ad androgine allusioni glam, ma secondo fonti plausibili, all’omonima ballad di Jimi Hendrix!
Affidato alle cure del produttore Derek Lawrence (già con Deep Purple) e del chitarrista Big Jim Sullivan, l’omonimo “Angel” resta il capolavoro heavy-progressive (o se preferite pomp-rock) del quintetto, e l’avvento è celebrato da “TOWER”, uno dei più straordinari manifesti di grandeur rock mai dato alle stampe. Inizia fra effetti siderali di synth da fantascienza, che innestano il turbo del torrenziale drumming di Mr. Brandt, sottolineato da riffs secchi, taglienti…Poi si adagia in magici arpeggi accompagnati dai flussi del mellotron, mentre la voce di Dimino sale in cima alla “Torre” per urlarne tutto il clima
drammatico!

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LONG TIME (da “Angel”, Casablanca 1975)
Altra gemma assoluta dell’opera prima, “LONG TIME” è forse il più consistente omaggio degli Angel al progressive inglese per il dispiegarsi dei fraseggi di mellotron, clavicembalo e chitarra acustica (memori di Moody Blues, King Crimson, Spring!) prima di alzare il volume hard della chitarra di Meadows (un Brian May americano per potenza ed accuratezza espressive) e con Frank Dimino sempre capace di inaudite, inconfondibili evoluzioni vocali.

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THE FORTUNE (da “Helluva Band”, Casablanca 1976) Con il secondo album, “Helluva Band”, le strategie di marketing dell’impresario David Joseph (Toby Org.) vestono i musicisti dei celebri costumi bianchi, con i quali appaiono “incatenati” in copertina. Non cambia però la direzione musicale, che raggiunge l’apice in “THE FORTUNE”, il magnum opus per eccellenza degli Angel, certamente il più grande contributo alla loro causa di Gregg Giuffria, che con gli oltre tre minuti di intro solista diventa un “immortale” per ogni appassionato di stregonerie delle tastiere.
Il fuoriclasse di New Orleans dipinge un affresco musicale dai tratti sconfinati ma cupi e malinconici, con il synth che va e viene con cadenze ipnotiche. L’impianto strutturale è affine allo sfarzo mitologico di “Tower”, che ne resta il termine di paragone più credibile. Per loro stessa ammissione, gli Angel si spendono fin troppo nel realizzare questo masterpiece a discapito del resto dell’album, complessivamente inferiore al debutto.

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THAT MAGIC TOUCH (da “On Earth As It Is In Heaven”, Casablanca 1977) Le “fortune” commerciali non sono però quelle auspicate dal boss della Casablanca Neil Bogart, quindi con il terzo LP “O.E.A.I.I.I.H.” risalta la nuova scritta simmetrica che identifica il nome Angel, ma anche l’abbandono del repertorio di proporzioni epiche, a favore di canzoni più accessibili, dall’orientamento pop-metal. Non a caso il gruppo viene affiancato dal produttore Eddie Kramer, reduce da “R&R Over” dei Kiss. Rappresentativo a riguardo è il singolo “THAT MAGIC TOUCH”, che il gruppo risolve con classe innata, specie nel refraindal ritmo marziale sul quale le tastiere di Giuffria illustrano unapiacevolissima atmosfera baroque-glam.

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WHITE LIGHTNING (da “On Earth As It Is In Heaven”, Casablanca 1977) “On Earth” non è comunque album immediato come si vorrebbe, é denso di episodi dal suono decisamente heavy: esemplare il futuribile, siderurgico funky-metal di “WHITE LIGHTNING”, che merita il confronto con i maestri della specialità Aerosmith. Si tratta di un brano che Punky aveva scritto per i Bux (ex Daddy Warbucks), suo gruppo precedente con Mickey Jones. Il loro unico album “We Come To Play” (prodotto da Jack Douglas) doveva uscire nel 1973 ma la Capitol ne ha congelato la pubblicazione fino al 1976, suscitando le ire del chitarrista che nemmeno appare nella foto di copertina…

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AIN’T GONNA EAT OUT MY HEART ANYMORE (da “White Hot”, Casablanca 1978) Nell’ottica di un rock melodico scandito da maggior pulizia del suono, gli Angel ottengono senz’altro migliori risultati nel quarto “White Hot”, con la complicità del produttore Eddie Leonetti, collaboratore dello stesso Douglas e di altri heavy-rockers di classe, i Legs Diamond. “AIN’T GONNA EAT OUT MY HEART ANYMORE” è la cover di un hit del ’65 degli Young Rascals (che in Italia i Primitives ribattezzarono “Yeeeeeeh!”); gli Angel la trasformano nel loro momento più glam-rock in assoluto e suonano come alter ego raffinati degli Sweet. Vocalità irresistibile, chitarra squillante di Punky, ma il grande pubblico rimane indifferente…

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FLYING WITH BROKEN DREAMS (WITHOUT YOU) (da “White Hot”, Casablanca 1978) Ambizione non troppo segreta degli Angel nel vano assalto a posizioni alte in classifica è quella di emulare la suprema divinità pop della storia, The Beatles. Più che nella corale natalizia di “Winter Song”, Giuffria e i suoi ci riescono nella suggestiva, sentimentale “FLYING WITH BROKEN DREAMS”, dall’arrangiamento apertamente ispirato ai Fab Four. Il crescendo finale era davvero degno di miglior sorte e gettando un ponte fra passato e futuro, prelude squisitamente ai sogni AOR del decennio a seguire.

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DON’T TAKE YOUR LOVE (da “Sinful”, Casablanca 1979) Stanchi delle pressioni commerciali della label,gli Angel decidono di tornare ad apparenze che richiamano la dissolutezza del rock nell’esplicita copertina del nuovo album, programmaticamente intitolato “Bad Publicity”. Ma Neil Bogart respinge titolo e fotografia che simula l’intervento della polizia in una loro camera d’hotel con annessi alcolici e compagnia femminile. Immediatamente ritirato dal mercato, “Bad Publicity” diventa una rarità da collezione, mentre lo stesso contenuto musicale esce a nome “Sinful”, con immagine dei cinque più bianca che mai. Il brano d’apertura, ”DON’T TAKE YOUR LOVE” è fantastico e fa passare in secondo piano l’edulcorato testo romantico di Dimino. Sospinto dal trionfale synth di Giuffria e dalla force de frappe della batteria di Brandt, sfocia in un coro davvero paradisiaco, a testimonianza della qualità compositiva lasciata in eredità dagli Angel alla scena HR californiana.

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WAITED A LONG TIME (da “Sinful”, Casablanca 1979) “Sinful” è considerato da molti il loro miglior disco, certamente il più influente sulla generazione hair metal degli anni ’80. L’impatto di ogni brano è memorabile, da “L.A. Lady” a “Wild And Hot”, ma vi segnalo caldamente “WAITED A LONG TIME” non a caso apripista di facciata (la seconda). Da manuale il riff cromato di Punky, davvero in anticipo rispetto ai tempi (come le chitarre degli Starz di “Violation”) e quell’ariosa vena melodica dal mood nostalgico, tanto tipica nel cantare di Dimino.

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20TH CENTURY FOXES (da “Live Without A Net”, Casablanca 1980) La controversa carriera Casablanca si chiude con il doppio Live, che purtroppo omette la solenne Intro adattata dalla colonna sonora di “Ben Hur” (ascoltatela nei bootleg e nel promo radiofonico “Radio Concert”). Al di là di competenti versioni dei loro classici cult, LIVE WITHOUT A NET si appunta la stelletta di un sorprendente brano dagli impulsi disco, “20TH CENTURY FOXES”, memoria di un’apparizione degli Angel nel film “Foxes” (con Jodie Foster e l’ex cantante delle Runaways, Cherie Currie).Nel costante dualismo con i Kiss, questo exploit “ballabile” viene liquidato come una risposta alla celebre “I Was Made For Loving You”. In realtà “20th Century…” precede di vari mesi l’hit di “Dynasty”, ed è l’ennesimo sintomo di una storia non particolarmente fortunata. Ma anche in questo caso, è la conferma di un eclettismo speciale e di un’istintività melodica che renderanno gli Angel dei campioni assoluti striktly for konnoisseurs!

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Per chi volesse saperne di più:

Shock relics n.1 – Angel

ANGEL – Rockerilla n.36 lug-ago 1983

Steve Gorman (with Steven Hayden) : Hard To Handle – The life and death of the Black Crowes – A memoir (Da Capo Press 2019)

13 Nov

Ho chiesto al nostro Pike, a Picca…a Stefano Pioccagliani insomma, di scrivere due cosette su questo libro, visto che io non lo prenderò prima del prossimo anno (la pila di quelli da leggere che ho sul comodino è arrivata a 80 e passa centimetri e va smaltita). Sì, lo leggerò senza dubbio, perché amo molto la band in questione, questo tipo di biografie oblique e perché mi fido della parole di Mr Pike.

Hardcover: 368 pages – Publisher: Da Capo Press (September 24, 2019) Language: English

Bizzarro leggere la storia della fine di una rock band – scritta dal batterista! – e concludere l’ultimo capitolo il giorno esatto in cui viene data la notizia della reunion della stessa band – senza quel batterista – per un tour ‘celebrativo’, evidentemente imbastito da qualche businessman (vedi Live Nation), per lucrare approfittando di una ‘celebrazione’ (i 30 anni dall’uscita del primo album dei Black Crowes) ricompattando in qualche modo i due leaders in pectore, i terrificanti fratelli Rich e Chris Robinson, circondandoli di sidemen no-name più o meno validi. Bizzarro perché, a leggere il libro dell’ottimo Steve Gorman, pare ci sia ben poco da celebrare: episodi imbarazzanti, miserie umane, tossicodipendenze, sbornie, cinismo, brama di denaro e – soprattutto – quanto disfunzionale può rivelarsi un rapporto tra due fratelli (confronto ai Robinsons, i Gallagher degli Oasis ne escono come due fraticelli francescani; basti pensare che in occasione di un concerto Oasis/Black Crowes, i Gallaghers si spaventarono della violenza scaturita da una lite nel camerino dei Corvi Neri).

Rispetto ad altre bio più o meno sordide non c’è sesso, niente groupies o storiacce di donne, forse per scelta degli autori , ma dalla lettura si direbbe che nella babilonia gestionale di una band retta da una diarchia schizofrenica come quella dei due fratellini poco spazio rimanesse per trastullarsi in altre attività. Il libro è divertentissimo – sempre che ci si diverta a leggere delle disgrazie altrui – e si rivela anche un ottimo prontuario per chi volesse capire cosa significa davvero far parte di una rock band che, dal nulla arriva al successo e poi si smineralizza.

La credibilità di Hard To Handle va, come sempre in questi casi, presa con le molle (gente che passa la vita a tirare su col naso, fumare bizzarre erbette, ingoiare acidume, trincare ogni tipo di alcolico ma poi si ricorda interi dialoghi avvenuti 25 anni prima…), ma evidentemente è una decisione ’stilistica’ del curatore Steven Hayden che avrà assemblato i ricordi di Gorman per poi darne una versione stampabile. Leggendo si comprende meglio la traiettoria della carriera dei Crowes – giovane rock band ’sudista’ che ridà fiato al classic rock poi svolta fricchettona-psychohippie poi jamband poi ‘americana’ country blues poi autodistrutta – sempre dirottata dalle paturnie spesso incomprensibili dei due Robinsons, con Chris che ne esce come un arido e cinico approfittatore economico mosso sì da ingordigia ma anche da narcisismo patologico e Rich, scostante ed enigmatico, poco propenso alla condivisione, in continuo confiltto neurotico col fratello.

A parte i fratelli Robinsons e Gorman (unici membri ‘padroni del marchio’) sono almeno una ventina i musicisti (senza contare gli attuali sidemen nella reunion) che hanno fatto parte della band i quali, a leggere Hard To Handle, non appena inseriti nel gruppo cominciavano a mostrare disagio mentale e degrado esistenziale contagiati dalla capacità dei fratelli di succhiare qualsiasi energia possibile da chi stesse loro attorno. Parliamo di gente (i 2 brothers) che mandava tranquillamente a cagare Rick Rubin e che non aveva nessun tipo di timore reverenziale nei confronti di venerati maestri come Gregg Allman o soprattutto Jimmy Page, con il quale fecero un tour di successo ma, all’offerta di JPP di collaborare per un nuovo disco di materiale inedito, gli chiusero la porta in faccia senza tanti complimenti.

Gorman ne esce come una specie di Mr. Pazienza, anche se ricordo di aver letto all’epoca testimonianze di gente che definiva il batterista come ‘completamente pazzo’ (vado a memoria, ma qualche collega rocker disse che in termini di ‘stranezza’ Bonham e Moon non erano nulla confronto al ‘Black Crowes’ drummer’). A tenere insieme la baracca il loro agente Pete Angelus, più per motivi di business che umani, naturalmente, spesso in combutta con i fratellini. In conclusione una lettura molto interessante che scava in profondità nella dinamiche interne di una rock band di successo, dinamiche nelle quali potrà riconoscersi chiunque abbia fatto parte di un gruppo rock. Anche di insuccesso.

Stefano Piccagliani © 2019

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Skunk Anansie, Noto (SR) 10 luglio 2019

31 Lug

Il nostro Polbi boy, Paolo Barone insomma, ci trascina in un altro dei suoi vortici rock raccontandoci del concerto siciliano degli Skunk Anansie. Lettura e musica per animi forti. 

Skunk Anansie per me e’ una storia d’amore, penso mentre guidiamo verso Noto in una serata infuocata di luglio, con le fiamme che ardono sui bordi dell’autostrada e nei boschi sulle colline. Mettiamo le mani fuori dai finestrini, e l’aria e’ cosi calda che sembra solida. Il concerto e’ sold out, e noi siamo in ritardo. Ma attraversiamo la Sicilia in una luce crepuscolare senza fretta, con i pensieri che mi portano avanti e indietro nel tempo, fra le pieghe di mille emozioni e ricordi.

La prima volta che sentii parlare di loro fu sulle pagine del Manifesto. Meta’ anni novanta, dopo la botta di band come Nirvana, Kyuss e Rage Against The Machine, ero in un periodo di bassa tensione. Rimasi colpito quando vidi la foto di Skin in bianco e nero sulle pagine del quotidiano. Clit Rock aveva scritto sul cranio rasato, e uno sguardo che ti inchiodava di energia. L’articolo parlava di questa band un po’ indefinibile, che veniva dall’Inghilterra smosciata delle minestrine brit-pop con una furia rock come non se ne vedeva da tempo. Ovviamente era un pezzo incentrato su Skin, figlia di immigrati, femminista, lesbica, squatter, politica e rock in ogni respiro. Internet ancora non si usava per sentire la musica a cazzo in streaming, e riuscii comunque facilmente a procurarmi il loro primo cd Paranoid e Sunburn. Dalla prima canzone all’ultima un capolavoro, oltre ogni mia aspettativa. Avevo trovato qualcosa che mi parlava veramente, non stavo seguendo un onda, non mi stavo accodando a nessuno.

Pochi mesi dopo, a Roma, venni a sapere che suonavano in un club fuori mano, una specie di hangar chiamato Il Frontiera. Eravamo qualche centinaio di persone, e fu uno dei live più importanti della mia vita rock. Non avevo mai visto nessuno prendere il palco, il pubblico e la musica come Skin quella sera. Ero capitato in un momento magico, quando una band sente che sta per diventare qualcosa di grande ma ancora non lo e’ del tutto, e la voglia di sfondare si unisce all’entusiasmo di vederlo accadere sera dopo sera generando un onda di energia pazzesca. Nessuno aveva mai visto una donna nera rompere ogni barriera di generi, identitàsessuale, stili musicali e interazione con il pubblico in quel modo. Era come se Tina Turner, Iggy Pop, Grace Jones e Joe Strummer le avessero dato la loro essenza e lei l’avesse fatta sua e trasformata in un rito voodoo. Travolti, quella sera fummo tutti travolti.

Skunk Anansie rimise in moto in me la voglia di rock e di concerti, e gia’ solo per questo potrei esserle grato per tutta la vita. Li ritrovai fra il pubblico del concerto romano di Steve Winwood, lei disponibilissima a scambiare qualche parola con me, mentre Winwood e Capaldi suonavano insieme in quella che sarà l’ultima volta, con Carlo Massarini estasiato ad occhi chiusi di fianco a me e Skin che mangiava pop corn. Il giorno dopo sullo stesso palco al centrale del tennis del foro italico, fu il momento in cui tutti capimmo che nel giro di pochi mesi Skunk Anansie erano diventati un vero successo di massa internazionale. Dal centinaio di persone del Frontiera ora eravamo migliaia. Accolsi questo cambiamento con un mix di compiacimento e gelosia, credo che chi ha seguito una band sul nascere e poi la vede diventare “di tutti” sa di cosa parlo.

Il secondo disco era arrivato, Stoosh, ed era ancora più bello del primo, cosi diverso brano dopo brano. Melodie pop, sfuriate punk, hard rock, fratture di elettronica e trip hop, quel disco riesce a fotografare il patrimonio rock inglese di meta’ anni novanta. Forse solo una band come loro, le cui radici culturali se pur anglosassoni per crescita venivano da semi piantati in terre lontane, poteva avere il coraggio e la capacita’ di fare. Stoosh e’ un classico e ha venduto molto nel tempo, per certi versi il loro disco migliore.

Qualcuno fra pubblico e critica prettamente rock rimase un po’ interdetto. Troppa melodia pop, troppa forza rock, successo commerciale, concerti sold out, performance incredibili. Una donna, nera e lesbica, aveva preso un posto di rilievo nel mondo del rock rimanendo se stessa e cantando di radicalita’, politica, razzismo, esclusione sociale e storie d’amore?!? Per molti era ed e’ ancora decisamente troppo. Basti pensare al rifiuto che la band paga negli States, dove dopo 25 anni di attività ancora non trova un circuito disposto a raccogliere la sfida. Nonostante Kathryn Bigelow li avesse voluti come band che cantava al futuristico capodanno del 2000, in una Los Angeles post rivolte nel film Strange Days.

Era un Italia ancora lontana dal razzismo d’accatto di questi giorni quella del successo di massa di Skunk Anansie. Nei ricordi c’e’ il porto di Catania, un concerto in piena estate che nessuno immaginava raccogliesse un mare di persone da ogni dove. Le bocche aperte dei miei amici che non avevano mai visto un loro live, la polvere nella notte afosa, un ragazzo sulla sedia a rotelle che urlava felice, magliette rock nere grondanti sudore eil cocomeraro che si ferma a vedere Skin che cammina, letteralmente, cammina sostenuta dal pubblico come mai nemmeno Iggy aveva saputo fare.

Post Orgasmic Chill arrivo’ alla fine di questa corsa a perdifiato.Ormai la band era headliner di festival in tutta europa, Inghilterra compresa, e suonava in spazi molto grandi. Il disco era il più complesso, il più prodotto dei primi tre che rappresentano il nucleo portante della musica della band. La voce di Skin in primo piano, immensa, classica, capace di scavalcare ogni barriera di genere. Nel disco della definitiva maturita’, un alternarsi di romanticismo pop di classe e rock politico militante, con spazi di riflessioni sociali e personali sulla esclusione sociale nella splendida Charlie Big Potato. Archi, arrangiamenti complessi e folate di chitarra elettrica seguono come possono la voce di Skin protagonista assoluta. Cass, Ace e Mark sono una band molto coesa, capace di meraviglie, ma la figura di Skin e’ incontenibile. Collabora con tantissimi, e ovunque lascia il segno, sia se e’ con Tony Iommi o sulle onde più elettroniche di Maxim. La vogliono in ogni contesto. E’ un momento di passaggio forse inevitabile, e sicuramente comprensibile. Lei tenta unacarriera solista sulle sponde più pop, ma in fin dei conti si rende conto che quelli non sono lidi per lei e la band si riforma iniziando il percorso della seconda fase di Skunk Anansie. Pavarotti, X factor e qualche tv di troppo hanno fatto storcere la bocca a diversi fan della prima ora, ma rimaniamo in molti a fottercene di tutto questo, ognuno cerca di fare qualche guadagno come puo’. I dischi seguenti avranno da aggiungere alla storia della band, pur non essendo ai livelli dei primi tre lavori, e i loro concerti restano sempre uno spazio in cui tutto può accadere.

Finalmente siamo a Noto. Strade deserte e luci lontane, sembra impossibile che da qualche parte in paese ci sia un concerto con migliaia di persone. La notte avvolge tutto e lasciamo la macchina in uno strano parcheggio con una navetta che porta al centro storico. Il concerto e’ nella piazza della cattedrale barocca, fa un caldo assurdo e la citta’ antica e’bellissima, con una folla ora crescente man mano che attraversiamo il centro. Adesso la fretta si fa sentire, camminiamo veloci. Sono passati diciotto lunghi anni dall’ultima volta che ho avuto modo di vederli dal vivo, e mi scorrono immagini davanti agli occhi della mente ad ogni passo che faccio lungo il corso di Noto. Sono molto emozionato, per me per loro per tutto quello che ci e’ successo a tutti noi in questi anni, per chi e’ con me adesso e per chi veniva ai loro concerti con me allora. Sono emozionato come ogni volta che ho visto questa band dal vivo e anche un po’ di più stavolta, mentre varchiamo il passaggio di ingresso e ci ritroviamo stranamente, facilmente, in un attimo a pochissimi metri dal palco. Il posto e’ veramente di una bellezza mozza fiato.

Palco davanti al palazzo del comune che funge da backstage, e praticamente attaccata parte una scalinata enorme molto ripida strapiena di gente, con dietro la cattedrale di Noto.

Skunk Anansie, Noto (SR) 10 luglio 2019

La distanza delle persone dal palco e’ veramente minima, e stavolta grazie alla a me tanto cara politica del biglietto unico, con un po’ di impegno fisico chi ama la band e vuole partecipare al concerto direttamente e’ nelle prime file. Mi guardo intorno nel caldo asfissiante e vedo unpubblico veramente incatalogabile, ma intuisco che siamo in molti ad essere fan da tempo. Charlie Big Potato come da tradizione apre le danze. Skin e’ mobile, agile, nervosa, sente la serata e lo si capisce subito. E’ un contesto ideale, un muro di gente a un passo dal palco con cui interagire anche fisicamente e uno scenario maestoso.

Cass al basso e Mark alla batteria fanno un lavoro enorme oggi esattamente come ieri, Ace alla chitarra non sfigura certo, ma ho la sensazione che abbiano un po’ abbassato il volume della stessa, il suono esce meno grezzo e violento rispetto a una volta. Ma non cambia niente, il tappeto sonoro e’ quello giusto e lei stasera e’ veramente al top. Cammina sulla folla, incita, salta sulle casse, e’ una performer rock inarrivabile Skin, ma al tempo stesso riesce a comunicare un emozione vera e credibile fino in fondo. Ho visto solo lei fare questo su un palco, incredibilmente oggi come ieri. E’ una data speciale del tour questa e la ricorderanno tutti i presenti e forse ancora di più la band. La partecipazione di tutti e’ pazzesca, nel giro di due tre brani il concerto decolla e tutto diventa un mare di energie. Skin si carica e restituisce elettricità.

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La voce e’ talmente potente che si prende tutta la piazza, una meraviglia, e i brani arrivano tutti uno dopo l’altro. C’e’ una corista tastierista ballerina, ma nulla aggiunge e secondo me poteva tranquillamente e meglio farne a meno, ma credo che a molti sia piaciuta. I telefoni scattano e riprendono continuamente, e’ un po’ fastidioso per tutti certo, ma Skunk Anansie e’ una band che non si fa problemi. Provo anche io a fare qualche foto, ma non e’ perme, ho bisogno di stare concentrato sulle mie danze quasi immobili e un karaoke senza vergogna. Presentano un brano nuovo, molto hard, e poi fra un assalto e l’altro arrivano ben tre bis. E’ la fine del tour in Italia e Skin e’ molto emozionata dalla bellezza del posto e la forte partecipazione di tutti. Durante lo show parla dei 25 anni della band, dei brani e di come questo momento politico per lei, nera e figlia di immigrati, sia particolarmente difficile.

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Tutto si chiude con la furia di Little Baby Swastikkka, un pezzo molto duro e radicale e a me sembra incredibile che roba del genere abbia ottenuto un successo popolare. Cass, Ace e Mark lasciano il palco e lei resta da sola, cantando senza microfono sulle note di Bella Ciao nella versione appena fatta insieme ai Marlene Kuntz. Ma non va via nessuno, ne’ pubblico ne’ band, e ci si continua a salutare per un po’ dal backstage. E’ stata una serata magica, si percepisce emozione da tutte le parti.

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Finalmente un po’ alla volta iniziamo tutti a lasciare l’area del palco e torniamo sul corso di Noto. Camminiamo come spinti dall’onda del concerto, e ci fermiamo solo dopo qualche minuto per un po’ d’acqua in un bar. Maglietta zuppa di sudore, voce roca, occhi scintillanti, era da tanto che non uscivo da un concerto in queste condizioni. Non ci sono più tante rock band e artisti in giro capaci di darmi queste emozioni. Skunk Anansie e’ sicuramente una delle migliori band che ho visto live in tutta la mia vita, e che continui a darci serate come questa nel 2019 e’ una cosa preziosa, da tenere veramente inconsiderazione se amiamo il Rock e tutto quello che rappresenta.

©Paolo Barone 2019 / www.timtirelli.com 

 

Wizard Bloody Wizard (Electric Wizard Roma 16/11/2018) di Paolo Barone

1 Dic

Il nostro Polbi ci manda due riflessioni sul concerto di un paio di settimane fa degli Electric Wizard a Roma. Nel farlo elabora e cerca di esorcizzare il blues dei concerti che si è perso e a cui non è andato per motivi che ancora non sa spiegarsi. Se la prende con se stesso e chiede conforto a questo blog miserello. Tra un po’ metteremo in piedi un articolo-discussione sui patemi che ci portiamo dentro per i concerti che ci siamo incredibilmente persi, mi pare un escamotage niente male per cercare di lenire certi dolori. Nel frattempo godiamoci la sempre deliziosa prosa di Mr Barone.

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Caro Tim, sono finalmente andato a vedere gli Electric Wizard l’altra sera a Roma.

Sono una band che fa pochi concerti, e questo tour italiano e’ stato un ulteriore conferma in questo senso con solo due serate. Mi dicono che loro sarebbero venuti in aereo, volando fra Roma e Milano, lasciando a un paio di persone l’onere di portare le cose fra le due date. Essenzialmente otto Marshall d’ordinanza e un Ampeg. Sono diventati una band non piu’ soltanto del circuito underground in senso stretto, ma anche ormai di riconoscimento e spessore piu’ ampio. Basti pensare che sono stati headliner dell’ultima edizione del festival Reverberation, senza dubbio il piu’ importante festival di psichedelia al mondo, che si tiene ogni anno in Texas. D’altronde sono in giro da ormai vent’anni, e hanno riscritto il canone Sabbathiano creando non solo un suono, ma un estetica, un espressione artistica definitivamente originali.

I biglietti costavano 25 euro o poco piu’ e hanno suonato all’Orion Club subito fuori il Raccordo Anulare nella zona di Ciampino. Non e’ un posto enorme e anche se molto pieno non era sold out, il che mi ha un po’ sorpreso. Credo la data al nord Italia sia andata ancora meglio, considerando anche che in quel caso condividevano il palco con i nostri Ufomammut, che gia’ di loro hanno un buon seguito.

Mi dannavo l’anima di averli persi una sera di qualche anno fa che suonavano a Roma all’Init, il mio club preferito della capitale, ormai chiuso. Non ero andato essenzialmente perche’ sono un coglione. Avevo degli amici che erano passati a salutarmi, ho tentennato fino alle dieci e mezza e poi ha vinto la pigrizia. Quante cazzo di volte mi e’ successo di perdere concerti anche irripetibili per questioni da niente…No guarda, per me questo e’ proprio un cruccio ricorrente, un mantra negativo che mi gira sempre in testa…ma come cazzo ho fatto?!? Ma che madonna avevo da fare che, per dirne una delle piu’ clamorose, una sera a Detroit non sono andato a vedre gli Stooges con i fratelli Asheton, e nemmeno i Blue Cheer che suonavano la stessa sera a un ora di distanza?!! Che cazzo mai potevo avere in testa io quella sera?!? O tutte le volte che ho detto, va be’ va, vado la prossima volta….Motorhead, Nirvana, Velevet Underground, Gregg Allman… e chi piu’ ne ha piu’ ne metta…Voglio dire, io non ho mai visto Lemmy. Uno che e’ praticamente morto sul palco, che e’ venuto in Italia centomila volte, sono riuscito a perdermelo. E i Velevet Underground?!!? Si va bene, ho visto Lou in un concerto memorabile al Circo Massimo nel 1983 con sfondamento delle recinsioni a piu’ di due ore dal concerto, lacrimogeni e Robert Quine alla chitarra, ma i VU diosanto! Ma come cazzo ho fatto a non prendere una merda di treno per Milano (che a Napoli dove aprivano per gli U2 non era pensabile) e vedere una delle band piu’ importanti di tutta la storia del Rock?!? E i Ramones? Per dire…Ho visto due volte, dico due volte, i New Trolls e non ho mai visto i Ramones…L’elenco del Blues del Concerto Perduto potrebbe essere infinito, e nulla potra’ mai lenirlo che purtroppo certe cose se ne vanno per sempre caro mio. Band intere se ne sono andate, penso ai gia’ citati Motorhead & Ramones, e altre sono ormai impossibili da riformare. E’ per questo che nonostante abbia avuto modo di vedere tantissimi concerti anche di artisti ormai scomparsi, mi rode il culo per tutto quello che ho perso. E’ un mondo che svanisce, come e’ anche normale che sia, e quel che resta diventa sempre piu’ prezioso.

Mi sto sul cazzo da solo quando entro in modalita’ pianto nostalgico, e penso a Lemmy che a volte gli dicevano che il Rock era moribondo e lui si metteva a ridere e gli sbatteva in faccia i numeri di qualche mega festival a cui era appena stato. Ma io non sono certo lui, anzi forse mi piace cosi tanto quell’uomo proprio perche’ e’ un contrario di me che vorrei essere. Pur sapendo che esiste ancora tantissima passione in giro per questa nostra forma d’arte, qualcosa di storto e’ successo e non ne vedo una facile via di uscita. I locali in grado di ospitare concerti da qualche centinaio di persone chiudono uno dopo l’altro (perlomeno a Roma), quelli da qualche migliaio o non ci sono mai stati o non aprono quasi mai, mentre resistono i piccoli posti da trenta cinquanta anime massimo, e imperano i mega eventi che non hanno piu’ nulla a che fare con questa storia, con veramente pochissime eccezioni in merito.

Qualcuno da qualche parte ha deciso che doveva cambiare tutto. Milioni spesi per supporti tecnologici, e tutto sentito a cazzo di cane ma gratis in streaming. E se suoni musica rock originale non devi piu’ essere pagato o quasi. Ricordo benissimo tour dei primi anni duemila con serate in cui le band prendevano fra i mille e i duemila euro. Ora negli stessi locali, con lo stesso pubblico, fai fatica a prendere quattrocento euro. Va bo’, basta dai che queste riflessioni lasciano un po’ il tempo che trovano, e le cose prenderanno una loro strada, magari come il Jazz che cazzo ne so io…

Devo pero’ dire che in questi ultimi dodici mesi sono stato a tre concerti strepitosi delle ultime tre band in attivita’ che avrei veramente voluto vedere. King Crimson, Sleep e Electric Wizard. E ora…? Ho esaudito tutti i miei sogni Live, restando soltanto con ricordi esaltanti e rimpianti per quello che ho perso? Possibile mai? Si, si, certo, ci sono ancora molti che andrei a vedere di corsa e piu’ ancora a rivedere, ma quella sensazione di quando vuoi beccare una band dal vivo e per anni ci giri intorno e poi finalmente hai i biglietti in mano…ecco, quella sensazione che noi possiamo capire e condividere credo che forse per me sia finita…Guarda caso sulle note di Funeralopolis, ultimo brano del concerto dei Wizard…

Ok, basta, basta davvero adesso che mi viene da fare le corna, toccarmi le palle e ridere di me stesso e di tutto sto Doom & Gloom da due soldi che mi sta uscendo in queste righe, Ian Curtis in una giornata storta mi fa una sega!

Basta, parliamo del concerto che e’ stato grandioso cazzo…E in fin dei conti so benissimo che tanti altri ce ne saranno.

Siamo arrivati trafelati dopo un odissea di treno Intercity Reggio Calabria – Roma, e ho serenamente saltato la opening band.

L’Orion pur essendo un club discutibile con un atmosfera fredda da discoteca tardo anni ottanta, anche se non sold out era bello pieno.

Al solito barbe di ordinanza stoner, pubblico trentenne con qualche picco sui sessanta portato con classe, bella folla al bar esterno dove si poteva fumare.

Gli Electric Wizard erano dati sul palco per le 22.15 e con una precisione maniacale o forse casuale, hanno aperto il loro fiume di watt alle dieci e diciassette. E per un ora e venti o poco piu’, il mondo si e’ fermato fra le Gibson SG di Elizabeth Buckingham e Jos Oburne. Una potenza incredibile, un vortice ipnotico oscuro, un sabba elettrico.

EW a Roma 16/11/2018 – Foto SALVATORE MARANDO/METALITALIA.COM

Lo so, ho usato dei cliche’, ma io non lo so descrivere diversamente questo concerto. Come da tradizione, dietro il palco scorrevano filmati di vecchie pellicole sexyhorror, e altre elaborazioni video credo curate personalmente da loro, una cosa di grande effetto, anche se un po’ sminuita da uno schermo a led troppo freddo.

Certo, ormai a forza di youtube non ci sorprendiamo piu’ nei live, sappiamo sempre cosa ci verra’ proposto.

Ma l’impatto di volume e presenza degli Electric Wizard e’ stato veramente unico, da provare sulla propria pelle e sprofondarci fisicamente.

Le zampate di Oburne sul Wha Wha e i bassi ipnotici della sezione ritmica hanno mantenuto un vento psichedelico densissimo, riuscendo a creare un suono opprimente e liberatorio al tempo stesso. Non e’ da tutti una cosa del genere. Dopethrone e Witchcult Today sono i capolavori da cui arrivano la maggior parte dei pezzi, ma anche qualcosa dagli ultimi tre. A proposito, il nuovo Wizard Bloody Wizard che ha ricevuto diverse recensioni negative a me sembra un gran disco, e se gia’ avete i due colossi che ho menzionato vi consiglio proprio di prenderlo… Funeralopolis chiude le danze macabre e zero bis. Lentamente, con le orecchie che ronzano un sorriso ebete stampato in faccia e la maglietta Legalize Drugs and Murder sotto braccio, torniamo alla realta’….

EW a Roma 16/11/2018 – Foto SALVATORE MARANDO/METALITALIA.COM

A conferma del fatto che i nostri si stanno muovendo ormai sempre piu’ vicini a una vera popolarita’ rock, fuori dal locale ci sono ben due banchetti di merchandising non ufficiale e personalmente non me lo aspettavo. Così come lo scoprire che una cassetta audio di un loro concerto negli States, venduta sul sito ufficiale della band, abbia esaurito la seconda tiratura di 500 copie in pochi giorni.

Forse andarli a rivedere sara’ il mio prossimo sogno live, oppure mi mettero’ a fare una Fanzine di Elizabeth Buckingham in fotocopie e spedita solo per posta…

Paolo Barone©2018