Settimo capitolo delle inchieste dell’Ispettore Capo Chen, personaggio letterario che incarna in maniera discreta il tipo di uomo di blues dipinto spesso su questo blog. Il libro si legge bene, magari l’inizio può sembrare non troppo dinamico ma il resto del romanzo vola via senza problemi; è chiaro che dopo sette episodi dello stesso tenore non ci si aspetta più di essere travolti tuttavia risulta sempre affascinante leggere queste storie. Tra le righe si coglie la visione critica di Xiaolong verso la Cina, tuttavia amo immergermi in questo contesto asiatico per capirne e carpirne il way of life e la storia di quell’esteso paese.
L’ispettore capo Chen Cao è finalmente in vacanza, ospitato in una residenza di lusso sulle rive dell’idilliaco lago Tai. Spento il cellulare, per una settimana vuole solo godersi la natura, passeggiare e dedicarsi al buon cibo. Ma l’incanto che avvolge il paesaggio è un’illusione: le acque del lago, da sempre rinomate per la loro purezza, sono devastate da alghe tossiche e fetide. L’economia intorno fiorisce, e le fabbriche scaricano da decenni veleni senza curarsi delle conseguenze. Quando il direttore di una delle più importanti industrie chimiche della zona viene assassinato, i sospetti convergono su Shanshan, giovane donna attiva in un movimento ambientalista, pronta a denunciare lo scempio che si nasconde dietro a quel miracolo economico. Affascinato dalla determinazione e dalla bellezza di Shanshan, e spinto dal suo caparbio senso del dovere, a Chen non resta che prendere in mano le indagini e avventurarsi nella giungla di un vero e proprio scandalo ecologico. In una realtà dove il denaro sembra essere l’unico parametro per misurare il successo, ognuno cerca di sopravvivere come può: adattandosi, oppure inseguendo sogni di un mondo migliore, a proprio rischio e pericolo. Ripercorrendo mutamenti e traumi di un paese in cui molti credono che la cupidigia sia un male necessario per lo sviluppo, il poliziesco di Qiu è una critica implacabile al malfunzionamento della nuova Cina, e un omaggio a chi è ancora capace di opporvisi con fermezza, in nome della giustizia.
Il tallone di ferro è una metafora per riferirsi alla plutocrazia (nel linguaggio politico – per lo più con un accento polemico, il predominio nella vita pubblica di gruppi detentori della maggior parte della ricchezza mobiliare, cioè grandi industriali, finanzieri, banchieri, ecc.) e alla oligarchia, ed è il titolo di uno dei grandi romanzi di Jack London.
Purtroppo resta di assoluta attualità anche oggi, visto il turbo liberismo e il capitalismo selvaggio che ancora predomina su tutto, d’altra parte è l’unica narrazione di società che ci siamo ridotti a fare alle giovani generazioni.
Pubblicato nel 1908 il Tallone Di Ferro è un romanzo di fantapolitica, una grande affresco antitotalitario, uno dei primi a trattare il tema delle distopie moderne, che qui racconta l’ascesa e la presa del potere di una oligarchia dittatoriale negli Stati Uniti.
La visione socialista di London si esprime in tutta la sua chiarezza nelle tesi e nei discorsi del protagonista Ernest Everhard, paladino dei diritti e delle ragioni dei meno fortunati, degli sfruttati, dei senza futuro.
Nei primi decenni del secolo scorso questo romanzo ebbe la funzione di libro guida circa il socialismo scientifico e dove non fu proibito ebbe una influenza davvero straordinaria, tra l’altro Che Guevara deve il suo nome di battesimo al protagonista del romanzo.
«L’orso ha detto che ci schiaccerà… E se schiacciassimo noi l’orso?»Pubblicato nel 1907, questo romanzo di Jack London rappresenta un esempio insuperato di “fantascienza verista”: impeccabile e profetico nella sua analisi sociale e politica ma, al contempo, senza freni nell’invenzione di una realtà distopica eppure sinistramente familiare. Testo di autentica chiaroveggenza sui destini della società capitalistica, “Il tallone di ferro” è uno dei più allucinati e veridici affreschi della società dominata dal profitto, dipinta nella sua durezza senza scampo, nella sua oppressione generalizzata, nei suoi impliciti e inevitabili sbocchi di violenza e massacro. Il profeta lucido e impavido dello scarto tra le speranze dell’umanità e le condizioni in cui gli uomini si trovano a vivere è Ernest Everhard, l’eroe, il combattente per la libertà (un personaggio memorabile cui Ernesto Che Guevara deve il nome di battesimo). Il racconto della sua vita e del suo pensiero è affidato al diario dell’amata Avis, figlia viziata di una ricca famiglia borghese che apre gli occhi, attraverso l’amore per Ernest, sull’intollerabile oppressione attuata dalla classe sociale cui appartiene, fino alle estreme conseguenze. Un feroce, visionario capolavoro. Prefazione di Goffredo Fofi.
Attica Locke “Black Blues (Heaven My Home)”(2019) (2022 Bompiani) – TTT¾
Qualche settimana gironzolavo nell’angolo libreria della Coop, mi piace curiosare tra i libri e prima di fare la spesa settimanale passo sempre qualche minuto in quel posto, poso lo sguardo su una copertina con la parola Blues in bella evidenza … potevo sottrarmi dall’indagare? Il nome dell’autrice – Attica – poi mi irretisce, foneticamente sensibile come sono, nome che ovviamente deriva dall’Attica, storica regione dell’antica Grecia.
Metto il volume nel carrello, la scelta si confermerà giusta, è uno romanzo adatto a me: un thriller ambientato in un grande lago nel nordest del Texas al confine con la Louisiana, uno di quei bayou spirituali e geografici in cui vivo da decenni.
La traduzione di Alessandra Padoan adatta molto bene all’italiano una scrittura descrittiva, ammaliante, densa di blues. Black Blues (titolo originale Heaven My Home) è il secondo capitolo delle indagini del Texas Ranger (nero) Darren Mathews. Inutile dire che prenderò anche il primo (Texas Blues). Nelle pagine del libro sono parecchie le citazioni di brani di blues nero. Consigliatissimo alla fronda dei lettori di questo blog dedita dall’esistenza blues.
Il Lago Caddo è un’imponente distesa d’acqua che si estende tra il Texas e la Louisiana. Come una creatura acquatica la sua sponda occidentale sembra dimenarsi in un reticolo di paludi, isolotti, bayous e canali che hanno osservato, accolto, nascosto, rubato le vite di chi è vissuto su quelle rive. Una sera d’inverno Levi King, nove anni, sta navigando da solo sul lago nella piccola barca del nonno. Ha fatto tardi da un amico e il sole ormai è tramontato, ma deve tornare a tutti i costi a casa, a Hopetown, prima che la madre si accorga della sua assenza. Ma non tornerà, né quella sera né il giorno dopo. I suoi genitori sono convinti che sia vivo e non vogliono arrendersi, ma il tempo passa e secondo loro la polizia non si sta impegnando nelle ricerche: il padre di Levi, Bill King, in carcere per omicidio – ha ucciso un uomo di colore ed è un membro della Fratellanza Ariana del Texas – decide di scrivere direttamente al Governatore dello Stato perché coinvolga i suoi uomini migliori nel caso. Ad affiancare la polizia locale viene quindi spedito Darren Mathews, Texas Ranger di colore che si è distinto per la brillante risoluzione di un caso poche settimane prima. Ma a Hopetown non basta un distintivo per mettere al sicuro un nero: in un clima di odio e intolleranza, Mathews si dedica all’indagine, che lo conduce nel passato della cittadina, al cuore della convivenza forzata tra nativi americani, schiavi liberati (o fuggiti) e la minoranza bianca che continua a dettare legge e si sente ancor più legittimata dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Una scrittura vivida e una trama serratissima per parlare di diritti e di giustizia in un romanzo che conferma Attica Locke come un’interprete del presente.
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Attica Locke è nata a Houston, in Texas. Lavora a Los Angeles, dove vive con il marito e la figlia. Il suo primo romanzo, Black Water Rising, è stato selezionato per l’Edgar Award, il NAACP Image Award e il Los Angeles Times Book Award. Ha scritto sceneggiature per cinema e televisione ed è coproduttrice delle serie Empire, When They See Us e Little Fires Everywhere. Con Texas Blues (Bompiani 2019), primo romanzo che vede protagonista il Texas Ranger Darren Mathews, ha vinto il CWA Ian Fleming Steel Dagger Award 2018 e l’Edgar Award 2018.
Edizione italiana della biografia di Joe Perry uscita in origine nel 2014.
Come scritto più volte qui sul blog, le autobiografie delle rockstar molto spesso sono fini a se stesse, scritte da persone che non hanno poca dimestichezza con la scrittura e che raramente vanno nel profondo. Questa di Joe però l’ho trovata intrigante e a fuoco, una lettura piacevole e per certi versi illuminante; certo, anche qui nessun dato tecnico, nessuna pietra miliare che possa accompagnarci con precisione nel percorso … niente scalette, niente date precise, etc etc ma se non altro Joe è molto sincero e inoltre ha una certa consapevolezza. Naturalmente questa è la sua versione dei fatti, ma se non altro per affinità tra chitarristi tendo a credere in quello che scrive e ad accettare il fatto che Steven Tyler (rockstar che ho amato tantissimo) sia stato un insopportabile son of a bitch dall’ego smisurato; d’altra parte fa parte della peggior razza di questa terra: i cantanti.
Gli Aero mi sono arrivati nella seconda metà degli anni settanta, il primo loro lp che comprai fu il doppio dal vivo LIVE BOOTLEG (1978), ma furono GET YOUR WINGS (1974), TOYS IN THE ATTIC (1975) e (soprattutto) ROCKS (1976) ad irretirmi. Amai molto anche NIGHT IN THE RUTS (1979), ma in pratica fino a DONE WITH MIRRORS del 1985 i loro dischi fanno parte di me, della mia vita, del mio DNA. La fase blockbuster che ebbero dal 1987 in poi mi piacque ma i “miei” Aerosmith furono quelli in versione the bad boys from Boston. Mi appassionai anche al Joe Perry Project, i primi tre album mi parvero un manifesto in cui riconoscermi, sebbene musicalmente non brillarono completamente.
Joe parla di tutto in maniera schietta, droghe, eccessi, donne e dipinge il mondo del Rock senza tanti color pastello. Quando racconta degli inizi, sembra davvero uno di noi, i primi gruppi, la sua incontenibile passione per il Blues e il Rock, la sua ammirazione per i chitarristi a cui anche noi facciamo riferimento … tutto molto candido e sincero. Tra l’altro vi sono diversi accenni a Jimmy Page e ai Led Zeppelin, uno degli argomenti che più trattiamo su questo blog.
La traduzione di Mia Fabretti mi pare buona, scorrevole ed efficace benché certe frasi paiano tradotte senza la conoscenza necessaria del mondo del Rock, ma in un tomo di oltre 400 pagine il tutto mi pare fisiologico.
Il libro contiene due sezioni di foto a colori segno che la Tsunami Edizioni ha puntato con decisione su questa biografia.
A proposito di questo libro ho sentito dire da qualcuno “sì, ma sono le sue solite storie” o qualcosa del genere … non sono le sue solite storie, ma semplicemente il suo stile, tutti i grandi hanno uno stile riconoscibile … se uscisse un nuovo disco dei Led Zeppelin e fosse pieno di quel rock corroborante, drammatcio, intenso, cosmico, cosa diremmo? Cosa ci aspetteremmo?
La realtà è che questo è uno dei grandi romanzi della Allende, la avvincente saga di una donna sudamericana e della sua famiglia, dipanata intorno alla sua lunghissima vita, spesa in un continente ricco di natura selvaggia, nonché ferito profondamente da dittature militari inumane.
Personalmente non mi stancherò mai di leggere queste storie, questi potenti affreschi cileni e sudamericani in genere, scritti con una prosa che trovo ogni volta vivida, potente, passionale. Per quanto mi riguarda, una meraviglia.
Raccontata attraverso gli occhi di una donna che vive un secolo di sconvolgimenti con passione, determinazione e senso dell’umorismo, Isabel Allende ci consegna ancora una volta una storia epica che esalta ed emoziona.
«Se non avessi dovuto migrare semplicemente non sarei scrittrice.» – Isabel Allende, intervista a LaStampa.it
«La penna di Isabel Allende è ricca, multiforme, sovraccarica di colore e dettagli: profondamente legata alla storia, nella quale cala la finzione dei suoi personaggi, “Violeta” è un romanzo appassionato, che guarda dritto al nostro oggi: siamo esseri imperfetti, inseparabili dal nostro mondo, non esistiamo senza il passato e i suoi insegnamenti, perché siamo fatti dei nostri sentieri e di tutti i nostri legami.» – Francesca Cingoli, ilLibraio.it
Violeta nasce in una notte tempestosa del 1920, prima femmina dopo cinque turbolenti maschi. Fin dal principio la sua vita è segnata da avvenimenti straordinari, con l’eco della Grande guerra ancora forte e il virus dell’influenza spagnola che sbarca sulle coste del Cile quasi nel momento esatto della sua nascita. Grazie alla previdenza del padre, la famiglia esce indenne da questa crisi solo per affrontarne un’altra quando la Grande depressione compromette l’elegante stile di vita urbano che Violeta aveva conosciuto fino ad allora. La sua famiglia perde tutto ed è costretta a ritirarsi in una regione remota del paese, selvaggia e bellissima. Lì la ragazza arriva alla maggiore età e conosce il suo primo pretendente… Violeta racconta in queste pagine la sua storia a Camilo in cui ricorda i devastanti tormenti amorosi, i tempi di povertà ma anche di ricchezza, i terribili lutti e le immense gioie. Sullo sfondo delle sue alterne fortune, un paese di cui solo col tempo Violeta impara a decifrare gli sconvolgimenti politici e sociali. Ed è anche grazie a questa consapevolezza che avviene la sua trasformazione con l’impegno nella lotta per i diritti delle donne. Una vita eccezionalmente ricca e lunga un secolo, che si apre e si chiude con una pandemia.
COME COMINCIA
Sono venuta al mondo un venerdì di tempesta del 1920, l’anno del flagello. La sera della mia nascita era saltata la corrente, come spesso succedeva durante i temporali, ed erano state accese le candele e i lumi a petrolio, sempre a portata di mano per le situazioni di emergenza. María Gracia, mia madre, sentì le contrazioni, che ormai riconosceva facilmente dopo aver già partorito cinque figli e, rassegnata all’arrivo di un altro maschio, si abbandonò al dolore aiutata dalle due sorelle che, avendola assistita in quel frangente diverse volte, riuscivano a mantenersi lucide. Il medico di famiglia lavorava senza sosta da settimane in uno degli ospedali di campagna e sembrò loro un’esagerazione farlo chiamare per una cosa banale come un parto. Nelle occasioni precedenti avevano potuto far conto sull’ausilio di una levatrice, sempre la stessa, ma la donna era stata una delle prime vittime dell’influenza e non ne conoscevano un’altra.
Il nuovo capitolo di Rocco Schiavone è all’altezza degli altri, Manzini non smette di sorprendermi. Il canovaccio è lo stesso, lo stile non cambia, il genere poliziesco pure, magari si dà per scontato che la qualità rimanga alta ma per me è comunque stupefacente che Manzini rimanga ad un tale livello. Le T sono 4, ma solo perché non voglio sempre affibbiargliene 5.
Un paio di note: a pagina 210 viene descritta una partita di calcio spagnolo alla TV. Vi è scritto che i calciatori erano più veloci di quelli italiani e che era raro vederli rotolare a terra mezz’ora solo per aver ricevuto una spallata. Boh, magari quella partita era davvero così, ma mi pare strano, il campionato spagnolo è – come il nostro – un campionato “latino” e dunque molti giocatori tendono ad essere melodrammatici (e a farsi costantemente il segno della croce). Non so, mi sarebbe sembrato meno fuori luogo se avesse parlato di un partita del campionato inglese.
pag 379: “Il vinile, amici. Il rumore della puntina che gratta, la polvere che frigge, mi riporta indietro a quando ci si riuniva in casa ad ascoltare tutto l’elleppì dalla prima all’ultima traccia e a commentare persino la copertina.”
“Era bello” fece Baldi ” non si conoscevano i visi dei musicisti, c’erano disegni e foto, tutto accennato, tutto evocato, lasciato alla fantasia. Quanto mi piaceva.” … Ecco, appunto.
Un medico in pensione scopre nel bosco delle ossa umane. È il cadavere di un bambino. Michela Gambino della scientifica di Aosta, nel privato tanto fantasiosamente paranoica da far sentire Rocco Schiavone spesso e volentieri in un reparto psichiatrico, ma straordinariamente competente, riesce a determinare i principali dettagli: circa dieci anni, morte per strangolamento, probabile violenza. L’esame dei reperti, un’indagine complessa e piena di ostacoli, permette infine di arrivare a un nome e a una data: Mirko, scomparso sei anni prima. La madre, una donna sola, non si era mai rassegnata. L’ultima volta era stato visto seduto su un muretto, vicino alla scuola dopo le lezioni, in attesa apparentemente di qualcuno. Un cold case per il vicequestore Schiavone, che lo prende non come la solita rottura di decimo livello, ma con dolente compassione, e con il disgusto di dover avere a che fare con i codici segreti di un mondo disumano. Un’indagine che lo costringe alla logica, a un procedere sistematico, a decifrare messaggi e indizi provenienti da ambienti sotterra-nei. E a collaborare strettamente con i colleghi e i sottoposti, dei quali conosce sempre più da vicino le vite private: gli amori spericolati di Antonio, il naufragio di Italo, le recenti sistemazioni senti-mentali di Casella e di Deruta, persino l’inattesa sensibilità di D’Intino, le fissazioni in fondo comiche dei due del laboratorio. Lo circondano gli echi del passato di cui il fantasma di Marina, la moglie uccisa, è il palpitante commento. Si accorge sempre più di essere inadeguato ad altri amori. È come se la solitudine stesse diventando l’esigente compagna di cui non si può fare a meno. Questa è l’indagine forse più crudele di Rocco Schiavone. La solitudine del bambino vittima è totale, perenne, metafisica, e aleggia sulle affaccendate vicende di tutti quanti i personaggi facendoli sentire del tutto futili a Rocco, confermandolo nel suo radicato pessimismo.
Qualche settimana parlavo di letteratura con l’AD dell’azienda in cui lavoro. Salta fuori il nome di Philp Roth e gli dico che è uno dei miei autori preferiti benché non abbia tutta la sua opera omnia …come sono solito fare anche con i dischi, tendo a concentrarmi sulle produzioni fine anni sessanta e anni settanta. Lamento Di Portnoy, La Mia Vita Di Uomo, Il Professore Di Desiderio, L’Orgia di Praga in particolare sono opere basilari per la formazione dell’uomo di blues che sono. Concordiamo inoltre che della produzione più recente Pastorale America resta un caposaldo, a cui l’AD aggiunge anche Nemesi, romanzo che però io non ho. Qualche giorno dopo arriva in azienda un pacchetto per me contenente una copia di quel romanzo, l’AD ha pensato che non poteva mancare nella mia biblioteca.
Ho letto il libro e ora mi chiedo come abbia potuto scoprirlo solo ora. Il soggetto sarebbe forse più adatto ad un saggio, ad uno studio medico scientifico, e invece no Roth riesce a trasformarlo in un romanzo dalla bellezza commovente e deflagrante. Ecco, davanti a scrittori di questo calibro, a uomini come lui, io mi inginocchio.
Estate 1944. Nel «caldo annichilente di una Newark equatoriale», il ventitreenne Bucky Cantor, un animatore di campo giochi che si dedica anima e corpo ai suoi ragazzi, è costretto a combattere la sua guerra privata contro una spaventosa epidemia di polio che colpisce e uccide i bambini. In una città sotto assedio, Philip Roth racconta con toccante poesia la lotta impari e senza tempo tra l’uomo e il suo destino.
Di libri sui Led Zeppelin ormai non se ne può più, tuttavia quando escono grosse produzioni come questa io sono sempre sull’attenti, perché un certo budget significa avere la possibilità di intervistare direttamente personaggi che hanno fatto parte, anche solo marginalmente, della grande saga dei Led Zeppelin. Oltre a ciò libri come questo vengono affidati a giornalisti di nome, che spesso hanno alle loro spalle altre biografie di successo, gente che in qualche modo sa scrivere in maniera scorrevole e piacevole. Certo, sono libri per il grande pubblico, libri a cui quasi sempre manca l’aggancio tecnico e cronologico, libri pieni di imprecisioni, ma – per un fan dei Led Zeppelin come me – libri da leggere, perché comunque gettano nuova luce su episodi magari poco importanti per il pubblico generico, ma essenziali per me. Ecco, sta qui il punto: non avendo più interesse per la storia del gruppo in sé, quello che mi interessa tremendamente è scoprire piccole nuove cose a proposito di episodi della saga ancora poco chiari o comunque trattati superficialmente in passato.
Come accennato poc’anzi mancano le pietre miliari di cui abbiamo parlato anche in altre occasioni, ovvero i punti cronologici di riferimento che guidino il cammino del lettore fan. Qui non c’è nessun riferimento approfondito a tour, scalette, strumentazione, etc etc, d’altra parte Spitz è uno che – intervistato da una radio statunitense a proposito di questo libro – non è riuscito a ricordare se nella discografia del gruppo venisse prima Houses Of The Holy (1973) o Physical Graffiti (1975). Quando un ascoltatore gli ha fatto presente la cosa la sua risposta è stata “fatti una vita“. L’atteggiamento è sbagliato, perché se da una parte la pignoleria di alcuni fan è inopportuna e alcuni errori in un libro sono fisiologici, l’accuratezza è comunque fondamentale – soprattutto su macrotemi.
Bob Sptitz “LED ZEPPELIN – THE BIOGRAPHY” (2021 – Penguin Press)
Il libro contiene piccole nuove cose, e queste sono i momenti che mi hanno dato i brividi (ecco il perché di 4 T su 5), perché il resto è il resoconto di una storia che conosciamo già fin troppo bene; va aggiunto che anche questo libro descrive il mondo dei Led Zeppelin dal 1975 in poi alla stessa stregua degli ultimi tomi usciti sull’argomento e per quanto fossi già ben al corrente scontrarsi con la dura realtà non è entusiasmante. Page, Bonham, Cole e Grant negli ultimi 6 anni furono davvero fuori controllo …Grant diventò un pessimo manager, Bonham una persona insopportabile (ma, ahimè, lo era sempre stato) e Page (almeno dal vivo) l’ombra del magnifico chitarrista che era. L’inner circle del gruppo si trasformò in un mondo a parte, alimentato da violenza, nefandezze e paranoia. La Swan Song una casa discografica inutile, ripiegata su stessa, senza nessuna guida, che rovinò la carriera agli artisti coinvolti (eccetto LZ e Bad Company), Detective e Maggie Bell in primis, e senza mai avere una direzione. Tutto era allo sbando, la terribile nomea del gruppo un dato di fatto, e il caos l’unico orizzonte possibile. Certo, c’era anche la musica, superba, cosmica, totalizzante, ma – spiace dirlo – gli uomini che la creavano erano tutt’altro che creature divine.
Come anticipato, diverse sono le piccole novità che questo libro porta alla luce:
_approfondimenti mai letti prima su Epson, il paese in cui Page visse dal 1952 in poi (pag 25) / la carriera solista di Page tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60.
_le Art School inglesi, frequentate da chi non intendeva né andare all’università, né fare apprendistato per diventare operaio e il fatto che Jimmy non avesse nessuna particolare dote attitudinale per il disegno artistico.
_il rapporto con Bert Berns (pagina 60)
_La richiesta fatta a Page di entrare negli Yardbirds già nel 1965 perché Clapton aveva stufato il loro manager (pag 73) / L’effettiva entrata di Page negli Yardbirds nel 1966 (pag 78) / I tempi difficili con Beck nel gruppo.
_approfondimenti sui manager degli Yardbirds: Simon Napier-Bell e Mickie Most / sui pezzi di Little Games degli Yardbirs pag 99) / sul fatto che una volta sciolti gli Yardbirds Page ebbe i diritti solo per terminare il tour scandinavo di settembre 1968.
_Terry Reid e i relativi suggerimenti dati a Page (pag 109) / L’impossibilità di avere alla batteria B.J Wilson, Clem Cattini e Aynsley Dumbar (pag 114)
_nel 1968 Bonham ricevette offerte da i Move, Joe Cocker, Chris Farlowe oltre che naturalmente da Page e Plant.
_si legge che nel 1969 Peter Grant stanco delle follie di Bonham, pensò di sostituirlo con Carmine Appice, Aynsley Dumbar o Cozy Powell. (pag 241).
_il motivo del nomignolo Percy dato a Plant (pag 274)
_Durante il tour giapponese del 1971, Bonham defecò dentro alla valigia della ragazza nipponica di Page.
_Nuove piccole rivelazioni circa l’organizzazione delle riprese video per le ultime tre date del tour del 1973.
_Il furto dei 210.000 dollari presenti nella cassetta di sicurezza dell’Hotel Drake di New York avvenuto a fine luglio del 1973 documentato anche nel film TSRTS; pare sia stata una messa in scena per evitare di pagare le tasse su proventi in contanti (e quindi in nero) contenuti in quella cassetta.
_La rinegoziazione del contratto dei LZ e la relativa creazione della Swan Song Records.
_gli overdub di ottoni e strumenti a corda su Kashmir a cura di una orchestra pakistana residente a Londra.
_le proposte per il logo grafico della Swan Song (tra cui una macchina di Formula 1 con su la scritta Led Zeppelin)
_Roy Harper non finì nella scuderia della Swan Song perché Grant non riuscì a trovare un accordo amichevole col manager di Harper.
_I Queen che furono sul punto di avere Peter Grant come manager, ma la cosa saltò perché Peter voleva che anche loro incidessero per la Swan Song, mentre loro si rifiutarono di incidere per una etichetta così associata ad un altro gruppo.
_Alla Swan Song arrivò anche una cassetta con un demo tape degli Heart, Abe Hoch – colui che in quel momento era a capo della etichetta – fece di tutto per far approdare il gruppo nella sua scuderia, ma una volta saputo che Ann Wilson cantava come Robert, lo stesso Plant disse di non essere interessato e buttò la cassetta nel cestino.
_Hoch ebbe anche la opportunità di mettere sotto contratto i Dire Straits, ma pensò che la cassetta avuta avesse una qualità terribile e lasciò perdere.
(…pensate un po’: oltre ai LZ e Bad Company la Swan Song avrebbe potuto avere anche i Queen, gli Heart e i Dire Straits – senza contare gli Iron Maiden, di cui si parlò in un altro contesto.)
_Qualche delucidazione in più circa: la apparizione di Bonham al concerto dei Deep Purple alla Radio City Hall di New York nel gennaio del 1976, la morte del giovane fotografo Philip Churchill Hale e l’arresto e la detenzione di Cole a Roma nell’estate del 1980.
_Nuove delucidazione anche sulla preparazione del tour (mai avveratosi) del 1980 in America e la conseguente morte di Bonham.
Errori
_a pagina 65 Spritz dice che Page e Jones nel 1965 erano entrambi 21enni.
_a pagina 168 dice che durante le prime date in America (1968/69) Page usava un muro di amplificatori Marshall. In realtà Page dal vivo iniziò ad usarli a fine 1970.
_a pag 188 scrive che in pratica Pat’s Delight deriva da Watch Your Step di Bobby Parker ma è un grossolano errore. Watch Your Step è stato il template per Moby Dick, non di Pat’s Delight.
_a pag 252 si ripete l’errore riportato per decenni dove si diceva che a JPJ venne in mente il riff di Black Dog ascoltando l’album di Muddy Waters “Electric Mud”, quando già da tempo si è risaliti al fatto che fu il disco The Howlin’ Wolf Album del 1969 (in particolare la versione rifatta di Smokestack Lightning)
_a pag 348, parlando dei Bad Company primo gruppo ad essere messo sotto contratto con la Swan Song, Spitz scrive “Free’s former guitarist Paul Rodgers”.
_a pag 393 Spitz afferma che a fine 1974 durante le prove per il tour del 1975 tra le canzoni tolte dalla scaletta ci fu anche Dazed And Confused.
_a pag 542 l’autor scrive che nella seconda data di Knebworth la band suonò meglio rispetto alla prima (questa fa proprio ridere).
_a pag 559 Spitz scrive che John Bonham morì il 24 settembre 1980 quando sappiamo tutti che accadde il giorno dopo.
_a pag 568 scrive che i concerti inglesi dell’Arms si tennero nel 1982 (invece del 1983).
_come il nostro Luca Tod segnala nei commenti qui sotto, gli errori di datazione delle foto poi sono imperdonabili.
Concludendo, ricordo che la versione del libro di cui parlo è quella americana, dunque scritto in inglese e che secondo me è un libro che va comunque letto, nonostante la mancanza di accuratezza.
Al di là dei mille aspetti negativi raccontati nel libro (e avvenuti realmente) non possiamo affrancarci dalla musica Rock creata dai Led Zeppelin, uno dei picchi musicali più alti ma raggiunti su questo povero pianeta.
Un giornalista a proposito del tour del 1973 scrisse: “I Led Zeppelin non tengono concerti, bensì mettono in scena trasformazioni musicali”. Ecco, appunto.
Su questo blog la mia passione per le ristampe della Universale Economica Feltrinelli è nota, dunque non deve sorprendere il fatto che ogni tanto proponga queste veloci note a proposito di volumi di questa collana. Oggi è la volta de I Tre Moschettieri di Dumas; tutto è scritto benissimo nella descrizione qui sotto presa dal sito della Feltrinelli, non ci sarebbe nulla da aggiungere, se non appunto sottolineare che l’introduzione di Claude Schopp e la (magnifica) traduzione di Camilla Diez, rendono questa nuova edizione splendida. Una sorta di rimissaggio fatto con garbo, senno ed eleganza. In quanto al romanzo, beh, è un capolavoro, scritto a metà dell’ottocento da un Dumas ispiratissimo. Sì, è vero, in verità è la storia del quarto moschettiere, d’Artagnan, e di altri personaggi strepitosi tipo Milady, ma io sono come sempre rimasto colpito dalla figura di Aramis, per pure preferenze personali. Alla libreria Coop ho comprato questa edizione da più di 750 pagine per 9,35 euro. Dovreste farlo anche voi. Imperdibile.
Dove sta la magia? Nella forza del plot? Nella qualità possente dello scenario storico che è in grado di evocare? Nella suspense? Forse, più di tutto, nella gioia del raccontare. Questo capolavoro dell’intrigo cattura a ogni pagina il lettore, lo spiazza, lo depista, lo inganna e lo rende complice, per poi coinvolgerlo in uno strabiliante “effetto meraviglia”. A partire dal titolo: non solo I tre moschettieri sono quattro, ma – come ha osservato Umberto Eco il romanzo è palesemente “la storia del quarto”, di d’Artagnan, che è l’assoluto protagonista non solo di questo libro, ma degli altri due che seguiranno: Vent’anni dopo e Il visconte di Bragelonne. “Immaginatevi un Don Chisciotte a diciott’anni”: è questo il primo impatto del lettore con d’Artagnan, e attorno a questo virtuoso della spada, a questo campione di lealtà, di dedizione assoluta alla regina, si dipanerà la storia dei tre romanzi, la storia di una vita. L’altra figura decisiva, antagonistica, è Milady, quintessenza dell’inganno, maschera erotica della perfidia e del tradimento, di cui porta il segno indelebile inciso nelle carni. C’era bisogno di una nuova edizione dei Tre moschettieri per riportare il romanzo all’altezza della sua scrittura: attraverso una nuova traduzione che unisce rigore e respiro narrativo, un’Introduzione del più grande studioso vivente di Dumas e un dettagliatissimo Dizionario dei personaggi.
Il nostro Bodhran ci parla della recente nuova biografia di John Bonham
La segnalazione di questo libro mi arriva da Tim qualche settimana fa. Forte di un paio di recensioni positive sulla rete mi carico l’ebook sul Kindle e metto lo metto al primo posto nel la lunga fila di letture programmate, l’idea di un libro dedicato a Bonham è allettante; in passato avevo letto quello scritto dal fratello Mick, ma a parte qualche aneddoto familiare non lo avevo trovato particolarmente interessante. Difficile anche scrivere su un musicista a distanza oramai di 40 anni dalla morte, dei LZ sappiamo quello che c’è da sapere, i dischi che ha registrato li abbiamo tutti, si può aggiungere qualcosa?
Il libro parte con la prefazione di Dave Grohl, segno buono si direbbe (piaccia o non piaccia Grohl è oramai l’attuale santone del rock, che si è anche dato – in buona fede o meno che sia – l’obiettivo di diffondere il verbo a quanta più gente possibile), se non altro, mi dico, se c’è una collaborazione di questo calibro sarà un lavoro ben scritto.
E invece, facciamola breve, la lettura è stata una perdita di tempo bella e buona.
Mi chiedo quale fosse il target a cui si è rivolto l’autore mentre lo scriveva, perché un libro su Bonham lo legge chi vuole saperne “di più”, e, si sa, chi è fan di un gruppo tende a leggere di tutto.
Quindi possibile che non ci sia stato qualcuno tra le tantissime persone ringraziate (un’elenco che nemmeno fosse un disco o il demotape di una band) che non si sia accorto delle infinite scopiazzature dai testi di Mick Bonham, Barney Hoskins e Stephen Davies – queste almeno quelle che mi sono saltate violentemente agli occhi – certo, questi autori sono nominati tra i ringraziamenti ma non sono espressamente citati nel testo. Perché un libro così dovrebbe avere l’onestà di mettere una nota alla fine di ogni paragrafo, paragrafi che dovrebbero essere stati virgolettati, perché spesso non c’è stato nemmeno lo sforzo di fare la parafrasi ai testi altrui.
E qui un breve inciso, in questo tempo di fake-news, post-verità, commenti buttati là senza pensarci troppo al grido di “è così perché lo dico io” possibile che anche in un campo tutto sommato innocuo come la musica si debbano saltare le regole minime di verifica dei fatti e rispetto del modo in cui si scrive un libro? Mi sono chiesto lì per lì se avessi per le mani un libro autoprodotto, ma non è così, c’è anche una casa editrice.
Imprecisioni varie sparpagliate qua e là, un esempio su tutte scrivere che Jenning Farm Blues (Bron Yr Aur Stomp, per capirci) è stata registrata nelle sessions di LZ IV. Sono io troppo pignolo e brontolone oppure in un libro sui LZ scritto nel 2021 questa roba è intollerabile? Tra le varie cose una mi ha fatto sorgere un dubbio: viene detto che durante il primo tour (gennaio/febbraio ’69) i LZ avrebbero annullato 3 serate allo Scene Club di New York per consentire a Bonham di tornare qualche giorno a casa. Ora, considerato che il primo tour si narra sia andato in rosso, mi pare cosa molto improbabile. Se qualcuno da queste parti ne sa di più ben vengano aggiornamenti.
Si sottolinea più volte il dispiacere di Bonham nel ricevere poca attenzione da parte della stampa sul suo modo di suonare, e di concentrarsi di più sulle sue intemperanze e sul gossip (ma possiamo ben dire: vagli a dar torto!) e quindi il libro forse vorrebbe provare a far giustizia: sono riportati – quelli sì, virgolettati – brani di recensioni dell’epoca sulle esecuzioni di Moby Dick (e sulle reazioni estasiate del pubblico) e ci sono alcune descrizioni tecniche di alcuni brani, ma sono notazioni superficiali, semplicemente descrittive. In realtà, facendo ciò che pare voler criticare, non fa che sciorinare uno dopo l’altro fatti e misfatti compiuti negli alberghi, backstage e locali.
Ecco, forse l’unica cosa che mi ha colpito nel rileggere per l’ennesima volta la storia di quei 10 anni e poco più è vedere con tristezza la parabola zeppeliniana, di quanto il meritato successo abbia distrutto le personalità prima e la creatività poi, parabola ben riassunta da una frase di Danny Golberg a commento di una delle tante gratuite performance di /maleducazione/ arroganza/violenza di Bonham: “It was a particularly ugly example of the way some performers lost common civility when intoxicated with extended periods of adulation”.
John Bonham, Kezar Stadium San Francisco California. Foto by Neal Preston. 02 June 1973
In conclusione, un libro che, a modesto parere del sottoscritto, il fan dei LZ può tranquillamente evitare di acquistare, così come il semplice appassionato, che in libreria ha certamente di meglio a disposizione.
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