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Flashes from the Archives of Oblivion: ROBERT JOHNSON “IL RE DEL DELTA BLUES”

30 Ago

Così come nelle edicole delle località di mare compaiono in estate vecchi numeri di fumetti riconfezionati e in offerta speciale, così Il blog ad agosto ripropone vecchi articoli apparsi anni fa nella speranza di non annoiare troppo chi ci segue da sempre e magari di intrattenere i nuovi lettori con scritti pieni di polvere. Buona lettura.

(Robert Johnson)

Il ‘Re del delta blues’ non è una frase né particolarmente originale, perché è già stata usata centinaia di volte, né troppo felice perché il sostantivo ‘Re’ sa, almeno in superficie, di privilegi e nobiltà, quando qui si racconteranno storie di miseria, discriminazione e vita dura.

Ma in che altro modo si può descrivere Robert Johnson, l’uomo che ha la posizione preminente nel blues?

Uno che con 29 canzoni, un paio di foto ed una storia misteriosa che sprofonda nei pantani del Mississippi, è diventato il nome di riferimento del blues, folgorando le giovani anime di migliaia di musicisti tra cui decine di future rockstar quali Clapton, Ry Cooder, Keith Richards e i Led Zeppelin. Questa,senza ombra di dubbio, è la storia del blues.

(Tim Tirelli 2004 – pubblicato originariamente su CLASSIX! n.4)

(Hazlehurst, Mississippi)

L’enigmatica e tuttora piuttosto nebulosa storia di Robert Johnson è l’essenza del blues, la musica che più di ogni altra racchiude in sé il senso della ricerca, destinata ad essere infruttuosa, del proprio nido di stelle da parte dell’uomo. L’uomo di blues sa che non lo troverà mai, eppure continua a cercarlo, per tuttala vita. Questaricerca sa di frustrazione, povertà e malinconia, ma al contempo può assumere saltuariamente i colori di una tiepida felicità che in un batter d’occhio può ridiventare una infernale disposizione d’animo. Puoi essere stato un uomo nero che se ne andava per i fatti suoi sulla costa occidentale dell’Africa trecento anni fa, rapito e venduto come schiavo in un continente sconosciuto, oppure un negro obbligato a raccogliere cotone cento anni fa nel sud degli Stati Uniti, o puoi essere persino un bianco del primo decennio degli anni duemila alle prese con una vita e con domande a cui non sai e non puoi dare risposte, puoi essere quello che vuoi, ma una cosa la devi sapere: non c’è pace per l’uomo di blues.

Charles Dodds jr, un ometto di colore piuttosto intraprendente, e Julia Ann Major, una donna di colore dallo sguardo fiero, si sposarono a Hazlehurst (Mississippi) nel febbraio del 1889. Nel corso degli anni Charles riuscì a diventare un piccolo possidente terriero, un carpentiere e un fabbricante di mobili in vimini, guadagnandosi rispetto ed una certa agiatezza. Con Julia ebbe sei figlie (due delle quali morirono in tenera età) e un figlio, con Serena (la sua mantenuta) ebbe altri due figli maschi. Nel 1907 fu costretto a fuggire (sembra travestito da donna) a Memphis a causa di un forte litigi con i potenti proprietari terrieri della sua zona (i fratelli Marchetti). Lì assunse il cognome Spencer e cercò di rifarsi una vita insieme a Serena, ai suoi due figli e ad alcuni figli avuti con Julia, la quale rimase a Hazlehurst con le figlie Bessie e Carrie. Julia, donna dal carattere indipendente, durante la lontananza da suo marito ebbe una relazione con un lavoratore di una piantagione, tal Noah Johnson. Da questa avventura l’otto maggio del 1911 nacque Robert Johnson.

Poco dopo la nascita di Robert i F.lli Marchetti strapparono la casa e la terra a Julia, costringendola a peregrinare di piantagione in piantagione lavorando duro, mentrela figlia Carridi otto anni si occupava del piccolo Robert. Questa vita durò un paio d’anni fino a quando Julia non decise di ricongiungersi col marito a Memphis. A quel punto (il 1914)la famiglia Spencer, ex Dodds, consisteva nel capofamiglia Charles, sua moglie Julia, la sua convivente Serena, i figli di entrambe ed in più Robert, il figlio illegittimo che Charles almeno all’inizio faticò ad accettare.

Non pare vi furono particolari tensioni all’interno della famiglia allargata, tuttavia Julia decise di andarsene per la sua strada, stabilendosi a Robinsonville, nel Mississippi, a circa sessanta km a sud di Memphis.

Robert rimase a Memphis conla famiglia Spencer. Unamattina di buon ora si appartò nei campi dietro casa in completa solitudine e cercò di decifrare con i suoi occhi da bambino, il mondo che lo circondava: il padre (ancora non sapeva che in realtà era il patrigno), la sua convivente, i fratelli, la madre scappata a sud, le comunità nere relegate ai margini delle città e dei villaggi. Tutto ciò gli apparve naturale vista la sua giovane età e il fatto che non conosceva che quello, ma ad un tratto in mezzo alla bruma scorse una allodola che emise un canto lamentoso.

L’allodola è un uccello originario di Europa, Asia e Africa settentrionale che successivamente fu introdotto in America; in quel momento l’allodola stava lanciando il suo nostalgico lamento all’indirizzo delle proprie terre d’origine. La similitudine con la condizioni dei neri americani può risultare forzata, ma resta il fatto che Robert ebbe un sussulto e capì, seppur bambino, che nella vita doveva esserci dell’altro. Nei mesi seguenti imparò i primi rudimenti di chitarra dal fratellastro Charles Leroy e mise in evidenza un caratterino per niente facile. Il patrigno finì per averne abbastanza, Robert non ubbidiva e faceva spesso di testa sua, così lo rispedì dalla madre a Robinsonville. Julia nel frattempo si era risposata (nel 1916) con Willie “Dusty” Willies, infaticabile lavoratore. Nei primissimi anni venti Robert prese ad interessarsi alla musica, ed iniziò a suonare l’armonica; insieme al suo amico RL Windum impararono alcune canzoni accompagnadosi l’un l’altro allo strumento.Ancora adolescente Robert fu informato del suo vero padre e sebbene fino al 1925 circa mantenne il cognome Spencer, assunse poi definitivamente quello con cui è universalmente conosciuto. Per noi ora è semplice identificarlo come Robert Johnson, ma la sciarada del nome portò parecchia confusione tra i suoi conoscenti: era infatti conosciuto come Robert Leroy Spencer, R.Spencer, Robert Dodds e naturalmente Robert Johnson, anche se nessuno lo chiamava così. Robert frequentò per breve tempola Indian Creek Schooldi Commerce, un paesino del Mississippi dove sua madre ed il nuovo patrigno lavoravano nella piantagione Abbay&Leatherman. La scuola però non faceva per lui e, con la scusa di avere una vista non buona (sembra fosse afflitto da una lieve cataratta che poi sparì), abbandonò il suo percorso di istruzione. Continuava ad essere attratto dalla musica così passò dall’armonica alla chitarra assorbendo gli umori musicali che pervadevano la zona dove viveva. In quel tempo l’area intorno a Robinsonville era visitata regolarmente dai più grandi musicisti blues: Charlie Patton, Willie Brown e Son House etc etc. Robert non perdeva occasione di seguire e di osservare questi ‘maestri’ mentre suonavano, a tal punto che divenne la mascotte, per tutti ‘il piccolo Robert’. Ricordò molti anni più tardi Son House: ‘Tutti noi suonavamo ai balli del sabato sera e questo ragazzino non se ne perdeva uno. Ricordo che suonava discretamente l’armonica ma la sua passione erala chitarra. Sene stava tutte le sere di fronte a me e a Willie Brown con gli occhi incollati alle nostre dita. Negli intervalli prendeva una delle nostre chitarre ma i risultati erano assai scarsi e tutta la gente gli diceva di smettere’.

(Cabins e Cabinets a Tallahatchie Mississippi – tipiche “abitazioni” del tempo di Robert Johnson).

Il ragazzino di cui parla Son House in realtà aveva circa vent’anni ed era già vedovo. Robert infatti si era sposato nel febbraio del 1929 conla sedicenne Virginia Travise i due si erano stabiliti a Prenton, appena fuori Robinsonville, nella casa della sorella Bessie e di suo marito. Virgina rimase incinta subito dopo ma morì di parto insieme al bambino nell’aprile del1930. Aquel punto Robert, che per mantenersi lavorava saltuariamente nelle piantagioni, capì che se voleva combinare qualcosa con la musica doveva fare sul serio; decise così di ritornare a sud nella natia Hazlehurst con l’intenzione di trovare suo padre. Erano gli anni della grande depressione economica ma Hazlehurst e buona parte del Mississippi centrale godevano di una certa prosperità grazie alle autostrade che venivano costruite in quei territori, garantendo lavoro a tutti. Non sappiamo se RJ abbia incontrato il padre, in compenso conobbe Ike Zinnerman, noto bluesman del posto che presto divenne il suo maestro. Robert conobbe anche Calletta Craft, una donna di dieci anni più vecchia di lui, con due matrimoni alle spalle e già tre figli piccoli; si sposarono nel maggio del 1931 mantenendo il loro matrimonio segreto. Per Calletta Robert era tutto, prese a riverirlo e a servirlo come fosse un re. Era lei che lavorava, lei che gli portava la colazione a letto, lei che credeva in lui anche quando stava lontano da casa o passava tutta la notte da Ike Zinnerman a imparare tutto il possibile sulla musica. Ogni qualvolta Robert aveva un momento libero si appartava nei boschi circostanti dove nessuno poteva sentirlo, a provare e riprovare le canzoni e i trucchetti che Ike gli aveva insegnato. Ogni tanto posava la chitarra, guardava le fronde degli alberi capendo ad ogni formarsi di pensiero che stava diventando un uomo che voleva qualcosa di più dalla vita. La sera del 6 giugno si sentiva più irrequieto del solito, prese la chitarra e si incamminò lungola strada.

Chieseun passaggio e dopo circa sei miglia chiese di scendere, ancora qualche passo ed arrivò ad un incrocio. L’oscurità della notte era già quasi scesa eppure a ovest gli ultimi bagliori di un tramonto tardivo infiammavano l’orizzonte ricurvo. Si mise a sedere, si accese una sigaretta e si abbandonò a quel silenzio fermo, schiarito dalla potente luce lunare. Imbracciò la chitarra quasi senza intenzione e un blues intenso iniziò a debordare dalla sua anima; dapprima fu una cosa quasi percussiva che poi si arricchì di un felice gioco di dita della mano destra e di slide. Quando lo scheletro della canzone fu terminato provò a cantarci sopra qualche cosa: ‘ Sono stato all’incrocio, sono caduto in ginocchio e ho chiesto al Signore di avere pietà e di salvare il povero Bob. Stando all’incrocio baby, il sole che sale e che scende, credo che il povero Bob stia affondando’. Sapeva che avrebbe dovuto risistemare quei versi, ma capì che aveva per le mani qualcosa di grosso. Come decise di intitolarla “Cross Road Blues” provò all’improvviso un forte bisogno di diventare un grande chitarrista e sentiva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per essere qualcuno. D’un tratto un forte vento si alzò, Robert si guardò intorno: i rami piegati degli alberi coprivano a tratti il tondo teschio lunare. Un paio di bagliori rossastri apparvero non troppo lontano da lui, proprio in mezzo al bosco come un paio di grandi occhi indagatori.

L’oscurità della notte cancellava i contrasti spazio-temporali, Robert non si vedeva più ma sentiva la propria presenza e aveva l’impressione di essere solo un pensiero, un filo di consapevolezza. Sentì l’anima liquefarsi e poi ricomporsi e finalmente capì che era giunto il momento di andarsene. I giorni seguenti Robert  sentì che si era trasformato in un uomo di Blues, quel tipo di uomo che ha la capacità di vedere e, a differenza di tanti altri, il coraggio di guardare. Iniziarono così le sue prime esibizioni pubbliche, alla domenica mattina agli angoli delle strade in paese e poi al sabato sera nei Jook Joints locali. Si spostò occasionalmente verso est a Georgetown o verso nord a Jackson, ma di regola se ne stava nei dintorni di Hazlehurst dove come musicista iniziava a farsi conoscere. A volte si presentava come R.L.Johnson dichiarando ai curiosi che R.L. stava per Robert Lonnie; questa era un piccola bugia, infatti il suo nome completo era Robert Leroy, ma Robert Lonnie Johnson era un musicista già molto noto che Robert stesso stimava e quindi giocava a confondere le acque. Il lungo soggiorno nel sud del Mississippi fu di grande importanza per Robert:nella contea di Copiah i tratti della sua personalità presero forma, il suo talento musicale sbocciò e la consapevolezza di essere pronto per altri orizzonti diventò un feroce desiderio di viaggiare. RJ prese così sua moglie e i ragazzi e partì diretto a nord, stabilendosi a Clarksdale. Lì le cose per un po’ andarono bene ma Callie, nonostante fosse una donna in carne e all’apparenza forte, non aveva una salute di ferro e crollò in modo definitivo quando Robert la lasciò, tornando disperata dai suoi genitori a Hazlehurst. Callie morì qualche anno più tardi e sebbene Robert tornò più volte dalle quelle parti, né lei né la sua famiglia lo rividero più. Robert aveva iniziato a viaggiare, dapprima cercando di imparare a viaggiare e poi viaggiando per imparare. Capì l’importanza dell’affidarsi alla strada e del fascino dell’imprevisto che di solito si abbatte sul viaggiatore. Già, la fecondità dell’ignoto era il faro che guidava il suo peregrinare, la scintilla che permetteva alla sua musica di esprimersi libera. Robert decise di fare una puntata giù a Robinsonville, un po’ per rivedere la sua famiglia e un po’ per mostrare a Son House e a Willie Brown i suoi progressi.

‘Un sabato sera stavo suonando in un paese chiamato Banks’ ricordò anni dopo Son House ‘insieme a Willie Brown e ad un tratto nel locale entrò qualcuno. Io e Willie riconoscemmo il piccolo Robert, aveva una chitarra con sé e per questo ci fece ridere; ci chiese di lasciargli qualche minuto e noi lo accontentammo. Si mise così a suonare e noi non credevamo alle nostre orecchie: era diventato molto bravo nel giro di poco tempo’.

Fu probabilmente da questo episodio che a Robert Johnson fu appiccicata la leggenda secondo la quale avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di diventare un gran chitarrista.

Per quanto suggestiva, va precisato che questa teoria è parte integrante della iconografia blues e dunque messa in relazione a tanti altri musicisti blues: chiunque mostrasse improvvisi miglioramenti allo strumento era coinvolto in queste voci. Si diceva infatti che se si vuole imparare a suonare uno strumento e a scrivere canzoni occorre recarsi ad un incrocio verso la mezzanotte, iniziare a suonare, attendere che un grande uomo nero appaia, prenda la chitarra, la accordi, suoni una canzone e che infine tela restituisca. Daquel momento si è in grado di suonare tutto quello che si vuole, unica controindicazione: da quel momento la anima del musicista appartiene al diavolo.

Robinsonville comunque non faceva più per Robert, egli cercava infatti un posto dove avere maggior visibilità e questo posto aveva il nome di Helena, città sul confine tra il Mississippi del nord e Arkansas. A Helena c’erano molti locali dove suonare, che all’epoca erano teatro di bollenti esibizioni dei bluesmen più in voga: Sonny Boy Williamson 2°, Elmore James, Memphis Slim, Howlin’ Wolf e decine di altri. Robert scelse quel posto come base per gli anni rimanenti della sua vita, il che gli permise di suonare e confrontarsi con i musicisti di cui sopra e di aggiungere lustro alla sua già brillante nomea. A Helena conobbe Estella Coleman, una donna che sin da subito lo amò molto e che lui ricambiò diventando guida spirituale per il figlio che Estella aveva avuto da una precedente relazione. Il giovane Robert Lockwood Jr aveva già mostrato una certa attitudine per la musica e avendo Johnson come maestro non poté che definire nel modo migliore il suo talento. RJ era molto geloso del suo modo di suonare e cercava di non mostrarlo a nessuno, solo Lockwood Jr ebbe la possibilità di penetrare i suoi segreti. La fama di RJ intanto continuava a propagarsi, non appena si spargeva la voce che avrebbe suonato in un dato locale, la gente si precipitava a vederlo. Viaggiare ormai era per lui la cosa principale, di notte, di giorno, non importava quando, egli era sempre pronto a mettersi in moto. A contatto con tante genti e posti differenti, la sua anima musicale si dilatò in modo impressionante; dovendo accontentare un po’ tutti arricchì il proprio repertorio, dai blues più sofferti o pieni di doppi sensi alle canzonette che si sentivano per radio in quel periodo. Diversi testimoni affermano che Robert era in grado di suonare una canzone a lui sconosciuta dopo averla sentita una volta sola, impressionando molti grandi musicisti del suo tempo. E’ quindi necessario iniziare a pensare che fosse un genio o comunque una persona con una intelligenza musicale fuori dal comune. Il suo fascino e la sua personalità poi fecero il resto: in ogni città in cui arrivava riusciva sempre a trovare una donna pronta ad accoglierlo. Il suo aspetto minuto e curato, le sue belle mani, i suoi lineamenti e il suo saper sussurrare dolci parole lo rendeva irresistibile tra le donne, che in genere erano più grandi di lui,  perché così potevano provvedere al suo sostentamento. Robert comunque poteva anche trasformarsi in un tipo assai duro a cui stare alla larga quando si dava al bere, al fumo e al gioco, ma a differenza di tanti altri colleghi non divenne mai schiavo di queste cose ( ma aveva una discreta propensione per il bere e le donne).

(battello a vapore a Greenwood Mississippi)

Professionista già molto conosciuto con un seguito di pubblico consistente, a metà degli anni trenta Robert capì che era giunto il momento di incidere dischi, si mise così in contatto con H.C.Speir,un bianco che aveva un negozio di articoli musicali a Jackson, dove si era costruito un piccolo studio di registrazione. Speir aveva fama d’essere un buon talent scout presso le case discografiche, le quali si affidavano al suo fiuto per capire in che artisti la gente di colore poteva essere interessata. Quando Johson lo contattò Speir era tuttavia disilluso: aveva appena siglato un contratto con la ARC secondo cui sarebbe stato pagato a seconda del numero di tracce registrate. Dei 178 ‘lati’ registrati la ARC scelse di pubblicarne solo 40. Speir piuttosto di ‘bruciare’ il nome di Johnson lo indicò a Ernie Oerte, un rappresentante e talent scout della ARC stessa. Dopo una veloce audizione Oerte decise di portare RJ a San Antonio per registrare. Arrivarono nella cittadina del Texas a fine novembre e lunedì 23 Robert entrò per la prima volta in studio. La stanzetta era semplice: una sedia, un microfono, le primitive apparecchiature per registrare dischi e Don Law, responsabile artistico delle sessions, pronto a partire. Robert prese una sorsata di whisky, si mise in un angolo e, rivolto al muro, iniziò a suonare quello che sarebbe diventata una parte fondamentale della musica americana. ‘Kindhearted Woman Blues’ fu la prima canzone in assoluto ad essere incisa da Robert e l’unica a contenere un assolo vero e proprio.

(Robert Johnson)

‘Ho una donna dal cuore gentile…ma queste donne diaboliche mi tormentano…è una donna dal cuore gentile che studia continuamente il maligno…potresti avere in mente di uccidermi’. Blues strascicato e reso stralunato dalla voce a tratti ironica, indifferente ed in falsetto.

(78 giri di Sweet Home Chicago)

Proseguì con ‘I Believe I’ll Dust My Broom’, ‘Sweet Home Chicago’, Rambling On My Mind’, ‘When You Got A Good Friend’, ‘Come On In My Kitchen’, ‘Terraplane Blues’ e ‘Phonograph Blues’. Ad un primo ascolto le canzoni possono sembrare simili tra loro, ma è bene soffermarsi sul fatto che siamo negli anni trenta , nelle comunità nere nel sud degli Stati Uniti e che ciò che realmente colpiva la gente erano i testi. Storie di tutti i giorni che i neri vivevano sulla loro pelle e che Robert scriveva con molta originalità. Di tutti i pezzi Robert ne registrò due versioni ma per alcuni titoli le ‘alternate takes’ non furono mai trovate. ‘Terraplane Blues’ gioca sui doppi sensi che posso scaturire paragonando una donna ad una automobile (la ‘Terraplane’ era infatti una berlina piuttosto comune tra il 1933 e il 1938).

(78 giri di Terraplane Blues)

‘Adesso ti alzo il cofano piccola e ti controllo l’olio…sto entrando nei tuoi contatti e quando avrò finito col tuo avviamento il cappuccio della tua candela mi darà fuoco’.

Con questa canzone Robert era già conosciuto e fu quindi logico farla uscire come primo singolo a suo nome, singolo che risultò poi essere il più venduto della sua carriera mentre era ancora in vita: circa 5000 copie. Nei due giorni successivi Robert fu arrestato per vagabondaggio e Don Law dovette pagare la cauzione per farlo uscire. Su richiesta del nostro bluesman, Law fu costretto inoltre a dargli dei soldi affinché Robert potesse pagarsi compagnie femminili.

(78 giri di Cross Road Blues)

Giovedì 26 novembre, tornato in studio, Robert registrò due versioni di ’32-20’, un pezzo dal ritmo sostenuto che si discosta non poco dall’andamento delle sessioni del lunedì precedente. Venerdì 27 novembre di nuovo in studio, Johnson sembra spiritato: ‘They’re Red Hot’ (dove si parla di ‘tamalas’ bollenti) la voce non pare nemmeno la sua e gli accordi e le progressioni che usa si discostano da quelli tipici del blues canonico. Col suo ritmo indiavolato ‘They’re red Hot’ doveva essere uno dei suoi pezzi forti quando voleva far scatenarela gente. Seguironole registrazioni di ‘ Dead Shrimp Blues’, ‘Cross Road Blues’, Walking Blues’, Last Fair Deal Gone Down’, ‘Preaching Blues’ e ‘If I Had Possession Over Judgement Day’. Finite le registrazioni Robert tornò verso casa con pressappoco cento dollari in tasca e sì, si sentiva un re. Non tutte le canzoni furono pubblicate, alcune vennero ritenute troppo licenziose, ma resta il fatto che oramai Robert Johnson era una star.

Portò con sé qualche copia dei dischi che regalò a parenti ed amici. Dopo un breve soggiorno a Helena ripartì insieme a Johnny Shines e a Calvin Frazier (quest’ultimo aveva ucciso un paio di uomini in Arkansas e doveva davvero andarsene) verso nuovi posti e quindi con nuove possibilità di viaggiare. I juke box avevano preso piede e la fama di RJ nei circuiti neri era al culmine. Sembra che si fece addirittura vivo suo padre Noah, sorpreso di avere un figlio così famoso; Robert poi alimentava la leggenda presentandosi sempre ben vestito e in ordine e scomparendo all’improvviso tanto da lasciare interdetti i suoi compagni di viaggio. Il suo senso del blues, la sua irrequietezza non lo lasciavano in pace e anche in piena notte, grondante di sonno, si sentiva costretto a mollare tutto e tutti e partire. I suoi itinerari non toccavano più soltanto le cittadine del Mississippi, del Tennesse e dell’Arkansas ma seguivano il vento del blues. St Louis, Memphis, il Canada, Detroit e New York videro il passaggio del re del blues. Il suo modo di suonare fu in parte influenzato da queste grandi città, ma in definitiva la vita urbana non sorprese questo venticinquenne ormai pieno di esperienza. In queste città si esibì con una band (batterista e pianista) e sembra che abbia provato l’emozione di suonare con una chitarra elettrica.

Nel giugno del 1937 venne di nuovo chiamato in studio per altre registrazioni, questa volta a Dallas. Lo studio era un vecchio magazzino e nelle parole di Don Law ‘dovevamo registrare al sabato e alla domenica, quando i rumori esterni dovuti al traffico diminuivano, e con le finestre chiuse. Il caldo era soffocante, lavoravamo a torso nudo con ventilatori sistemati in mezzo a blocchi di ghiaccio’. Come era accaduto nelle sessioni precedenti, tutti i pezzi vennero registrati due volte nel caso qualche master si rovinasse, ma anche in questo caso non tutte le ‘alternate takes’ sopravvissero. Rispetto alle registrazioni effettuate a San Antonio quelle di Dallas sono un tantino superiori per qualità  di registrazione e anche Johnson sembra, se possibile, più a suo agio, più professionale e con il completo controllo dello strumento. Sabato 19 giugno registrò ‘Stones In My Passway’, ‘I’m A Steady Rollin’ Man’ e ‘From Four Till Late’.

(78 giri di Hell Hound On My Trail)

Domenica 20 giugno fu la volta di ‘Hellhound On My Trail’, ‘Little Queen Of Spades’, ‘Malted Milk’, ‘Drunk Hearted Man’, ‘Me And The Devil Blues’, ‘Stop Breaking Down’, ‘Traveling Riverside Blues’, ‘Honeymoon Blues’, ‘Love In Vain’ e ‘Milcow’s Calf Blues’.

(78 giri di Love In Vain Blues)

Alcune di queste canzoni si basavano su motivi blues già esistenti, ovvero una sorta di traditional nati dai canti atavici degli schiavi neri, ma Johnson sapeva trasformarli in modo piuttosto originale tanto da farli suoi. I temi affrontati sono di quelli che ti torcono le budella e ti fanno capire come Robert Johnson era una cosa a parte: un uomo di colore illetterato, seduto in riva al mondo a contemplare e a discutere con se stesso i grandi quesiti esistenziali. Gli arguti intrecci tematici tra sacro e profano, tra felicità e sofferenza con il senso del tradimento e di assenza di via d’uscita nascosto in ogni piega delle parole. In ‘Me And The Devil Blues’ ricalca in modo esplicito quello che abbozzò in ‘Cross Road Blues’, ovverossia il disagio dell’inevitabile condizione dovuta al patto faustiano, coi riferimenti ai debiti che vanno pagati all’arte: ‘di prima mattina quando hai bussato alla mia porta ho detto salve satana, credo sia ora di andare…io e il diavolo camminiamo fianco a fianco e ora picchierò la mia donna fino a che non sarò soddisfatto’.

In ‘Hellhound On My Trail’ canta: ‘devo continuare ad andare, i blues cadono come grandine, i giorni mi tormentano, ho i cani dell’inferno sulle mie tracce’.

‘Traveling Riverside Blues’ non fu mai pubblicata per il testo dissoluto: ‘…adesso puoi spremermi il limone fino a che il succo non mi scenda lungo la gamba…’, c’è di che imbarazzarsi ancora oggi.

Lasciato lo studio di registrazione, Robert girò, insieme a Johnny Shines, il Texas e l’Arkansas. Difficile ricostruire l’ultimo anno di vita di RJ, ma d’altronde tutta la sua vita sfugge ad una ricostruzione decente. Il suo essere sfuggente e malinconico ma al contempo presente e determinato non lascia punti di riferimento precisi, tuttavia possiamo dire che Robert passò un po’ di tempo a Memphis, a Helena (dove tornò dalla madre di Robert Lockwood jr) e continuò a viaggiare tra il Mississippi e l’Arkansas. Johnny Shine, Robert Lockwood jr, Howlin’ Wolf e Son House lo accompagnarono per un po’ ma poi, per una cosa o per l’altra smisero di seguirlo come presagissero qualcosa. In agosto del 1938 Robert lasciò Helena per fare una capatina giù a Robinsonville per vedere i suoi parenti. Insieme a Honeyboy Edwards stazionò nei pressi di Greenwood, visto che a Three Forks (poco fuori il paese) un tizio proprietario di una Roadhouse aveva organizzato un ballo per un venerdì e sabato sera.

Il tizio andò in città per cercare musicisti e così vennero coinvolti tra gli altri RJ, H.Edwards e Sonny Boy Williamson 2°. Robert fece amicizia, per così dire, con la moglie del padrone del locale e pare che in quei giorni iniziarono a vedersi di nascosto. Essere un musicista a quel tempo significava anche dover affrontare difficoltà legate a gelosie e invidie. Gli altri musicisti ti odiavano se suonavi meglio di loro, le donne ti odiavano se ti davi da fare con qualcun’altra e gli uomini ti odiavano se ti vedevano parlare con le loro donne. Per uno come RJ, a cui non importava se la donna con cui parlava fosse sposata o no, la situazione era sempre sul punto di esplodere. La serata del 13 agosto del 1938 fu davvero un gran successo nel locale di Three Forks, molti musicisti si alternavano a suonare e per una volta la rivalità fu messa da parte e tutti si stavano divertendo. Robert continuò a prestare attenzione alla moglie del proprietario e questo causò forti tensioni. Sonny Boy Willamson se ne accorse e tentò di tenere la situazione sotto controllo. Durante una pausa qualcuno portò una bottiglia di whisky aperta a Robert, Sonny Boy pregò Robert di non bere ma Johnson non volle sentir ragioni. RJ tornò a suonare ma dopo poco dovette smettere perché non si sentì bene. Il marito geloso mise della stricnina nella bottiglia di whisky che Robert si scolò. Robert fu portato a casa di un amico e, essendo giovane e in buona salute, riuscì a passare la notte seppur tra dolori atroci.

Sembrava resistere ma sopraggiunse la polmonite (ricordiamo la cura per questa malattia fu trovata solo nel 1946). Robert Johnson aprì gli occhi e comprese ciò che gli stava capitando. Cercò di farsi forza ma si trovava impantanato tra le paludi della sua anima. Vide prendere forma lo spirito ribelle che gli permise di sfuggire alle odiose catene della tradizione, vide il senso di tormento e di disperazione tanto presente nei suoi testi, vide la sua visione del mondo e delle cose sospesa tra peccati e redenzioni. Robert forse vide anche un grande uomo nero venuto a reclamare ciò che avevano pattuito anni prima nei pressi di un incrocio. Con molta fatica volse lo sguardo alla finestra: uno scarabocchio di strada era l’unico ed ultimo orizzonte. Spostò lo sguardo su di un prato e vide un mare di tenebre violette. Guardò il soffitto, pensò alla canzone che stava scrivendo, cercò di intonarla. La immaginò finita e registrata con tanto di batteria, pianoforte e chitarra elettrica e sorrise al pensiero di come sarebbe stata accolta: era forse troppo strana, slegata come era dai blues fino ad allora conosciuti. Ricostruì a mente il giro armonico, gli accordi strani e l’assolo che aveva in mente di fare, mentre il piano teneva la ritmica. ‘potrei chiamarla Blues n.30’ pensò tra sé e sé, oppure ‘Greenwood Lady’ aggiunse sorridendo amaramente. ‘No meglio chiamarla Searching For’ e ironizzando con se stesso sogghignò ‘già, Searchin’ For Robert Johnson, The King Of Delta Blues’.

(Greenwood Mississippi)

Robert si spense martedì 16 agosto 1938. Sua madre fu presente al funerale e il corpo fu seppellito vicino alla vecchia Zion Church di Morgan City, Mississippi, ad un tiro di schioppo dalla ‘sua’ Mississppi Highway 7.

(La  Zion Church di Morgan City, Mississippi)

Non sapeva che in Inghilterra il Melody Maker aveva recensito l’anno prima uno dei suoi singoli giudicandolo molto positivamente. Non sapeva che  John Hammond a  fine 1938 lo avrebbe cercato per portarlo alla Carnegie Hall di New York per il Spiritual Swing Concert che stava organizzando. Non sapeva che se fosse vissuto almeno un altro po’ avrebbe avuto un successo enorme. Non sapeva infine, che anche così, con quei 29 pezzi sarebbe diventato il più grande, il Re incontrastato del Blues.

Postilla:

Studiosi di blues rintracciarono decenni dopo l’uomo che avvelenò Robert. Riuscirono ad entrare in casa sua e a parlargli e questi, prima di ricevere domande precise, prese a giustificarsi e a crearsi alibi, il che lascia intendere molto. Questi studiosi non poterono rivelarne il nome per non avere noie legali, dato che non fu mai avviata una inchiesta. Chissà se quello sciagurato ebbe mai crisi di coscienza, ma pensandoci direi che è altamente probabile dato il successo postumo di Robert Johnson.

Immaginiamo che lo sciagurato in questione passò anni tormentato dall’idea non solo di avere ucciso un uomo, ma di avere ucciso il Re del Blues.

Caroline Thompson, la sorella di Johnson, morì nel 1983 e fino ad allora fu lei ad avere la eredità (essendo l’unica ad essere rimasta in vita sino a quegli anni) di Robert Johnson.

Caroline a sua volta nominò suoi eredi i nipoti Robert M. Harris e Annye C. Anderson (certo, Robert morì senza avere possedimenti, ma avendo lasciato registrazioni così importanti, essere sue eredi legali significava avere entrate non indifferenti,).La “Estateof Robert Johnson” prese corpo nel 1989 e nel 1991 arrivarono agli eredi le prime royalty.

Ai due nipoti di Carrie si contrappose Claud L.Johnson, sostenendo d’essere figlio di Robert Johnson.

La Suprema Corte DelMississippi in data 15 ottobre 1998 si pronunciò a favore di Claud.

Sembra infatti che la madre di Claud, Virgie Mae Cain, intrattenne una relazione intima con Johnson nel 1931, da cui il 16 dicembre dello stesso anno nacque Claud.

Non essendo stato possibile effettuare test del dna (il corpo di Johnson riposa in un posto non ben precisato, sebbene molti sostengano che con ogni probabilità fu seppellito vicino alla chiesa di Zion) il giudice si è basato sui racconti di vari testimoni.

Sembra così che molti ricordino la relazione tra Robert e Virgie Mae e che Robert sapesse della gravidanza, tanto che, una volta nato il bambino, fece in un paio di occasioni una salto per vedere suo figlio. Una testimone, all’epoca dei fatti amica di Virgie Mae, durante la deposizione ha addirittura raccontato che un giorno durante la primavera del 1931, lei e il suo ragazzo andarono insieme a Virgie e Robert a fare una passeggiata nei boschi e che le due ragazze iniziarono poi a fare l’amore con i propri fidanzati. Con dignità e senza eccessivi imbarazzi raccontò alla corte che vide Virgie e Robert accoppiarsi.

L’atto del tribunale è consultabile in internet.

DISCOGRAFIA:

A parte i singoli pubblicati all’epoca, la Columbia pubblicò alcuni decenni dopo i due album leggendari ‘King Of Delta Blues Volume I e II’ contenenti tutti i suoi 29 pezzi di cui tre in doppia versione. Oltre a questi, numerose compilation sono state realizzate nel corso degli anni, alcune della quali contengono le otto alternate takes rimanenti. Il cofanetto di cui parliamo qui sotto è comunque quello che serve. La leggenda dice che esiste anche una ulteriore canzone, registrata durante una delle due sessioni del 1936 e 1937, che Johnson suonò più che altro per divertire i tecnici dello studio, visto che si tratterebbe di un pezzo dai contenuti molto sconci.

Robert Johnson

The Complete Recordings

(Columbia CBS 1990).

Come detto in  questo cofanetto di due cd, accompagnato da un gran bel booklet interno, ci sono tutte le 41 registrazioni sopravvissute. Da queste, oltre che per la tecnica – per l’epoca davvero apprezzabile- e per il significato dei testi, si può dedurre facilmente che la grandezza di Robert Johnson si deve anche al richiamo emotivo. ‘Come On In My Kitchen’ e ‘Love In Vain’ possono commuovere fino alle lacrime, ‘From Four Till Late’ può incantare per la sua spiccata melodia. ‘Stones In My Passway’, ‘Hellhound On My Trail’ e ‘Me And The Devil’ possono far sprofondare chiunque in una cupezza soffocante. Ogni canzone comunque è una vetrina per chi voglia osservare l’animo umano e per i musicisti che sentono il bisogno di capire da dove è nato tutto e che non si sentono appagati nel suonare il blues come fosse un esercizietto. Il blues per suonarlo  ( e non importa se bene o male) occorre averlo dentro.

Materiale in relazione con Robert Johnson:

Peter Guralnich

Robert Johnson: In Cerca Del re Del Blues

(Arcana 1991)

Libro che tratta i frutti di una ricerca storica ben fatta; peccato che le traduzioni in italiano dei testi lascino a desiderare.

The Search For Robert Johnson

(Sony 1992)

VHS da capogiro. Documentario girato intorno a John Hammond jr il quale come suggerisce il titolo, è alla ricerca di RJ. Immagini del Mississippi, dei posti dove Robert è stato (Robinsonville e Greenwood inclusi), interviste a ex donne di Robert ( una di queste, ormai anziana, si commuove con una dignità senza pari mentre ascolta ‘Love In Vain’, che Robert probabilmente scrisse per lei), interviste a Honeyboy Edwards e Johnny Shines e a quello che sembra essere il figlio del nostro Re del blues, tal Claud L. Johnson .72 minuti di puro fascino blues, malgrado l’assenza di sottotitoli renda spesso indecifrabile l’inglese sbiascicato dei vecchi bluesmen.

Mississippi Adventure

Film del 1986 che imbastisce una storia secondo la quale un ragazzino bianco di Long Island trova Willie Brown ricoverato in un ospizio e gli promette di farlo fuggire se questi gli insegna il trentesimo pezzo mai edito di RJ. Segue viaggio nel Mississippi. Il film è piuttosto leggerino, ma quando il flashback iniziale ricrea Robert Johnson nello studio di registrazione, beh…è roba da palpitazioni. La colonna sonora è deliziosa ed è opera del grandissimo Ry Cooder. Nel finale (nella scena del duello di chitarra) cameo di Steve Vai.

Varie

La musica di Robert Johnson è stata reinterpretata da migliaia di artisti ed è quindi impossibile stilarne un elenco degno di nota, basti citare (lo so, scelta assai banale) i due esempi forse più eclatanti, ovvero la versione live di ‘Crossroads’ dei Cream e ‘Love In Vain’ dei Rolling Stones.

Poi naturalmente Ry Cooder, Muddy Waters, Elmore James, Johnny Winter, Led Zeppelin (oltre a ‘Traveling Riverside Blues’ dalle loro BBC sessions, e a ‘The Lemon Song’ dal secondo album dove il testo cita la famosa frase di RJ, Trampled Underfoot da Physical Graffiti non è altro che una rilettura del testo di Terraplane Blues), White Stripes (‘Stop Breakin’ Down’ dal 1° album) e tanti, tanti, tanti altri.

(Tim Tirelli 2004 © – pubblicato originariamente su CLASSIX! n.4)

https://timtirelli.com/2015/06/05/classix-5-gennaio-2005-robert-johnson/

Flashes from the Archives of Oblivion: JOHN CAMPBELL “BLUES BELIEVER”

10 Ago

Così come nelle edicole delle località di mare compaiono in estate vecchi numeri di fumetti riconfezionati e in offerta speciale, così Il blog ad agosto ripropone vecchi articoli apparsi anni fa nella speranza di non annoiare troppo chi ci segue da sempre e magari di intrattenere i nuovi lettori con scritti pieni di polvere. Buona lettura.

Artista americano dallo spirito zingaresco, come si conviene ai musicisti blues puri d’animo, John Campbell incarna la figura asciutta del chitarrista-cantante blues un po’ defilato che osserva, ascolta, elabora e racconta vecchie e nuove storie di vita…storie di blues

(Tim Tirelli 2003 – pubblicato originariamente su CLASSIX n.2)

Di solito quando si pensa a chitarristi di blues bianco ci s’immagina blues fumanti ed elettrici, dove le Gibson e le Fender fanno fischiare gli amplificatori; con John Campbell non è proprio così, o almeno non in senso stretto, poiché il nostro si è sempre appoggiato a chitarre particolari: una splendida Gibson Southern Jumbo acustica del 1952 (elettrificata con pick up) ed un paio di National (del 1934 e del 1940).

Questo non significa che il blues di John Campbell manchi di quel mordente e di quella fisicità così necessari per godere appieno della nostra musica, ma è una forza diversa, più sottile eppure greve, più leggera eppure pesante…sembra un paradosso ma alla fine queste teorie un po’ azzardate prendono corpo nella musica di John Campbell.

Nato a Shreveport (Louisiana) il 20 gennaio 1952 e cresciuto a Center (texas), per la giovane anima di John campbell fu del tutto naturale assorbire l’umido spirito blues del sud degli Stati Uniti e trovarsi in armonia con la disarmonia degli altri, di se stesso e del mondo: in altre parole si scoprì uomo di blues.

(Shreveport, Louisiana)

Ebbe la sua prima chitarra nel 1960 tuttavia fu nel 1967 che decise di fare sul serio con la musica e con il blues. In seguito ad un serio incidente avvenuto quando aveva 15 anni (si dilettava nelle corse dei dragster) che gli costò un occhio, il collasso di un polmone e diverse costole rotte, John fu costretto ad una lunga convalescenza.

“Ero così malridotto dopo l’incidente e le plastiche facciali relative che sembravo una mummia. Non ho potuto camminare per un bel po’, così iniziai ad ascoltare la musica…John Lee Hooker, Howlin’ Wolf , Muddy Waters, e a suonare seguendo i loro dischi. Non potevo esprimermi verbalmente a causa delle ferite, così il blues diventò uno sfogo. In quei momenti compresi che nella vita non avrei fatto altro”. Parole di John Campbell che l’anno seguente lasciò la scuola, la famiglia, salì su di un bus con la chitarra e con dieci dollari in tasca e andò incontro alla vita.

Da bravo musicista blues capì ben presto che il meglio che poteva aspettarsi era di evitare il peggio.

E il meglio significava suonare il più possibile, dove possibile: 14/15 ore al giorno con la chitarra in mano a vergare vecchi e nuovi blues nei campus universitari, nelle stazioni di servizio, agli angoli delle strade.

Fu in quegli istanti che per John Campbell il tempo cambiò forma e le notti diventarono un’unica notte dilatata, fu allora che comprese definitivamente che pur non esistendo il destino era destinato a spendere la sua vita sotto i colpi del blues.

In questo evitò il peggio, sebbene gli toccò lavorare saltuariamente in una fabbrica chimica e vendere il sangue per potersi comprare una chitarra, le corde per suonarla e qualche panino.

Un giorno ricevette una lettera da un amico che viveva a New York: “Dovresti fare un salto quassù, c’è una scena blues di tutto rispetto e potresti inserirti anche tu”.

Questo il consiglio dell’amico che Campbell prontamente seguì.

Gli scenari di New York infettarono la musica di JC come ricordò in seguito lo stesso musicista:

“Ero abituato a suonare la chitarra acustica ma dove vivevo (a Willamsburg, Brooklyn) i treni della metropolitana passavano in superficie a pochi metri dalla mia finestra, così fui costretto a procurarmi un pick up ed un amplificatore per potermi sentire mentre mi esercitavo a casa. Era come se la città volesse ingoiare una semplice chitarra solitaria.”

In una notte come tante, John stava suonando in un club come tanti quando Ronnie Earl (chitarrista con già una certa carriera alle spalle) entrò nel locale. I due si erano già conosciuti anni addietro in Louisiana e finirono per passare tutta la notte nel retro del locale a parlare e a suonare i loro blues preferiti. Ronnie Earl decise così di portare Campbell in studio e di produrgli un album.

Il 18 e il 19 aprile del 1988 si ritrovarono negli Splice Of Life Studios di Brighton (Massachussets) con un pugno di musicisti a registrare quello che diventerà A Man And His Blues, disco uscito nel 1988 per l’etichetta tedesca Crosscut Records.

Sin dalla prima canzone, Going To Dallas (di Lightning Hopkins) è possibile carpire l’alto lignaggio del blues proposto da JC. Voce profonda, animo scosso da rivelazioni continue e il completo controllo dello strumento. Sugli stessi binari si muovono Bluebird e Deep River Rag, prove esemplari di come una chitarra possa da sola riempire tutti gli spazi necessari.

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Gli episodi migliori di A Man And His Blues sono infatti quelli dove Campbell si esibisce da solo o insieme alla chitarra di Ronnie Earl.

La piccola etichetta tedesca poté far ben poco per promuovere il disco così JC piano piano scivolò verso situazioni difficili. Dovette vendere la sua amata National (appartenuta a Lightning Hopkins, storico bluesman americano) e lavorare in un guitar shop per poter vivere.

In quei tempi John Campbell cercò di lasciarsi trasportare dalla  continuità di una vita apparentemente normale; mentre serve i clienti gli passano per mano tante chitarre ma può dire che le suona? Che le sente sue? Non è certo questo che lui chiama “avere a che fare con la musica”.

Dentro di sé sente che sta attraversando un ponte sul vuoto, che sta andando incontro al peggio, quando il fato gli riserva una sorpresa facendogli ritornare per le mani la sua vecchia chitarra National.

Questo genere di “segnali” sono patrimonio della tradizione blues a cui occorre sempre prestare la massima attenzione. Riscattata la chitarra, John torna alla vita che gli compete, se possibile con impeto maggiore. Si unisce ai musicisti che abitualmente suonano blues in un ristorante vietnamita e le cose iniziano ad aggiustarsi. Sempre più gente accorre a vedere questo ensemble che ha nelle sue fila un chitarrista davvero speciale. La voce si sparge in fretta e in poco tempo si ritrovano ad esibirsi al Lone Star Cafè, locale piuttosto “in” di New York.

John Campbell suona, chiude gli occhi e sogna: il fischio ed il getto di vapore che si levano dalla macchina del caffè simulano quelli di una locomotiva, il fumo ed i vetri appannati richiamano le nebbie calde del Mississippi. L’animo di John Campbell fiuta lo spirito del blues, lo segue, lo cattura e ne rafforza i significati…

L’uomo della Elektra presente nel locale rimane rapito dalla forza musicale di JC, ne capisce il potenziale e prende la decisione di metterlo sotto contratto.

One Believer, il primo disco di Campbell per una major, esce nel 1991 e l’immagine del volto del chitarrista ritratto in copertina lascia già intuire il calibro dei blues in esso contenuti.

“L’album è un faccia a faccia con quello che stavo provando in quel momento, è un album lento ed ombroso, dentro ci sono tutti i miei fantasmi, gli scheletri che avevo nell’armadio danzavano nel mio appartamento; l’album fu un esorcismo.” E’ in questo modo che JC parlò di One Believer, album che descrive con lucidità i contorni del personaggio in questione.

Registrato e missato in California tra marzo e maggio del 1991, One Believer è una raccolta preziosa di blues sofferti ed esoterici; sì, perché solo chi è consapevole della propria coscienza blues può trovare appaganti le oscure metafore che escono dai cantati di JC e tradurli secondo la propria sensibilità. Ci sono un paio di episodi veloci nel disco, ma è il resto a colpire davvero: una catena di blues lenti e profondi dove la band accompagna con discrezione la chitarra e la voce di JC.

Nel brano d’apertura JC canta:

“Ho il diavolo nel mio ripostiglio e il lupo alla porta” ed è il preludio ad un’esplosione di tematiche che turbano ed affascinano.

In Angel Of Sorrow Campbell infierisce ulteriormente:

“Signore che sei lassù, so che è tardi nella vita per dire la mia prima preghiera, non sono qui a chiedere pietà per la mia anima tormentata, perché dopotutto inferno o paradiso per me è lo stesso, ma dammi solo un ultimo respiro per potere dire addio alla mia piccola.”

Mischiare sacro e profano, tirare in ballo demoni, cani dell’inferno e voodoo non è certo una novità nel blues, ma il modo in cui lo fa JC rende a questi temi una nuova freschezza. Sarà anche solo una sensazione, ma sembra che John Campbell contribuisca realmente a rimodellare in maniera seria la più nobile tradizione blues. Lontano dall’approccio ormai patinato e buono per tutti di chitarristi bianchi come Eric Clapton, lontano dal blues cabaret di musicisti neri come BB King, John Campbell sembra essere partorito dal pulviscolo blues originato dal big bang primordiale, quello che generò i padri putativi della “musica del diavolo”: Robert Johnson, Son House e compagnia bella.

(Foto di nozze: John e sua moglie Dolly)

Il suo lavoro alla chitarra poi si avvicina al sublime, scansando le facilonerie dei trucchetti rock blues fini a se stessi, privilegiando invece gli aspetti più tenebrosi ed emotivi, ricamando trame e fraseggi con tecnica cristallina.

“Alberi nudi d’inverno, ormai è buio, un uomo cammina lentamente da solo nel parco, la sua mente è piena di visioni che solo lui vede e Signore, egli assomiglia molto a me.”.

Stralcio tratto dal testo di One Believer, canzone che chiude e che forse meglio rappresenta il disco.

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I versi delle strofe affondano in una stesura in minore, cupa e malinconica, mentre il ritornello tenta una esplosione in maggiore che rischiara, almeno in parte, le tenebre iniziali. Per One Believer non si può parlare di vero e proprio successo commerciale, ma l’album andò in ogni caso bene e il nome di JC iniziò finalmente a circolare.

Il resto del 1991 JC lo passò in tour accompagnato da una band tutta sua, e aprì per più di sei mesi ogni data del tour di Buddy Guy, arrivando anche in Europa.

La stessa cosa successe per la prima metà del 1992: tour americano ed europeo si susseguirono, aprendo concerti per Johnny Winter e Albert Collins, partecipando a festival importanti (tra cui il Montreux Jazz Festival) e suonando molte date come artista principale.

Fu quindi tempo di registrare il secondo album per la Elektra. Howlin’ Mercy prese corpo grazie a recording sessions avvenute nell’agosto del 1992 agli studi  Power Station e missate  agli Ardebt Studios di Memphis nel settembre dello stesso anno.

“Per Howlin’ Mercy il mio approccio fu differente. La mia vita improvvisamente divenne piena d’energia: avevo una band con cui vissi on the road per molti mesi insieme a Buddy Guy, così le canzoni di Howlin’ Mercy risultano più muscolose, allo stesso tempo sono frutto delle mie vecchie radici e della nuova direzione in cui stavo andando.”. (John Campbell)

Howlin’ Mercy si differenzia da One Believer prima di tutto per i mezzi a disposizione: la produzione è curata e ricercata, frutto senza dubbio di un budget sostanzioso e di una impostazione quasi mainstream; la band poi è più presente, in generale si sente un approccio più rock e anche la voce di JC è cambiata essendosi fatta più roca, perdendo forse un po’ di quella sobria profondità che aveva caratterizzato l’album precedente. L’aspetto naif senza compromessi di One Believer rimane così il punto più alto della produzione di John Campbell, non a caso una delle canzoni migliori di Howlin’ Mercy è Love’s Name, ipnotico slow blues che richiama alla mente i sapori e le atmosfere di One Believer. Howlin’ Mercy comunque si difende bene: Saddle Up My Pony è un vecchissimo traditional rispolverato da JC alla sua maniera; una lunga introduzione di chitarra slide penetra segreti atavici, poi con una decisa sciabolata entra la band e, liberata la slide dai suoi torpori più tristi, trasforma tutto in una furiosa cavalcata elettrica. Nell’album sono riproposte Down In The Hole di Tom Waits e a sorpresa When The Levee Breaks dei Led Zeppelin.

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Howlin’ Mercy impose definitivamente la figura di John Campbell che, pur restando artista di culto, iniziò a godere di una discreta popolarità.

Howlin’ Mercy uscì nel 1993, cui fece seguito un’altra lunga tournèe. Marzo JC lo passò in Europa a suonare in Inghilterra, Danimarca, Francia, Germania, Italia e Irlanda, aprile fu speso negli Stati Uniti tra Texas, Louisiana, California, Georgia e Tennessee.

JC era contento di come si stavano mettendo le cose, ma iniziò a sentirsi affaticato e sperduto.

Per la prima volta estraneo gli apparve il mondo e ogni volta che si separava dalla chitarra al termine di un concerto, sentiva una spinta furiosa verso il basso. Fatica? Vecchi Demoni? Le sue antiche ferite? JC non era in grado di stabilirlo. Una sera, coricandosi, ebbe l’impressione di avere i cani dell’inferno alle calcagna, ne sentiva gli ululati, ne percepiva l’eccitazione. Si rese conto che i suoi blues stavano prendendo forma, li vide saltellare intorno al letto: li scacciò abbozzando un sorriso e si rimise a sognare. Da quel sogno non si svegliò più. Colpito da un infarto, John Campbell morì a New York il 13 giugno 1993…aveva 41 anni.

JOHN CAMPBELL – DISCOGRAFIA

Avendo registrato soltanto tre album durante la sua breve vita, è facile arrivare alla conclusione che non ci sono capitoli scadenti nella discografia di John Campbell. Probabilmente JC se ne è andato portando dentro di sé il suo album definitivo, quello che avrebbe potuto consacrarlo, l’album, come si suole dire, della definitiva maturità.

Queste ad ogni modo, le testimonianze che ha lasciato:

A MAN AND HIS BLUES (Crosscut Records 1988) – JJJ1/2

Registrato  in soli due giorni con la supervisione di Ronnie Earl, l’album è poco più di una autoproduzione: nei duetti di chitarra Campbell/Earl come Sittin’ Here Thinkin’ ci sono piccole sbavature dovute alla fretta e alla registrazione in diretta. Ma d’altra parte il disco risulta fresco e i pezzi dove JC si produce in performance voce/chitarra sono quasi magici: Bluebird e Going To Dallas in primis. Lo strumentale Deep River Rag fa capire che razza di chitarrista magnifico fosse JC. A Man And His Blues è stato ristampato nel 1994 dalla Blue Rock-it Records.

ONE BELIEVER (Elektra 1991) – JJJJ

Il magnetismo di quest’album è inarrivabile: se lo si ascolta in inverno, dalla chitarra e dalla voce di JC si alzano nuvole calde di vapore nell’aria gelida di vetro, se lo si ascolta in estate si alzano folate di vento freddo nell’aria afosa e liquefatta. La disperazione di Angel of Sorrow, gli avvertimenti di World Of Trouble, la folle corsa in macchina di Take Me Down dove “ gli insetti si spiaccicano contro il parabrezza e diventano piccole esplosioni rosse di sangue…l’acceleratore è al massimo, ho un istinto suicida e i cani dell’inferno ululano e presto mi raggiungeranno…”. Il lavoro di chitarra poi è complementare a queste visioni e ne rende più nitide le immagini. John Campbell era davvero un gran chitarrista. Il disco si chiude con One Believer, ultimo gioiello di un album che gli amanti della buona musica dovrebbero avere.

HOWLIN’ MERCY (Elektra 1994) – JJJJ

Registrato dopo mesi passati on the road con una band stabile, Howlin’ Mercy è un disco più levigato e impreziosito da una produzione curata e piccante. Il gruppo acquista importanza e si fa sentire con convinzione. I blues di Campbell si fanno più duri e a volte tendono a scappare verso territori tipici del rock americano d’autore. I temi comunque restano ancorati al blues sincero di JC, quello che ti penetra dal basso e come fosse una lama ti taglia l’animo.

Blues per puristi in Saddle Up My Pony , blues rock americano in Ain’t Afraid Of Midnight, Look What Love Can Do e Firin’ Lane e piombo Zeppelin in When The Levee Breaks qui riproposta in una versione assai convincente.

TYLER, TEXAS SESSION (Sphere Sound Records 2000)

Album postumo contenente alcune registrazioni fatte da JC prima che la Elektra entrasse in scena. John insieme alla sua chitarra alle prese con alcuni dei blues più classici: Can’t Be Satisfies, Rollin’ Stone, Terraplane Blues, Mojo Hand.

 

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QUESTA LA VERSIONE APPARSA SULLA RIVISTA CLASSIX NEL 2004.

https://timtirelli.com/2015/06/26/classix-2-febbraio-2004-john-campbell/

GRETA VAN FLEET “Anthem of the Peaceful Army” (Republic Records – 2018)

22 Ott

Introduzione

Qui sul blog abbiamo iniziato a parlare dei GVF più di un anno fa. Ci piaceva il fatto che, pur facendo indubbiamente il verso al nostro gruppo preferito, la band sembrasse vera e animata dal giusto senso del rock; di solito non amiamo particolarmente chi scimmiotta i LZ, sia che si tratti di gruppi famosi che di semplici tribute band, chi diventa una macchietta, chi imita la gestualità e il modo di cantare di Plant trasformandosi il più delle volte in un comico e inguardabile clone. Apprezzammo dunque i due EP pubblicati ad inizio e a fine 2017 anche perché tenemmo conto della giovanissima età del membri del gruppo.

Lo scorso luglio poi uscì il nuovo singolo (“When the Curtain Falls“) e le nostre simpatie iniziarono a stemperarsi. I riferimenti ai Led Zeppelin erano ancora molto evidenti e la cosa spense un po’ il nostro interesse. Il gruppo era ancora molto giovane ma un anno e mezzo passato costantemente on the road aiuta a maturare in fretta, dunque ci si aspettava anche dal punto di vista del songwriting un passo in avanti. Scrivemmo due considerazioni personali su facebook e quindi decidemmo così di non interessarci più di tanto del gruppo. La cosa divenne però più ardua del previsto.

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Due sabati fa son li che scarico, dal camion del rivenditore, la prima parte di pellet per il nostro fabbisogno invernale. Il tipo inizia a parlare di rock. Io taccio, non ho voglia di infilarmi in discorsi superficiali circa la musica che preferisco, la pollastrella invece non perde l’occasione per tornare su uno dei suoi interessi principali. Faccio avanti indietro tra il cortile e il lato più oscuro del garage con dei sacchi da 15 kg sulle spalle mentre sento parlare di Deep Purple e di AC/DC e quindi dei Greta Van Fleet. Mi dico, ma guarda un po’ questi ragazzini, sono riusciti ad arrivare anche qui tra i sentieri dell’Emilia più profonda.

Mercoledì scorso vado alla Bottega dei Briganti a vedere una (discutibile) tribute band dei Clash. La Bottega è uno dei locali che di solito frequento. Ci ho suonato più volte col mio gruppo e con Valerio, il titolare, ho un ottimo rapporto. E’ sempre molto occupato, ma mentre ceniamo viene a fare due chiacchiere e, tra le altre cose ci dice: “voglio prendere i biglietti per andare a vedere i Greta Van Fleet a Milano”.

Sabato scorso. Torna il tipo a portarci la seconda parte del pellet. Il primo argomento è “possibile che i biglietti per il concerto dei Greta Van Fleet siano andati esauriti in due minuti”.

Va beh, mi prendo il nuovo album, appena uscito, lo metto sulla chiavetta e me lo ascolto una prima volta. Mi faccio un’idea, ma poi mi dico: “ne devo scrivere sul blog?“, ormai i GVF sono diventati un argomento che genera qualche tensione. Rifletto su quanto carissimi amici hanno scritto e mi hanno detto.

Amico P (musicista: cantante/chitarrista e genio a tutto tondo): “guarda, io li prendo per quello che sono senza farmi tanti problemi sul paragone con i LZ. Jacob Kiszka io lo vivo come chitarrista americano, più che come adepto di Page. Se proprio vogliamo magari mancano i due o tre pezzi di valore superiore”

Amico U (musicista: chitarrista): scrive un concetto che si può riassumere con queste parole: “ma come si fa a criticarli? Sono una delle vere poche nuove rock band venute fuori in questi ultimi tempi. Criticarli significa contribuire a far sparire il Rock”

Amico G (giornalista musicale):  “Lo so molti di voi contestano i GVF perchè “copiano”… Fatti vostri. Dico solo che facendo i saccenti e i criticoni con tutto, abbiamo fatto scomparire le chitarre e ci siamo meritati il trap/rap/rutt/scorregg che ci sta sovrastando. Poi voi fate come volete. “

Amico R (musicista/chitarrista): “Mi piacciono, gran chitarrista, li sto ascoltando compulsivamente da ieri. Datemi retta questi (a parte il batterista) hanno le palle quadre a 20 anni”

Amico B (giornalista musicale): “Ieri ascoltavo i GVF e mi domandavo come facessero a piacere a te che sei molto caustico nei confronti degli imitatori dei LZ. Io non riesco a  trovarci un tratto distintivo”.

Amico P (star della subacquea / scrittore e filoso alternativo di rock): “Bah…”

E ora cosa scrivo? Come li affronto? Mi atteggio a “saccente e criticone” come scrive il mio amico G o li vivo di pancia rallegrandomi delle loro influenze? Mi interrogo sullo stato del Rock (diciamo così, classico) che sembra non andare oltre ai riferimenti dei bei tempi andati o devo felicitarmi perché se non altro una nuova band Rock (voce, chitarra, basso e batteria) sta assurgendo agli onori delle cronache?

E se li critico, con che faccia tosta mi presento? Io che se vado a riascoltare i miei demo del passato non posso che trovare nelle mie canzoni richiami ai Led Zeppelin, io che suono in una tribute band (seppur obliqua) del gruppo di Page?

E poi, anche i LZ presero a man bassa dal blues per i primi due album… certo, mi si obietterà, loro però trasformarono il tutto in una proposta decisamente nuova contribuendo in maniera definitiva a scrivere la storia del Rock, mentre i GVF sembrano semplicemente riproporla; d’altra parte siamo nel 2018, gli alfabeti musicali sono consunti, il terreno del songwriting ormai non è più fertile, non ci si può più aspettare granché, a dispetto di chi pensa che il rock non morirà mai.

Medito un po’ sul da farsi, poi decido: I don’t give a damn! Scrivo in modo schietto e sincero senza curarmi di nulla, questo è un misero blog personale, mica la rivista Mojo. I miei amici mi perdoneranno, il dio del Rock anche, se non li difendo a spada tratta.

Greta Van Fleet “Anthem of the Peaceful Army” (2018 Republic) – TTT½

1. Age of Man – 2. The Cold Wind – 3. When The Curtain Falls – 4. Watching Over – 5. Lover Leaver (Taker Believer) – 6. You’re The One – 7.  The New Day – 8. Mountain of the Sun – 9. Brave New World -10. Anthem

  • Joshua Kiszka – vocals
  • Jacob Kiszka – guitar, backing vocals
  • Samuel Kiszka – bass guitar, keyboards, backing vocals
  • Daniel Wagner – drums, backing vocal

Age Of Man apre l’album in modo positivo. Il sound si arricchisce delle tastiere (suonate dal bassista … altra similarità). La voce di Joshua Kiszka è penetrante, e ancora non so decidere se mi piace o mi infastidisce un po’. Di certo il ragazzo è dotato. Magari esagera un po’ usandola spesso a tutta potenza, come d’altra parte nei primi due album era solito fare Plant. Il pezzo è valido, un buon tempo medio articolato e non privo di fascino. Vuoi vedere che hanno trovato una loro strada?

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The Cold Wind invece si inserisce sul già tracciato. Parte come un rockaccio alla Led Zeppelin (quelle cose un po’ alla Custard Pie) ma si distingue con un bello sviluppo subito dopo la strofa (sviluppo che si conclude citando un passaggio di Over The Hills And Far Away) e per un ponte strumentale potente e scatenato. Delizioso l’assolo di chitarra. Buona prova d’insieme, detto per inciso a me il batterista piace.

When The Curtain Falls è il singolo (o meglio il video dell’album) ed è uno dei momenti che meno apprezzo. Non è male ma è di nuovo un rock generico alla led Zeppelin. Il controcanto della chitarra nel ritornello non è niente altro che il lick che Jimmy Page ripete più volte in In The Evening. Personalmente trovo questo richiamo un po’ imbarazzante.

Watching Over inizia con un sapore anni sessanta poi tenta di darsi alla psichedelia prima di trasformarsi in un riff ostinato. L’effetto sitar della chitarra a me non piace, ma ci sarà chi lo apprezzerà. Anche in questo caso l’assolo termina in modo brusco. Al minuto 3:20 il cantante cita il Robert Plant di Four Sticks mentre al minuto 3:33 il chitarrista cita pari pari il Jimmy Page di No Quarter dal live The Song Remains The Same. (Mi riferisco a quella magnifica frase ripetuta più volte dal minuto 7:22 in poi del pezzo del 1973).

Lover, Leaver (Taker, Believer) è il secondo singolo, un hard rock senza particolarità e che probabilmente risente della influenza di Whole Lotta Love. Il chitarrista cita di nuovo Jimmy Page al minuto 1:40 (assolo di Black Dog da studio e di Stairway To Heaven live 1973) e al minuto 1:45 (riff di Nobody’s Fault But Mine). Dal minuto 2:40 poi i GVF ripropongono il riff di chiusura di Out On The Tiles sempre dei LZ. Poi la gente si infastidisce se vengono accostati costantemente al gruppo del dirigibile.

Con You’re The One le cose non migliorano.  Il pezzo è molto simile a Your Time Is Gonna Come dei LZ. Andamento acustico su tempo medio con tanto di organo. Il ritornello mette in imbarazzo.

Con The New Day mi trovo in uno stato in cui li ascolto solo per scoprire che riferimento zeppeliniano metteranno in campo stavolta. Magari esagero, ma anche qui mi sembra di sentire i Led Zep elettro-acustici di Over The Hills And Far Away.

Mountain Of The Sun è costruito su un buon giro rock blues disegnato con la slide guitar. In un primo momento mi ci ritrovo bene, sento qualcosa di famigliare ma mi godo il bel rock del pezzo. Poi mi sovviene la amara verità: il pezzo discende dall’inedito di LZII La La. Lo riascolto per capire se sono io che mi sto facendo suggestionare o cosa, ma la influenza di quella oscura outtake dei Led Zeppelin mi pare evidente.

Brave New World è un tempo medio che viaggia su coordinate epiche velate da contrappunti pieni di mistero. Verso la fine c’è un intermezzo dipinto di blues.

Il disco è chiuso da Anthem, ballata acustica. L’uso della steel guitar anche qui è sospetto, ma mi impongo di non cercare più tracce di piombo e cerco di godermi questo ultimo bel quadretto

Nell’album è compresa anche la versione più lunga di Lover, Leaver (Taker, Believer).


La copertina non è male e la produzione è discreta.

Riassumendo, non riesco a giungere ad un conclusione precisa. Il mio giudizio rimane interlocutorio. Mi piace come suonano, come si pongono, la baldanza che hanno, mi piace la musica che fanno (seppur rimanga convinto che manchi qualche pezzo di livello superiore), ma mi chiedo se questo mi sia sufficiente. Temo sembrino dei giganti vista la pochezza musicale dei nostri tempi e perché siamo disperatamente alla ricerca di qualcosa che ci faccia credere che il Rock sia ancora vivo. Intendiamoci, è un bel sentire, ma le analogie con i Led Zeppelin sono troppe perché un super fan del gruppo di Page come me non le noti.

Si capisce comunque benissimo che sono un gruppo americano (io ci sento anche il sound degli Allman Brothers, benché il gruppo provenga dal Michigan) e questo è un aspetto da non sottovalutare. Suonano hard rock ma hanno sfumature amabili e non troppo aspre, sono piacevoli da ascoltare anche quando non si è dell’umore adatto per darsi al rock duro. Hanno anche un bel nome, poi sono in quattro … la formazione che prediligo, e adorano il mio gruppo preferito. Avrebbero tutto per essere amati dal sottoscritto. In attesa di vedere se le nebbie si diradano, continuo a tenerli d’occhio.

 

I GVF sul blog:

hthttps://timtirelli.com/2017/08/13/greta-van-fleet/

LED ZEPPELIN MUST HAVE BOOTLEGS: “Going To California”, Berkeley 14/09/1971 (dadgad remaster)

2 Feb

ITALIANO /  ENGLISH

Dal 7 settembre 1968 (anche se abbiamo ne abbiamo le prove solo dal 30/12/1968) al 29 luglio 1973 i concerti dei Led Zeppelin sono, in un modo o nell’altro, quasi tutti spettacolari. Il gruppo era in palla, unito, tecnicamente al massimo, creativamente allo zenit, carico, risoluto,un’iradiddio insomma. All’interno di questi cinque anni favolosi ci sono periodi o date ancora più speciali e cosmiche che sono diventate famosissime tra gli appassionati. Il tour del 1971 in Giappone, il tour tedesco del 1973, il tour americano dell’estate del 1972, la data di Blueberry Hill (LA Forum 4/9/1970), la data di Three Days After (LA Forum 03/06/1973) e appunto la seconda data di Berkley del 1971.

Sta per uscire il IV, album che proietterà il gruppo ad altezze siderali, per una volta enorme successo e qualità della proposta vanno di pari passo. Bonham e Jones sono la miglior sezione ritmica rock in circolazione (sfido chiunque a dire il contrario), Plant canta come nessun’altro nel campo del rock di derivazione blues e Page suona da dio. Non ha ancora arricchito il suo chitarrismo con quei colori e con quel lessico tipici del periodo fine 1972/1973 (con  quell’uso ancora oggi ineguagliato della scala blues interpolata con la scala minore) ma il 1971 è probabilmente l’anno perfetto del Page chitarrista in senso stretto. Completo controllo dello strumento, tecnica straordinaria, originalità, attacco da paura, sperimentazione.

Il bootleg “Going To California” è un must, se si è fan dei Led Zeppelin lo si deve avere, punto. Il bootleg in vinile uscì la prima volta 45 anni fa e oggi ne parliamo grazie alla rimasterizzazione di dadgad, famoso fan dei Led Zeppelin molto abile nel ripulire e sistemare vecchie registrazioni della band. La registrazione è audience, non è roba per tutti dunque, ma la qualità è piuttosto alta e il tutto dunque è godibile anche per i casual fan (a patto che siano in confidenza con il concetto bootleg).

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

TITLE: Led Zeppelin:  “Going To California”  September 14 1971 Berkeley, CA, Community Theatre

LABEL: dadgad remaster

TYPE: audience

SOUND QUALITY: TTT½

PERFORMANCE: TTTTT+

BAND MOOD: TTTTT

 

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

SET LIST:

Immigrant Song, Heartbreaker, Since I’ve Been Loving You, Black Dog, Dazed and Confused, Stairway to Heaven, That’s the Way, Going to California, Whole Lotta Love (medley incl. Let That Boy Boogie, Hello Mary Lou, My Baby Left Me, Mess of Blues, You Shook Me)

Il Berkley Community Theatre tiene 3500 posti, sebbene fossimo solo nel 1971 la capienza era troppo bassa per ospitare un concerto dei LZ, così furono due le date in cui il gruppo suonò ( 13 e 14 settembre).

The Berkeley Community Theatre

The Berkeley Community Theatre

IMMIGRANT SONG irrompe con carica esplosiva, i Led Zeppelin sembrano controllare con grande professionalità la selvaggia irruenza che li contraddistingue nei pezzi di rock duro. Page arricchisce il brano con un assolo finale che fin da subito mette in chiaro che stasera non si scherza. Lo stop sul FA#, Jimmy che tira il sol sulla sesta corda e parte col riff di HEARTBREAKER. Durante le prime battute di questo pezzo la registrazione passa da mono a stereo e l’ascolto si fa subito più gradevole. Ascoltato in cuffia il concerto è una bomba. Bello l’assolo del nostro chitarrista preferito. Dapprima la torrenziale cascata elettrica, poi il siparietto bluesy con il pubblico che accompagna divertito e di nuovo la tempesta elettrica in puro stile Jimmy Page. Prima della parte veloce l’accenno strumentale al ragtime “The 59Th Street Bridge Song (Feelin’ Groovy)” di Simon & Garfunkel e Bourreée di J.S. Bach. L’entrata di Jones e Bonham è spaventosa, una forza d’urto incredibile. Impossibile non usare iperbole. I Led Zeppelin nel 1971 sono irraggiungibili.

RP: ... You came then? You should of come last night. Last night there were, um, several bowler hatted beatniks. Uh, ‘Since I’ve Been Loving You.’ …. You remember the last album? Right.

C’è un breve taglio all’inizio di SIBLY, ma poco importa, la chiarezza del suono si fa avanti, il gruppo suona con una decisione sublime. Di nuovo la batteria di Bonham che travolge, Plant che nel 1971 era quello preciso preciso dell’immaginario collettivo. Jones all’organo e alla pedaliera basso e quel tono di chitarra che tanto ci ammalia. Nell’assolo Page parte piano, sperimenta un po’ e poi rientra nei ranghi del pezzo. Non siamo a livello delle versioni del luglio 1973 come espressività e qualità dell’assolo, ma sentirlo suonare così è una beatitudine. E’ una notte speciale, si sente. Mai udito un’altra band di (hard) rock suonare così.

 RP: Thank you… I think we should call this, uh, ‘Black Dog’

BLACK DOG era allora un pezzo sconosciuto al pubblico, come ho detto LZ IV ancora non era stato pubblicato. La prova dei quattro musicisti è superlativa. Nella registrazione audience tutto è bilanciato. Fa impressione sentire Plant cantare in quel modo.

RP: Good evening. There was a pollution alert today and I’ve lost my voice. This is one from millions and millions of, uh, years ago. Just when the good things started, uh, checking itself out.

Con DAZED AND CONFUSED la stregoneria entra in scena. Il basso e la batteria sono in primo piano mentre Page evoca le energie dei misteri del cosmo con quegli armonici che si dilatano nel wah wah. La qualità delle registrazioni audience non sono forse adatte a tutti, ma è così che ci gode un bootleg, l’atmosfera è catturata in pieno in questa. In cuffia ti sembra di essere nelle prime file e ancora una volta ti sorprendi di cosa fossero i LZ. Il brano non ha ancora la struttura sinfonica completa della DAZED AND CONFUSED del 1973, ma si intuisce che il work in progress sta progredendo benissimo. Page prende in mano l’archetto, inizia a creare l’armageddon sonoro che conosciamo e il pubblico in delirio lo segue passo passo. Uno stregone e le sue migliaia di seguaci. Sentirlo in cuffia ti scombina l’animo, ti trasporta tra gli universi paralleli del rock. Le sonorità che Page riesce a creare spaventano, obnubilano il cervello, ampliano le percezioni della mente. L’intermezzo di violin bow in questo concerto è particolarmente riuscito, una delle prove migliori di tutta la carriera del Page “violinista”. Il botta e risposta con Plant è altrettanto spettacolare. Page invoca demoni e paure primordiali, quelle che gli esseri umani  nel corso di migliaia di anni si sono create nell’animo, e quando accenna Mars, The Bringer Of War di Gustav Holst, beh non ce ne è più per nessuno. Per una volta non bisogna saltare questa parte strumentale, qui a Berkley fu così efficace da irretire qualsiasi anima.

La cosa quasi incredibile di quegli anni è vedere come Page riesca a mantenere altissimo il livello delle improvvisazioni di chitarra anche verso la fine del pezzo, dopo 20 minuti di assoli e parti chitarristiche non dovresti più sapere cosa dire, lui no, anche dopo l’ultima strofa, prima della chiusura, invece di chiudere si mette ad improvvisare ancora con risultati sorprendenti. Purtroppo qui il finale termina bruscamente a causa di un taglio nella registrazione.

Intorno al minuto 15 Plant cerca di cantare BACK IN THE USA di Chuck Berry, il rock and roll classico su quelle intelaiature occulte sembra un ossimoro, l’effetto è curioso.

Led Zeppelin, Berkeley sept 1971

Led Zeppelin, Berkeley sept 1971

Cerco di immaginare cosa significasse per il pubblico ascoltare per la prima volta STAIRWAY TO HEAVEN (il IV album sarebbe uscito in novembre). Ogni tanto durante i primi movimenti si sente qualcuno urlare, deve essere stata una emozione inattesa trovarsi davanti ad un pezzo sconosciuto così bello. Alla fine è comunque un’ovazione. Quando entra Bonham il pezzo acquista quella corposità così magnifica da commuovere. Anche in questo caso l’assolo non è finemente strutturato come quello del 1973, ma rimane ugualmente valido.

RP: John Paul Jones, piano

STAIRWAY TO HEAVEN al momento è un pezzo come un’altro, il gruppo sa che è qualcosa di speciale ma lo posiziona nel mezzo della scaletta, ad esso segue il set acustico che inizia con THAT’S THE WAY.

RP: This is, uh, quite a moving night for me. And, uh, this is also another sitting down song, uh, and we don’t really like people squeaking too much, but it’s cool. This is, uh, this is a thing that got together, um, on a, I was gonna say the Scottish Highlands. I was gonna say the Welsh mountains. But I think it was something like, uh, The Gorham Hotel, West 37th Street, in New York. Here’s to the days when things were really, uh, nice and simple, and everything  was far out all the time. It’s no good clapping, ha ha. And on that theme, it’s not a very good cup of tea you get up here. On that theme, this is, uh, something. Thank you. This is a little thing that goes something like, uh. This is called ‘Going To California,’ which is, uh, somewhere around here. (And the flowers in your hair.) Wish I had. Thank you.

Si prosegue con GOING TO CALIFORNIA. Il pubblico ascolta attento e in silenzio, è l’incanto dato da un concerto dei LED ZEPPELIN: rock durissimo, momenti acustici delicati. Un trionfo anche in questo senso.

RP: Thank you. 

Alla fine arriva il piombo Zeppelin con WHIOLE LOTTA LOVE. Che differenza con il Page del 1977, qui il riff del pezzo è suonato come si deve. Di per sé non è difficile, ma va affrontato con i giusti accenti e convinzioni, qui presenti. Durante la sezione del Theremin si intravede ancora l’armageddon, sebbene qui tutto viri verso l’energia sessuale cosmica. Il medley è una meraviglia. Page e Plant da soli per BOOGIE CHILLUM e quindi raggiunti dalla band per una sfrenata versione di BOOGIE MAMA. L’assolo di Page durante quella sezione è uno dei miei momenti Zeppelin preferiti. Bonham e Jones (e che Jones!) che ci danno di swing e Page che mette in pratica tutto quello imparato da ragazzo. La rock and roll bonanza di HELLO MARY LOU, MY BABY LEFT ME (dovrei citare di nuovo tutti i componenti della band viste le magnifiche prove di ognuno) e MESS O’ BLUES, e quindi il possente blues inglese di YOU SHOOK ME con Page alla slide. La voce di Plant rimane potente, corposa e “altissima” anche alla fine di un concerto come questo. LEMON SONG non è altro che il proseguimento del blues di You Shook Me con parte del testo di TRAVELLING RIVERSIDE BLUES di Robert Johnson, quella dove si chiede ad una lei di spremere il limone sino a che il succo non scenda lungo la gamba. Il pezzo quindi chiude nell’approvazione generale. 24 minuti di rock, funk, sperimentazioni, blues, rock and roll. Fantastico!.

RP: Goodnight. Thank you

Io sono da sempre un fanatico della data del 3 giugno 1973, ma qui forse siamo nel punto più alto della storie dei LED ZEPPELIN. In caso inventino la macchina del tempo due biglietti per Los Angeles 1973 e qui a Berkeley nel 1971 me li compro, a costo di vendere le chitarre. Led Zeppelin, the fucking numer one!

(broken) ENGLISH

From 7 September 1968 (although we do have the evidence only from 30/12/1968) to 29 July 1973 the concerts of Led Zeppelin are, in one way or another, almost all spectacular. The group was fit, united, technically at best, creatively at the zenith, psyched, determined, as we say in Italy an iradiddio, the god’s ire in short. Within these five fabulous years there are periods or single shows even more special and cosmic that have become famous among fans. The tour of 1971 in Japan, the German tour of 1973, the  American tour of  the summer of1972, the date of Blueberry Hill (LA Forum 04.09.1970), the date of Three Days After (LA Forum 03/06/1973) and in fact the second date of Berkley in 1971.

The fourth album is gonna be released soon, it will project the group to starry heights, for once huge success and quality of the proposal go hand in hand. Bonham and Jones are the best rock rhythm section in circulation (I challenge anyone to say otherwise), Plant sings like no other in the field of blues-derived rock and Page played like a god. He has not yet enriched his guitar playing with the colors and the typical vocabulary of the period of late 1972/1973 (with that use of the blues scale interpolated with the minor one still unmatched) but 1971 is probably the perfect year of Page as a guitarist in the strict sense. Complete control of the instrument, extraordinary technique, originality, scary attack, experimentation.

The bootleg “Going To California” is a must, if you are a fan sof Led Zeppelin you must have it, period. The vinyl bootleg came out the first time 45 years ago and today we talk about the remastered version of it by DADGAD, a famous italian fan of Led Zeppelin very skilled in cleaning and remastering the band’s old live recordings. The recording is audience, this is not for everyone then, but the quality is quite high and therefore everything is enjoyable even for the casual fans (provided they are confident with bootleg concept).

The Berkley Community Theatre holds 3500 seats, although we were only in 1971 the capacity was too low to accommodate a concert of LZ, so  the band played two dates (13 and 14 September).

IMMIGRANT SONG bursts with explosive charge, Led Zeppelin seem to control with great professionalism the wild vehemence that distinguishes them in the hard rock songs. Page enriches the piece with a final solo and it immediately makes it clear that tonight they will take no prisoners. The stop on the F # low note, then Jimmy pulling the G note on the sixth string, and he starts the HEARTBREAKER riff. During the first few bars of this piece the recording changes from mono to stereo and the listening experience is immediately more pleasant. Listened through headphones, the concert is a bomb. Beautiful solo courtesy of our favorite guitarist. At first the torrential electric waterfall, then the bluesy entr’acte where the public accompanies amused the guitar player and again the electrical storm in pure Jimmy Page style. Before the fast part the instrumental reference to “The 59th Street Bridge Song (Feelin ‘Groovy)” by Simon & Garfunkel “and J.S. Bach’s Bourreée . The Jones and Bonham entry is frightening, they are an incredible force. I can’t help using hyperboles. Led Zeppelin in 1971 are uncatchable,.

RP: You came … then? You should of like last night. Last night there were, um, several bowler hatted beatniks. Uh, ‘Since I’ve Been Loving You.’ …. You remember the last album? Right.

There is a short cut at the beginning of Sibly, it does not mind sice the sound clarity through the blues is here, the group plays with a sublime decision. Bonham’s drums overwhelm, Plant in 1971 is precisely accurate the one of the collective imagination. Jones on organ and the bass pedal, plus the guitar tone that fascinates us so much. Page starts the solo in a slow way, he tries out a bit ‘and  and then he comes back within the ranks. It’s not the same level of July 1973 versions as expressiveness and quality of the solo, but to hear him play in this way it is a bliss anyway. It’s a special night, you feel it. Never heard another (hard) rock band playing that well.

RP: Thank you … I Think We Should call this, uh, ‘Black Dog’   

BLACK DOG was then an unknown piece to the public, as I said the fourth album had not yet been published. The work of the four musicians is superb. In the audience recording everything is balanced. It is impressive to hear Plant sings like that.

RP: Good evening. There was a pollution alert today and I’ve lost my voice. This is one from millions and millions of, uh, years ago. Just When the good things started, uh, checking itself out.

With DAZED AND CONFUSED the witchcraft comes into the picture. The bass and drums are in the foreground while Page evokes the energies of the mysteries of the cosmos with those harmonics that dilate into the wah wah. The quality of the audience recordings are perhaps not for everyone, but it is with them that we can enjoy a bootleg, the atmosphere is captured in full in this. If you wear the headphone it seems to be in the front row and once again you find yourself measuring what LZ were. The song has not the complete structure of the symphony of 1973 DAZED AND CONFUSED, but one senses that the work in progress is progressing very well. Page picks up the bow and began to create the armageddon sounds we all know and the mesmerized audience follows him step by step. A sorcerer and his thousands of followers. Hearing it with the headphones it messes up your mood and it push you thru’ parallel universes of rock. The sound that Page manages to creat scare, it obnubilatse the brain, it expands the perceptions of the mind. The violin bow interlude in this concert is particularly successful, one of the best of the “Page the violinist” whole career. The repartee with Plant is equally spectacular. Page invokes primal fears and demons, those that human beings have been created over thousands of years in their soul, and when he sketchess “Mars, The Bringer of War” by Gustav Holst well, there is no game. For once you should not skip this instrumental section, here in Berkley it was so effective that it ensnares any soul.

It’s almost incredible in all those years to see how Page manages to maintain a very high level of guitar improvisations even towards the end of the piece, after 20 minutes of solos and guitar parts he should no longer know what to say, instead even after ‘ last verse, before closing, he starts to improvise again with amazing results. Unfortunately, the finale here ends abruptly due to a cut in the recording.

At around 15:00 Plant tries to sing BACK IN THE USA by Chuck Berry, classic rock and roll on those hidden frames seems an oxymoron, the effect is curious.

I try to imagine what it meant for the public to hear for the first time STAIRWAY TO HEAVEN (the fourth album would be released in November). Every so often during the first few movements you hear someone yelling, it must have been an unexpected thrill being in front of an unknown piece so beautiful. In the end it is still an acclamation. When Bonham enters the piece acquires the magnificent fullness. Also in this case the solo is not finely structured like that of 1973, but remains equally valid.

RP: John Paul Jones, piano 

STAIRWAY TO HEAVEN is at this time a piece with a “normal” status, the group knows it is something special but they put it in the middle of the setlist and after it the acoustic set begins with THAT’S THE WAY.

RP: This is, uh, quite a moving night for me. And, uh, this is another Also sitting down song, uh, and we do not really like people squeaking too much, but it’s cool. This is, uh, this is a thing that got together, um, on a, I was gonna say the Scottish Highlands. I was gonna say the Welsh mountains. But I think it was something like, uh, The Gorham Hotel, West 37th Street, in New York. Here’s to the days When things were really, uh, nice and simple, and everything was let out all the time. It’s no good clapping, ha ha. And On That theme, it’s not a very good cup of tea you get up here. On That theme, this is, uh, something. Thank you. This is a Little Thing That goes something like, uh. This is called ‘Going To California,’ which is, uh, somewhere around here. (And the flowers in your hair.) Wish I had. Thank you.

It continues with GOING TO CALIFORNIA. The audience listens carefully and quietly, the charm given by a concert of LED ZEPPELIN is all here: hard rock and gentle and acoustic moments. A triumph also in this sense.

RP: Thank you.

The lead Zeppelin arrives with WHOLE LOTTA LOVE. What difference with the 1977 Page, here the riff is played as it should. It is not difficult, but it must be tackled with the right accents and convictions, both things are present here. During the Theremin section you get another sight of Armageddon, although here all veers toward the cosmic sexual energy. The medley is a marvel. Page and Plant alone for BOOGIE CHILLUM and then joined by the band for a wild version of BOOGIE MAMA. The Page solo during this section is one of my favorite Zeppelin moments. Bonham and Jones punp up the swing whiel Page puts into practice what learned as a boy. The rock and roll bonanza with HELLO MARY LOU, MY BABY LEFT ME (I should mention again all the members of the band after considering the magnificent evidence of each) and MESS O ‘BLUES and then the mighty British blues of  YOU SHOOK ME with Page on slide guitar . The Plant’s voice is powerful, full-bodied and “very high” even at the end of a concert like this. LEMON SONG is just the continuation of You Shook Me with some of the lyrics of Robert Johnson’s TRAVELLING RIVERSIDE BLUES, the part where you ask her to squeeze your lemon until the juice run down your leg. The piece then finally closes . 24 minutes of rock, funk, experimental, blues, rock and roll. Fantastic!.

RP: Goodnight. Thank you

I have always been a super fan of the gig of 3 June 1973, but here we have perhaps the highest point of the LED ZEPPELIN live history. If they invent the time machine I gotta buy myself two tickets: one for Los Angeles in june 1973 and one for Berkeley 14 sept 1971, I’d buy them anyway, at the cost of selling my guitars. Led Zeppelin, the fucking numer one!

 

CLASSIX! N.2 – anno 2003 (JOHNNY & EDGAR WINTER)

13 Gen

Inizio anni duemila, grazie a GIANNI DELLA CIOPPA comincio a scrivere su di una nuova rivista musicale, CLASSIX!, guidata da FRANCESCO PASCOLETTI. Questo il mio articolo su JOHNNY & EDGAR WINTER apparso sul n.2 dell’anno 2003.

FILE PDF:

CLASSIX n 2 – anno 2003

Classix n2 anno 2003

 

LED ZEPPELIN back on the charts (unfortunately)

25 Ago

ITALIAN / ENGLISH

C’è qualcosa che non va nel Rock: ristampe di album vecchi 39, 36 e 33 anni arrivano nella top ten americana (settimana del 22 agosto, BILLBOARD magazine):

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Certo, meglio questi album e questo gruppo piuttosto che la robaccia che si sente oggi in giro, ma temo che sia un segnale preoccupante per il Rock, musica che non riesce più ad esprime nulla di realmente grandioso. Qualche buon gruppo, qualche buon album, ma nulla di veramente sorprendente. Parlo di Rock in senso stretto e in senso lato, escludendo ad esempio il metal e tutte le piccole galassie ad esso connesse il cui pubblico usa immancabilmente termini come “capolavoro” “stellare” “caposaldo” per descrivere album in realtà tutt’al più discreti.

Sono un fan dei LZ, da un lato sono contento, ma dall’altro sono preoccupato, anzi rassegnato: il Rock è morto. Se siamo ridotti a mandare in classifica album bislacchi, o se volete eccentrici, come PRESENCE, IN THROUGH THE OUT DOOR e CODA, il futuro musicale è un lungo velo di crepe nere da indossare. ITTOD è un album che adoro, le cui particelle fanno parte da 36 anni del mio midollo, ma è un capitolo importante per la mia vita, non per il Rock; sì certo c’è I’M GONNA CRAWL e pure IN THE EVENING e FOOL IN THE RAIN, ma non è certo un album indimenticabile. PRESENCE contiene ardite architetture chitarristiche (ACHILLES LAST STAND anyone?) ma è un album cupo, metallico, difficile. CODA è una raccolta di scarti, buoni giusto per una testa di piombo come me che mette DARLENE tra le top 5 del gruppo, ma che valore può avere se messo nella giusta prospettiva? Eppure sono rispettivamente al numero 9, 13 e 12 della classifica americana di BILLBOARD, e non sto parlando delle classifiche farlocche divise per genere, no, trattasi della BILLBOARD TOP 200, l’unica che abbia un vero valore.

Un’altro cruccio per questo successo è che in questo modo JIMMY PAGE non capirà mai di aver fatto un pessimo lavoro con queste ristampe, riempiendo il 90% dei bonus (va beh, companion) disc di fuffa (i rough mix e affini sono una truffa). Io non li ho comprati, mi è costato molto, ho aspetto le deluxe edition dei LZ per lustri interi, ma il metodo usato da PAGE proprio non mi va giù. L’artista è il peggior nemico di sè stesso quando si tratta di scegliere materiale extra… ma il brand LED ZEPPELIN è uno dei 5 brand musicali che vende sempre e comunque, purtroppo.

Non stiamo parlando di cifre incredibili, lontani sono gli anni in cui di aveva a che fare con cifre a cinque o sei zeri, oggi con 25.000 copie vendute in una settimana arrivi nella top ten che conta (mi riferisco al mercato Usa).

Ad ogni modo nel 2014, tra le ristampe di I, II, III, IV, HOTH e il resto del catalogo i LZ hanno venduto negli Usa 946.000 albums (599.000 nel 2013 solo col vecchio catalogo), nel 2015 siamo già a 466.000. Se lette con gli occhi di oggi sono cifre altissime, raggiunte con album pubblicati in origine tra i 46 e i 33 anni fa. Roba da matti.

http://www.billboard.com/articles/columns/chart-beat/6656593/led-zeppelin-top-10-return-billboard-200

Led Zeppelin North American Tour 1973 - Los Angeles Forum 3 june 1973

Led Zeppelin North American Tour 1973 – Los Angeles Forum 3 june 1973

(BROKEN) ENGLISH

There is something wrong in Rock: reissues of 39,36,33 years old albums go straight in the US top ten chart (week of 22 August, BILLBOARD magazine):

Sure, better these albums and this group rather than the shite you usually hear today, but I fear it is a worrying sign for Rock, music that can no longer expresses anything really great. Some good group, some good album, but nothing really surprising. I talk about Rock itself, but also in a broader sense, but excluding for example Metal and all the little galaxies related thereto whose audience invariably uses terms like “masterpiece” “stellar” “cornerstone” to describe album actually at most fairly good.

I’m a fan of LZ, on one hand I’m happy, but on the other hand I’m concerned, indeed resigned: Rock is dead. If we are reduced to send on the charts quirky albums  as PRESENCE, IN THROUGH THE OUT DOOR and CODA the future of Rock music is a long veil of black cracks to wear. ITTOD is an album that I love, whose particles have been running since 1979 in my marrow, but it is an important chapter in my life, not for Rock music; yes of course it contains I’M GONNA CRAWL, and IN THE EVENING and FOOL IN THE RAIN but it is not certainly a memorable album. PRESENCE contains daring guitar architecture (ACHILLES LAST STAND anyone?) but it’s a dark, metallic, difficult album. CODA is a collection of leftovers, good for a led head like me who puts DARLENE among the top five songs of the group, but what value it may have if we put it in the right perspective? Yet they are respectively at 9, 13 and 12 position of the US charts in BILLBOARD magazine, and I’m not talking about the phony charts divided by gender, no, I’m talking about the BILLBOARD TOP 200, the only one that has a real value.

Another worry for this success is that in this way JIMMY PAGE will never understand that he had done a poor job with these reissues, filling 90% of the bonus (okay, companion) discs with crap (the rough mix and the like are a scam). I havenìt bought them, and it costs me a lot in a spiritual way, I waited for the LZ deluxe editions for whole decades, but I can’t stand the method used by PAGE to assemble everythiung. The artist is the worst enemy of himself when it comes to choosing extra stuff … but the brand LED ZEPPELIN is one of 5 music brands that sells anyway, unfortunately.

We’re not talking about incredible figures, gone are the years when the figures had to do with five or six zeros, now with 25,000 copies sold in a week you go in the top ten.

However in 2014, including the newly reprints of I, II, III, IV, HOTH plus the rest of the catalog LZ sold 946,000 albums in the USA (599,000 in 2013 alone with the old catalog), in 2015 we are already at 466,000. If we read it with the eyes of today they are high figures, figures reached with albums released originally between 46 and 33 years ago. Crazy stuff.

 

CLASSIX! N.4 – novembre 2004 (JIMI HENDRIX)

21 Ago

Inizio anni duemila, grazie a GIANNI DELLA CIOPPA comincio a scrivere su di una nuova rivista musicale, CLASSIX!, guidata da FRANCESCO PASCOLETTI. Questo il mio articolo su JIMI HENDRIX apparso sul n.4 (della nuova serie) nel novembre del 2004

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CLASSIX! N4 (NUOVA SERIE)

CLASSIX! N4 (NUOVA SERIE)

FLASH n.4 – maggio1989 (MOTLEY CRUE)

12 Ago

Maggio 1989, esce un numero di FLASH dedicato  al GLAM e allo STREET R&R. Giancarlo Trombetti mi incarica di scrivere l’articolo sui MOTLEY CRÜE. Eccolo qui.

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FLASH 4 – Motley Crue 041

FLASH 4 - Motley Crue 042

FLASH n.24 – gennaio1991 (IAN GILLAN Interview)

10 Lug

Autunno 1990, Ian Gillan è in tour in Italia, grazie ad entrature purpleiane frequento Ian e il suo chitarrista di allora Steve Morris, durante i tre giorni della loro permanenza a Modena. Le amabili chiacchierate si trasformano in qualche modo in interviste che pubblico su OH JIMMY (la fanzine che all’epoca dirigo) e su FLASH. Queste le due paginette di FLASH appunto.

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FLASH 24 Ian Gillan Interview

FLASH 24

FLASH n.27/28 – aprile/maggio1991 “vocal match: STEVEN TYLER vs FREDDIE MERCURY”

3 Lug

FLASH magazine 1991, qualcuno decide (non ricordo chi) di fare una serie di articoli mettendo a confronto i grandi cantanti Rock con tanto di riflessioni e di pagelle…roba tipica di quegli anni. L’incaricato di scrivere tali facezie sono io. Dopo RODGERS-COVERDALE, ecco TYLER-MERCURY.

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FLASH 27-28 Tyle-Mercury

FLASH 27-28