A pranzo ero solito andare allo Zippo Café, un ristorantino tavola calda vicino al posto in cui lavoravo. Il locale non era niente male, design semplice e dignitoso, cucina discreta. Spesso me ne andavo lì da solo, bevevo un’acqua frizzante fredda, ordinavo spaghetti alla carbonara, prosciutto e melone o secondi tipo petto di pollo con spinaci, e pensavo ai fatti miei. Avventori andavano e venivano, occupando e liberando i tavoli così velocemente che, se filmata, la cosa poteva essere trasmessa in loop in una di quelle mostre dedicate all’arte moderna col titolo “la pausa pranzo”.
Le ampie vetrate davano su di un ampio parcheggio dove ogni giorno lasciava la sua macchina il mio amico e collega Mario Bruce Corradinsteen. Lo avevo conosciuto trent’anni prima, ero appena arrivato nell’azienda in cui lavorava e, malgrado il suo approccio sempre un po’ sgrauso, dopo poco diventammo amici, a tal punto che fu l’unico con cui rimasi in contatto quando me ne andai dieci anni più tardi. Nel corso del tempo diventò più che un fratello e una delle presenze su cui si fondava la mia vita. Condividevamo visione del mondo, della politica e un’amore smisurato per la stessa squadra di calcio, un’entità sportiva che ci faceva palpitare il cuore. Spesso guardavamo le partite trasmesse dalla televisione insieme, tra imprecazioni, bestemmie, disperazione e improvvisi scoppi di gioia cosmica, il tutto col gusto delizioso che solo lo sport (e una paio di bicchierini di Rum Legendario) che tanto amavamo sapeva darci.
Durante questi pasti veloci come mio solito ponderavo il senso della vita, il caos esistenziale in cui eravamo immersi, il caso che aveva dato origine a tutto. Mi passavano di fianco donne incorniciate nelle loro vesti estive: ampie gonne svolazzanti, leggeri pantaloni alla Capri sfrangiati appena sotto il ginocchio, canottiere da cui maliziosamente correvano in parallelo le spalline dei reggiseni, camicette fru-fru fatte di nastri e pizzi e di una foggia decisamente fuori dal tempo per le giovani donne del sud che le indossavano. Il problema erano le calzature. A parte qualcuna che indossava scarpe estive degne di nota con tacco medio, intreccio blu e greige e magnifico cinturino che correva intorno al collo del piede, e qualcun’altra che portava sneakers della mia marca preferita, quasi tutte avevano i sandali, calzatura contro la quale, con i miei amici, avevo iniziato da anni una campagna denigratoria. C’erano sandali e sandali, vero, ma troppo spesso la gente finiva per indossare modelli, dal punto di vista estetico, irricevibili. Pensavo inoltre che se si decideva di indossarli la cura del piede doveva essere assoluta, quando tutto quello che vedevo era pelle trascurata e talloni screpolati.
Una volta terminati gli spaghetti, finito il melone e sorseggiato l’ultimo goccio di acqua frizzante come fosse la mia Belgian Blanche preferita, me ne rimanevo appollaiato sullo sgabello qualche minuto cercando di sbarazzarmi di me stesso prima di tornare in ufficio. In quel frangente lo sguardo tornava a cadere sulla macchina di Corradinsteen e iniziai ad elaborare l’idea di lasciargli sul finestrino dei bigliettini, utilizzando pezzetti della commessa riposta sul tavolo. La cosa si protrasse per diverse settimane ogni qualvolta mi fermavo a pranzo allo Zippo. Mi divertiva immaginare le facce che avrebbe fatto il mio amico un volta che – a fine turno – sarebbe arrivato alla macchina e, nell’atto di aprire la portiera, si sarebbe trovato il bigliettino davanti al naso.
I messaggini che gli lasciavo erano di stampo calcistico, volutamente infantili, e alludevano ai personaggi cardine che preferivo della nostra squadra del cuore.
Ripensandoci oggi scuoto la testa, sorrido tra me e me e mi chiedo che cosa avrà mai pensato Mario Bruce. Molto tempo dopo venni poi a sapere che il mio sodale conservò negli anni tutti i bigliettini; lo fosse venuto a sapere il mio amico Paolino P. ci avrebbe dato delle “nase fruste“*.
(©Stefano Tirelli 2040)
*modenese per “ultra gay”.
Per caso hai sottomano una foto anche degli Albi d’oro di coppe europee e campionato italiano? (Bastano gli ultimi venti anni 2020 – 2040)
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Francesco Francesco, devo davvero ricordarti le mille gioie di questi ultimi 4 lustri?
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Mi sono mancati i tuoi racconti Tim! Nel frattempo cerco di resistere alle alte temperature miste a umidità (faccio finta di stare a New Orleans..) con ITTOD il disco estivo per eccellenza e qualche bootleg del periodo.
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