Via, via, vieni via di qui blues

12 Mar

Leggere Mircea Cărtărescu mi scompiglia l’animo, la sua scrittura stimola oltremodo la parte rivoluzionaria che c’è dentro di me, libera la furia iconoclasta tipica di Ittod, uno dei tre uomini che sono, relegando gli altri due, Stefano in primis, in un angolo lontano. Ho letto nelle albe delle scorse notti solo alcune decine di pagine di Solenoide

eppure sono già in preda ad un fervore difficile da gestire. Da una parte è bello sentirsi attraversato da venti impetuosi, dall’altra forse non conviene alimentare i fiotti di energia spirituale che modellano di volta in volta l’uomo di blues che sono. Sì perché poi pensieri vivaci cominciano a galoppare nella maruga come fossero wild horses e avrei un bel da fare per rimetterli nel recinto, che se qualcuno di essi scappasse davvero potrebbe portare a cambiamenti estremi della mia vita. Sarebbero processi questi più tipici di un giovane uomo pronto ad buttarsi a capofitto in nuove sfide piuttosto che di un uomo di blues di una (in)certa età, tuttavia sento nel petto tutta la prepotenza di questi batticuore, di questi fermenti, di questi graffiti spirituali che qualcosa o qualcuno dipinge a tinte forti nelle pareti della caverna del mio animo.

Secondo Wikipedia Cărtărescu è uno:

scrittore postmoderno, influenzato, oltreché dalla ricca tradizione fantastico-mitologica rumena, letteraria e non, dalla sottocultura psichedelica degli anni sessanta e settanta, le cui opere sono spesso caratterizzate da costrutti letterari legati più a piani simbolici, che narrativi. Dotato di una poetica assimilabile all’opera di James Joyce, Franz Kafka, Milorad Pavić e, soprattutto, Thomas Pynchon, è stato un autore di spicco della cosiddetta Blue jeans generation, corrente sorta negli anni ottanta all’interno del panorama letterario romeno. È considerato il maggiore romanziere in lingua romena contemporaneo.

Tutto questo rimescolamento mi porta alla cagacazzite più intransigente, fatico a sopportare gli automobilisti-ciclisti-pedoni indisciplinati, chi ha visioni politiche lontane dall’umanesimo e dalla convivenza civile, chi crede in uno dei 3.000 Dei inventati dagli umani che non reggono all’idea che tutto quello che esiste sia nato per caso, chi ascolta musica di melma, chi dice e pensa di ascoltare Rock quando in realtà il Rock – quello vero – sarebbe un’altra cosa, chi usa il termine devastato/a quando invece di rispondere “Guarda sono distrutto/a” alla domanda “Come stai, sei stanco/a?” deve appunto enfatizzare e omologarsi al vocabolario statunitense usando la versione italiana di “devasted” (vedi articolo del blog https://timtirelli.com/2020/10/05/parole-al-vento-la-fine-dellaggettivo-distrutto-e-lavvento-del-termine-devastato/) e più o meno altre mille categorie di umani.

E allora quello a cui aspiro diventa un posto in riva al mondo che poi sarebbe una casetta nella campagna aperta, purtroppo però la campagna aperta non esiste più, perlomeno non qui nella grande pianura in cui vivo, me ne rendo conto sempre più spesso quando cerco con lo sguardo orizzonti lontani, dipinti del verde dei campi e del blu del cielo. Il consumo del territorio, del suolo, ormai ci è sfuggito di mano, dobbiamo costruire a tutti costi nuove case, nuove fabbriche, nuovi impianti, nuove sterminate aree dedicate alla logistica dove eserciti di lavoratori con chissà quale contratto saranno impiegati a districare il flusso di merci e beni che ci ostiniamo a produrre senza sosta. Parlavo l’altro giorno con un mio amico, mi diceva che la sua è l’ultima casa di un paese di questa fetta d’Emilia e di fatto sarebbe una casa di campagna se non che il comune del paese limitrofo ha costruito proprio sul confine un quartiere industriale che adesso si trova a 300 metri da casa sua. Ne so qualcosa visto che nella frazione che confina con Borgo Massenzio hanno destinato una grande porzione di campagna a polo industriale col risultato che la (già misera) skyline che vedo dalla Domus Saurea è stata definitivamente compromessa: a 1.500 metri vi sono questi orribili capannoni, questi impianti giganteschi che hanno tolto ogni poetica dal vivere in questo pezzo di campagna in cui risiedo da 14 anni.

E allora dovrei darmi una mossa, prendere la chitarra, intonare la canzoncina di Mississippi Fred McDowell

togliere la polvere dalla scopa, dare una ramazzata

partire e cercare una nuova casetta lontano da tutto e da tutti

mollare il football (troppi blues mia cara Inter e mia cara Reggiana), il Rock e concentrami sulla letteratura, sullo scrivere e sul blues rurale del Mississippi degli anni venti e trenta del secolo scorso , in pratica concentrami sull’umanesimo.

In alternativa, il faro di cui ogni tanto parlo.

Perché è vero, non cambieremo mai vita, ma è questo che vogliamo? Giocarci la buccia in una società come questa dove il poco tempo che abbiamo su questa Terra viene regolato unicamente dall’economia a cui la politica è asservita? Vogliamo questo? Davvero? L’infelicità collettiva? Tecnologia, profitto, efficienza …come dice Galimberti “non siamo più individui, ma funzionari di apparati”.

E allora sì, scrivere, scrivere, scrivere e basta. Prendi ad esempio questo istante di un sabato sera qualunque di metà marzo, qui nello studiolo perso nell’impeto che inonda il mio blues, sospeso in una bolla temporale, un individuo del genere femminile umano mi si avvicina “Beh, stasera non si cena?” … ritorno sulla terra …“Ma che ore sono? Le nove? Ma caspita, pensavo fosse tardo pomeriggio.”

Ecco, voglio questo, perdermi nei sentieri dello scrivere, della letteratura (da due soldi, la mia insomma) del fare le cose che so fare meglio in questa porca vita…e già lo sento Ittod dire a Stefano

Via, via, vieni via di qui
Niente più ti lega a questi luoghi
Neanche questi fiori nerazzurri
Via, via, neanche questo tempo grigio
Pieno di musiche
E di chitarristi che ti son piaciuti

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