LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT -III- La Città (Gothic Blues)

6 Giu

di Tim Tirelli

Decisi di uscire che era ormai sera, sentivo la necessità di vedere il palazzo da fuori e scrutare i dintorni di quella che sarebbe diventata la mia nuova zona di riferimento, almeno per qualche tempo.

Guardandolo dalla strada l’edificio era imponente e sembrava avere in sé una forza che schiacciava verso il basso. Avevo cercato velocemente qualche notizia su di esso ma avevo trovato poco.  Architettura gotica, tre piani, due rotonde torri ai lati della facciata, niente finestre tradizionali ma bifore, cordoni in pietra ornavano il fronte del palazzo e dividevano i piani. Provai ad allontanarmi per avere una veduta d’insieme ma mi accorsi che la cupola a base poligonale che si erigeva sul tetto, di cui mi avevano parlato, proprio non si riusciva a scorgere. Voci che arrivavano dal passato remoto volevano l’edificio costruito sulle rovine di una antichissima abbazia, ma non vi era nessuna prova evidente, ma sapevo che quello sarebbe stato il termine che avrei usato per riferirmi ad esso.

Il corso su cui si affacciava era una delle strade centrali più frequentate, soprattutto la parte finale, quella su cui la abbazia poggiava le sue fondamenta, parte che andava a dissolversi in un ampio delta di spiazzi, piazzette, rotatorie e pensiline. La sera cadeva decisa, le scie delle luci al neon offuscavano la vista, il respiro della città batteva nelle tempie, in preda alle vertigini decisi di rientrare.

Presi l’ascensore, fare quattro piani di scale in quelle condizioni non era conveniente. Un cancello vecchio stile fungeva da ornamento e da protezione. Entrai nella cabina, mi sentivo strano, forse avevo sottovalutato cosa significasse per uno come me affrontare La Città. Erano le venti passate, Dafne ancora non era rientrata, mi chiesi cosa ci facessi lì, in quell’enorme abitazione a me aliena.

Avevo conosciuto Dafne diversi anni prima, portammo avanti per un po’ una di quelle amicizie piene di tepore ma non troppo profonde, poi lei era partita, quando la società per cui lavorava le chiese di trasferirsi all’estero lei accettò e io non la vidi più per parecchi anni. Ritrovarmi con lei a cena fu quantomeno strano. La società l’aveva richiamata in Italia, lei obbedì e quindi si ritrovò a riaprire casa e a riorganizzare la sua vita. Fui una delle prime persone conosciute che incontrò, per caso, al suo ritorno. Era così cambiata che faticavo a riconoscerla. Pur ostentando un bel sorriso, ponendo attenzione verso gli altri e mostrando curiosità per tutto, pareva assediata dal tedio. Si presentava sicura di sé e afflitta da una sicumera che faticava a nascondere, vendeva sé stessa come donna affermata, realizzata e soddisfatta ma era chiaro che provava un fastidio interiore che non riusciva a tenere a bada.

Uscimmo tre volte, cena in un buon ristorante seguita da una bella passeggiata lungo i viali alberati che lambivano la zona centrale della Città, poi un bacio sulla guancia e la buonanotte. Alla quarta mi chiese se volevo trasferirmi da lei. Le avevo giusto accennato delle novità che stavo affrontando e delle relative apprensioni, così se ne uscì con quella offerta. Impiegai poco a capire che cercò di persuadersi che stava semplicemente dandomi una mano, quando invece era un suo bisogno quello di avere una boa, una faccia conosciuta e un cuore famigliare a cui rivolgersi negli interminabili momenti in cui da sola fronteggiava la sua sofferenza esistenziale.

Mi ero messo in testa di rilevare dal proprietario la casa in cui aveva vissuto gli ultimi trent’anni mio nonno, la casa che in qualche modo rappresentava il retaggio della famiglia, casa a cui io e i miei cugini eravamo legatissimi e sita in una frazione rurale di una città vicina. Mi accorsi in fretta di aver fatto il passo più lungo della gamba: ero riuscito ad acquistare la casa e le cinque biolche di terra ad essa relative, ma la ristrutturazione prevista per rendere il tutto abitabile e confortevole pareva fuori dalla mia portata.

Già, in quelle condizioni la mia attività non era sufficiente, tre dischi pubblicati da una piccola casa discografica assicuravano entrate non sufficienti, impossibile implementare di molto i guadagni in un momento storico in cui la mia musica di riferimento si stava inesorabilmente trasformando da fenomeno culturale popolare a musica di nicchia. Nemmeno lo scrivere dava garanzie, mi ero forse fatto un nome nell’ambito in cui mi muovevo e richieste di collaborazioni continuavano ad arrivare, ma ne avevo abbastanza di vivere senza certezze economiche. Ero costantemente sotto pressione e preoccupato: ridussi al minimo le spese e diedi la disdetta dell’appartamento che avevo in affitto e provai a trasferirmi nella vecchia barchessa dato che una volta rimessa a posto era diventata in parte garage, in parte cantina e in parte dependance. Tuttavia il tutto era ancora troppo spartano, l’abitabilità non era ancora stata concessa e quegli spazi sarebbero serviti presto a contenere quel poco di mobilio di famiglia rimasto, i miei arredi e tutto il resto. La soluzione offertami da Dafne pareva al momento l’unica strada percorribile. Ero infine alla ricerca di un lavoro affinché potessi aggiungere peso ai miei proventi.

Eccomi dunque lì, con le chiavi in mano di una abitazione che prendeva un intero piano, arredata per metà e gelida come può esserla una casa rimasta disabitata per anni. Avevo riposto le mie cose in una grande camera vuota, scatoloni e borsoni collocati alla bene meglio, anche se cercai di dare un minimo d’ordine ai miei mille effetti ed affetti personali che portai lì al terzo piano.

Tornai a dare un’occhiata alle stanze. In una era stata appena consegnata e montata una moderna cucina componibile ancora senza nessun accessorio: niente piatti, bicchieri, posate, pentole, calendario e brogliaccio della spesa dove notare le necessità quotidiane. Il frigo era acceso ma di fatto vuoto, all’interno solo bottiglie d’acqua. Di fronte e a destra del corridoio un soggiorno, lungo, spazioso e già un po’ vissuto. Un altro paio di stanze prima che il corridoio formasse una biforcazione davanti ad un lungo vano senza finestre: altri ambienti sulla sinistra e sulla destra, e quindi il congiungimento dei due rami del corridoio dove una vecchia porta in legno chiusa a chiave celava un passaggio verso chissà quali altri mondi. Le stanze a destra davano sul corso, quelle a sinistra su un cortile interno, una sorta di chiostro con piante e giardino curato ma senza bellezza alcuna. Non conoscevo bene la storia dell’abbazia, sapevo solo che con la proprietà c’entrava il nonno o il bisnonno di Dafne e che da piccola lei abitava con i genitori e le sorelle nei due grandi appartamenti del primo piano.

Aprii le porte di tutte le stanze, vidi un paio di bagni ampi e poco luminosi, una bellissima camera da letto, uno studio, un disimpegno e altri locali vuoti. Mi stupii di non trovare una cameretta con una brandina o qualcosa di simile e mi chiesi dove avrei dormito quella notte, forse su uno dei divani del soggiorno?

Dafne entrò in casa, aveva con sé una grande borsa con la spesa evidentemente appena fatta e confezioni di cibo take away.

“Se mi avessi detto qualcosa ci avrei pensato io, ma non sapevo come comportarmi. Tutto è una novità, ti confesso che sono un po’ frastornato”.

“Non ci pensare, il mercato coperto qui dietro è sempre aperto ed è tutto quello che mi serve”.

Mangiammo in quella che lei chiamava la living room, su un tavolino; dalla confezione cartonata uscirono alcune porzioni di cibo tailandese, due dessert, una birra bianca per me, una bibita senza zucchero per lei. Rimasi colpito nel notare il tipo di birra scelta, evidentemente Dafne prestava attenzione ai dettagli. Scambiammo poche frasi, non volevo infastidirla, dopo una giornata di lavoro di certo intensa pensavo volesse solo stemperare le tensioni. Si mise sul divano, si tolse le scarpe, controllò qualcosa sullo smartphone, quindi si mise a guardare le news sul canale dedicato di una tv a pagamento. Passò poi ad una puntata di una serie TV che indubbiamente seguiva da tempo.

“Senti, mi dici dove posso dormire stanotte, così preparo le mie cose e se non chiedo troppo mi faccio una doccia?”

“Se vuoi puoi dormire con me” mi disse tra un dialogo e l’altro che la tv rimandava.

Lo scroscio della doccia finì, dopo poco entrò in camera, io intravedevo i tetti della città dalla finestra e fingevo di essere assorto e meditabondo. In realtà lo ero davvero, non potevo che perdermi nel valutare la stranezza della situazione: una amica sconosciuta stava per infilarsi nel letto dove ero anche io, una che al momento sembrava avulsa dall’humus del mio vissuto. Non ero esattamente il tipo per quelle cose.

Avevo cercato di non guardarla, ma la silhouette che mi passò accanto mi sembrò essere quella di una donna stupenda. Si sdraiò, appoggiò il gomito al cuscino e la testa alle nocche della mano, sorrise e si avvicinò. Non riconobbi nulla della donna che conoscevo: profumi e sapori diversi, linguaggio del corpo sconosciuto, sguardi differenti. Fu un rapporto singolare, a tratti freddo e meccanico, ma soddisfacente per entrambi, o almeno quella fu la mia impressione. Tornò in bagno, si lavò di nuovo e quindi – una volta a letto – si mise a leggere un libro. Mi misi su un fianco, pochi secondi prima di abbandonarmi al sonno lei mi accarezzò il viso.

Uscii di casa alle nove. Il mattino sembrava soleggiato benché le previsioni per il pomeriggio minacciassero pioggia abbondante. Poco prima di mezzogiorno avrei avuto un colloquio di lavoro che speravo si sarebbe trasformato in una proposta concreta. Feci colazione in un bar all’interno del mercato coperto e poi mi diressi verso la cattedrale. Non era certo la prima volta che mi ritrovavo davanti ad essa, ma l’effetto che mi fece fu comunque surreale, ero certo di essere preda di suggestioni kafkiane, tutto mi sembrava immenso e alieno, era come essere in una realtà alternativa. Ero conscio del tipo d’uomo che ero, il sapermi individuo del genere umano capitato per caso su un pianeta nella periferia estrema dell’universo ignaro del perché della vita e della direzione da cui provenivo e verso cui stavo andando spostava le mie percezioni, ingigantiva il rumore di fondo e la visione del mondo esterno, facendomi scivolare in una sorta di weird fiction alla H.P. Lovecraft. Forse vi era qualcosa di patologico, ma non me preoccupai mai più tanto, essendo comunque capace di gestire queste mie fasi.

La cattedrale mi appariva dunque gigantesca e la piazza su cui si affacciava vastissima. Non distinguevo più razionalmente fantasia e realtà. Lo stile pareva così gotico da incutere terrore. La scritta incisa nella pietra sopra al portone diceva Ecclesia Maior. L’interno lasciava senza fiato: tre altissime navate con ai lati una serie di navatelle che si dissolvevano nell’ombra profonda. Mi misi a sedere su di una delle vecchie panche poste nella prima navatella a destra, avevo bisogno di riflettere e niente mi metteva nella giusta predisposizione come i grandi edifici silenziosi. Faticavo a raccapezzarmi, il guazzabuglio che era diventata la mia vita mi disorientava e aveva acuito i miei sensi amplificando le percezioni del mondo intorno a me.  Avevo raggiunto l’età in cui di solito si iniziava a raccogliere qualche frutto ma tutto quello che vedevo d’innanzi a me era color tenebra. Esageravo, la musica mi aveva scelto ed irretito, non avrei potuto fare altrimenti, e dopotutto conducevo una vita dignitosa facendo quello per cui avevo un po’ di talento, ma mi chiesi ugualmente cosa sarebbe successo se avessi intrapreso altre strade invece di seguire l’astratto; ripensando al passato vidi solo i momenti in cui evitai la concretezza, la razionalità, perseguendo scelte che ora mi parevano non poi così sagge. Rimasi con i miei pensieri immerso nel silenzio ancora un po’ e poi uscii.

L’enorme piazza era inondata dal sole, misi una mano a protezione degli occhi e andai a dissolvermi in quella spalancata e bizzarra ampiezza metropolitana; incontrai un paio di conoscenti provenienti dalla fascia di quartieri a ovest della Città, ci scambiammo poco più di un saluto, e poi mi diressi verso il luogo in cui avevo l’appuntamento di lavoro.

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Il deposito che il responsabile stava facendomi visitare era in pratica nello stesso corso dell’abbazia, ma nella parte iniziale. Vi si accedeva da una piazzetta laterale, un rettangolo incastonato tra alti stabili a tratti fatiscenti ma decorosi, tramite una rampa circolare che si insinuava nel terreno sino a raggiungere i due piani interrati. Le parti interne in muratura rimandavano a tempi lontani, così come gli alti e stretti finestroni. Tutto in quel deposito sembrava desueto, la poca luce e l’odore di polvere e di pioggia davano ad ogni oggetto un aspetto anacronistico. Ci si occupava di amministrare la logistica di parecchie imprese del centro storico, di organizzare lo spostamento della merce e la catalogazione delle stesse. Il deposito si estendeva su tre livelli:  0, -1, -2. Al piano terra i muri erano intonacati e gli scaffali erano in massima parte del tipo drive in, strutture in acciaio zincate e divise per colori dove venivano stoccati quasi esclusivamente carichi pesanti. Nei due livelli inferiori tutto era diverso. I muri interni erano di pietra grezza, gli scaffali sembravano in ghisa, gli impianti elettrici erano a vista, solo i pavimenti sembravano essere stati oggetto di ristrutturazione recente. Il colloquio durò un’ora, il responsabile mi salutò cordialmente dicendomi che si sarebbe fatto risentire. La settimana successiva passò in fretta, Dafne si era premurata di assegnarmi lo spazio forse più particolare dell’Abbazia dove poter approntare il mio studio: la stanza incastonata nel tetto dell’edificio arricchita dalla cupola di vetro di cui avevo sentito parlare.

Vi si accedeva da quella porticina in legno che mi aveva incuriosito, uno stretto e buio corridoio con a destra due porte chiuse e subito a sinistra una scaletta intonacata alla ben meglio che conduceva ad uno spazio magnifico di circa 25 metri quadri con pavimento in cotto, muri senza intonaco, una grande tavolo in legno, tre scaffali di rovere alle pareti, sedie di design e uno strepitoso divano giallo ocra molto profondo e lungo. Vi portai un paio di chitarre, alcuni dei miei dischi, l’impianto stereo e il necessario per scrivere. Il weekend lo passai con Dafne in giro per la città, voleva muoversi un po’ e riprendere confidenza con l’urbe, come la chiamava lei. Osservavamo portoni e cornicioni, ci perdevamo negli anfratti più obliqui del centro storico, ci fermavamo nei tavoli all’aperto di qualche bar che ambiva al titolo di bistrot e, almeno così mi pareva, ridevamo. Quando passeggiavo con lei la città perdeva la maiuscola, la cattedrale si presentava per quello che era in realtà e la vita mi sembrava meno impegnativa. Passammo la domenica pomeriggio a letto, ebbi la sensazione che Dafne si stesse sciogliendo, che perdesse un po’ dell’armatura che quotidianamente sfoggiava, sembrava quasi che mi volesse bene. Io almeno iniziai a volergliene, non sapevo se fosse amore o cosa, ma con lei stavo volentieri, non avevamo tantissimi argomenti, o meglio passioni, in comune, per lei la musica, ad esempio, non era basilare quanto lo era per me e la letteratura non rappresentava un imperativo ma le nostre conversazioni, in un modo o nell’altro non languivano mai.

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Il responsabile del Deposito si pose in modo semplice e diretto, la persona che fece da tramite gli parlò talmente bene di me che per lui era come fossi già uno degno della massima fiducia. A quanto mi disse era alla ricerca di una figura come la mia da molto tempo e aggiunse che avremmo trovato un accordo in caso la mia attività di musicista avesse richiesto elasticità. Dopo due settimane mi aveva inquadrato, gli piaceva il fatto che non avevo problemi a sporcarmi le mani e che al contempo potesse contare su di me anche per faccende impegnative e complesse. Gli chiesi solo di non dire agli altri dipendenti della mia professione musicale, preferivo rimanere in incognito, senza essere costretto a spiegazioni. Se non vi erano urgenze uscivo alle 18, in 10 minuti ero a casa, una doccia e subito nel mio studio. Dafne rincasava verso le 19:30, le facevo trovare la tavola della cucina apparecchiata e il frigo rifornito, sì, certo, toccava a lei cucinare ma sembrava farlo volentieri mentre mi raccontava qualche aneddoto della giornata. Dafne era naturalmente una dirigente dell’azienda per cui lavorava e rimanevo ad ascoltarla con interesse mentre cercavo di carpire le sinergie ai piani alti di società come la sua. Se dopo cena aveva da fare o capivo che voleva stare da sola me ne tornavo nello studio, altrimenti guardavamo un film o una serie TV insieme. Alla mattina le preparavo il thè verde senza zucchero, l’unica cosa (acqua a parte) che il suo digiuno intermittente le permettesse, mentre io preferivo affrontare la giornata con caffè, biscotti e succo d’arancia. Se la vedevo sorridere, prima che scappasse giù per le scale mi permettevo di abbracciarla e di scambiare con lei qualche effusione visto che, nei momenti opportuni, giocavamo a fare la coppia stabile e felice.

Strokes, Amy Winehouse, White Stripes, i gusti musicali di Dafne, occasionalmente mi chiedeva di suonarle qualcosa e diligentemente mi mettevo ad imparare uno dei suoi pezzi preferiti e glielo proponevo. Ogni volta sorrideva in quel modo tutto suo, tra il compiaciuto e il trattenuto.

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Libri, manufatti in piombo, sedie in ferro battuto, nel Deposito cercavo di sistemare oggetti pesanti nel miglior modo possibile attento a non farmi male alle mani e aggiornavo il sistema operativo che li catalogava. Dopo quattro mesi il responsabile mi diede altre mansioni, passavo così i pomeriggi nell’ampio spazio circolare del piano terra davanti ad un computer a gestire e controllare i flussi della merce che entrava e usciva. Ogni tanto la sera, prima di rincasare, andavo insieme ai colleghi a bere qualcosa in un locale lì vicino che non avrei mai frequentato altrimenti. Mirvjena veniva dall’Europa dell’est e, seppur caratterialmente distaccata, aveva instaurato con me un rapporto come si conviene; non sapeva chi fossi, lasciavo trapelare poco, ma pareva trovarsi bene in mia compagnia. Le cose sembravano sistemarsi, a Roncadella la ristrutturazione procedeva, grazie al nuovo lavoro riuscivo a pagare senza troppi patemi le rate del mutuo che avevo acceso con una banca e i concerti iniziavano ad aumentare.

Avvisai Dafne che avrei passato il weekend fuori città, avevo un paio di date previste per il venerdì e il sabato sera, sarei dunque rientrato la domenica in tarda mattinata. Il concerto del sabato saltò all’ultimo, inagibilità dello spazio dove si sarebbe dovuto tenere o qualcosa del genere, così decisi di tornare in città dopo lo spettacolo del venerdì. La città di notte, affrontata nel mood in cui mi trovavo da un po’, era piena di fascino: discreta, accogliente, assai diversa dall’entità gotica di qualche mese prima.

Arrivato all’abbazia cercai di fare meno rumore possibile, immaginavo che Dafne fosse già a letto, entrai in casa lentamente con l’idea di andare a dormire sul divano dello studio per non svegliarla. Feci per affrontare gli scalini che portavano alla cupola quando mi accorsi con mia grande sorpresa che da una delle porte a destra del corridoio, dietro la porticina di legno, filtrava luce. Dafne mi aveva detto che erano due vecchie stanze senza finestre che contenevano vecchi mobili di famiglia. Pensai che avesse dimenticato di spegnere gli interruttori, benché mi chiedessi cosa fosse andata a fare in una stanza che a sentire lei non apriva da tempo; mi avvicinai, con cautela aprii la porta, una sorta di anticamera era immersa in una soffusa luce rossastra, un paio di poltrone e alcune sedie su cui erano appoggiati soprabiti e giacche erano posizionate ai lati della stanza.

Sulla sinistra un’apertura senza nessun serramento portava ad un altro vano diviso dall’anticamera da un muro al cui centro vi era una vecchia finestra composta da un telaio su cui erano incastonati piccoli vetri quadrati; da quell’ambiente misterioso provenivano rumori indecifrabili, iniziai a spaventarmi, con le spalle al muro provai a sbirciare dalla finestra. Un grande letto che pareva di velluto bordò era posto in fondo alla stanza, lampade con tenui luci rosse rimandavano ombre dei corpi perlopiù nudi che si muovevano sul letto. Rimasi esterrefatto … riconobbi due donne e tre uomini, uno di quei corpi era di Dafne. Pietrificato guardai al di là del vetro una volta ancora, nessuna perversione particolare ma certo i suoi gusti erano piccanti, e subito pensai che forse lo faceva per trovare la soddisfazione che arrivava a provare sempre meno di frequente e di conseguenza alzava l’asticella.

Distolsi lo sguardo, temevo di farmi vedere, così, con una lentezza esasperante e quasi a carponi, mi mossi verso la porta attento a non fare rumore. Una volta uscito mi infilai nello studio e chiusi la porta a chiave. Passati i primi minuti di stupore cercai di elaborare la cosa, in fondo con Dafne non avevamo fatto nessun patto, vivevo a casa sua perché aveva creduto opportuno darmi una mano; certo, talvolta facevamo l’amore e uscivamo insieme ma non eravamo una coppia, almeno secondo lei. Già, io invece mi ero fatto prendere dal legame che si era creato, dopo alcuni mesi passati insieme per un uomo come me era naturale provare qualcosa per una donna come lei, ma in fondo erano miei problemi, mi dissi, lei con la sua vita poteva fare quello che voleva. Mi versai due dita di rum in un bicchiere, presi una coperta e mi sdraiai sul divano a contemplare le stelle che al di là della cupola sembravano lucette ad intermittenza.

Mi svegliai verso le 10, feci colazione e tornai nella cupola, non sapevo come muovermi, non avevo voglia di fare nulla, avevo bisogno di metabolizzare e pensare. Dafne non c’era, rientrò verso sera.

“Ma non saresti dovuto arrivare domani? Quando sei rientrato?”.

“Stanotte”.

Qualche secondo di vuoto comunicativo. Mi scrutò con fredda precisione.

“Hai visto vero?”

Non risposi.

“Hai visto. Ti sei scandalizzato? Te la sei presa? Spero di no …”

Continuai a rimanere in silenzio.

“Sono i piccoli segreti della mia vita, i miei piccoli vizi … non guardarmi così per favore e non giudicarmi”.

“Non ti giudico.”

“E allora cos’hai? Ti eri messo in testa qualcosa? Ah sì, ecco, ti eri messo in testa qualcosa …”.

Fece uno di quei soliti sorrisi indecifrabili e cambiò subito strategia.

“Vieni qui … “

Cercai di divincolarmi, ma senza troppa convinzione, avrei voluto evitare ma avevo una feroce erezione, mi trascinò a letto e finimmo per avere un intenso rapporto sessuale. Sapeva di metallo e di pioggia, pensai potesse addirittura fare uso di cocaina, ma in quel momento non m’importava, ero governato dal piacere sessuale e niente avrebbe potuto distogliermi dal portare a termine il mio compito primordiale.

La Città tornò ad avere la maiuscola, il mondo sfumature metalliche. Mirvjena si accorse subito che qualcosa era cambiato e, a suo modo, mi stava addosso. Non so perché ma le spiegai che la storia con la persona con cui vivevo era finita e che stavo cercando una via d’uscita.

“Ma scusa, ti ospito io, almeno fino a che non termini la ristrutturazione di casa tua”.

Parlava senza nessun accento ma i termini scelti e la costruzione delle frasi la facevano comunque risultare legata al patrimonio di cultura e civiltà attribuito all’Italia. Smisi di considerarla una slava dopo che che mi insegnò che gli albanesi non appartenevano per nulla a quell’etnia; mi piaceva starla a sentire, avevamo background diversi ma in qualche modo sembrava che avessimo una discreta condivisione di principi. Mi raccontava che con l’arrivo del comunismo ai suoi nonni furono confiscate alcune proprietà ma pareva non avere troppi risentimenti. 

Viveva in un curioso appartamento ricavato in un parallelepipedo rettangolare solamente intonacato che sbucava tra i tetti di alcuni palazzi tutt’altro che storici. Davanti all’ingresso una discreta balconata e sul tetto una selva di piante e fiori abbastanza curata, il tutto era in qualche modo riparato da sguardi indiscreti da un gioco casuale di muretti e divisorie. La costruzione era quantomeno bislacca e mi chiesi chi aveva mai potuto dare il benestare alla costruzione, evidentemente decenni prima le maglie della logica e dell’estetica erano piuttosto larghe. Ringraziai Mirvjena e le dissi che mi sarei preso un paio di giorni per riflettere sebbene la decisione la avessi già presa.

Affrontai Dafne la sera stessa.

“Me ne vado. Domani raccolgo le mie cose. Ti lascio le chiavi sul tavolo in cucina.”

Si rabbuiò, l’espressione mutò in quel misto di indifferenza e disapprovazione.

“Come vuoi. Immagino non ci sia nulla che io possa dire per farti restare”.

Cenammo insieme davanti alla TV, ci scambiammo solo qualche battuta. Sistemai la tavola, mi versai due dita di rum e andai su nello studio. Dafne si trattava bene, la bottiglia diceva “Rum Nation Panana 18 Years Old”. Lessi le note di degustazione: “intenso colore ambrato… intrigante e ricco profumo mieloso con freschi sentori di cola, bergamotto, datteri, scorza d’arancia e vermouth…gusto succoso, dolce e rinfrescante di melassa di zucchero di canna, cioccolato, uvetta, scorza d’agrumi, cola e noce di cocco. Sul finale l’assaggio diventa caldo e morbido sulle note di tè nero, miele e camomilla.”

Guardavo le stelle e mandavo giù quell’acquavite ottenuta dalla canna da zucchero, Dafne mi raggiunse, aveva anche lei un bicchiere in mano. Appoggio la testa alla mia spalla e restò a me avvinta. Mi domandi che significato avesse quell’abbraccio. Scivolammo sul divano, lentamente, non ero sicuro di ciò che volevo, ma non riuscii a tirarmi indietro.

——————————————–

La prima notte da Mirvjena fu strana, passare dall’abbazia a quell’abitazione piuttosto umile non fu automatico e adattarmi per la seconda volta nel giro di qualche mese ad una nuova sistemazione significava spendere energie mentali e fisiche e visto il periodo mi parve rischioso, d’altro canto la ristrutturazione della casa a Roncadella procedeva e contavo di potermici finalmente trasferire prima che arrivasse l’inverno.

Dopo un paio di settimane di sbandamenti, in cui La Città mi parve di nuovo la mia personale versione del Castello di Kafka, tutto sembrò sfumare verso nuance meno gotiche. Una serie di concerti in arrivo, maggiori responsabilità al lavoro, una parvenza di normalità data dalla vita con Mirvjena, benché non fossimo una coppia. Immaginai che fosse abbastanza intelligente da capire che tipo di uomo fossi, passare da un letto all’altro nel giro di una notte non era nella mia indole, tuttavia quando un uomo e una donna, se entrambi eterosessuali, dormono sotto lo stesso tetto, certi pensieri prendono forma, era nell’ordine delle cose. In un freddo sabato mattina di fine ottobre Mirvjena si infilò nel mio letto e fare l’amore fu naturale; capelli neri, un corpo aggraziato, morbido e caldo e un sorriso sempre un po’ malinconico, tutto in sintonia con lo stato d’animo di quell’autunno inoltrato.

Non avevo idea di come sarebbe andata quella storia con Mirvjena, i programmi erano lasciare il parallelepipedo nel giro di poche settimane, ma intanto restavo nel letto abbracciato a lei e mi lasciavo cullare dal crepitio del fuoco di una vecchia cucina a legna posta nella stanza accanto, una di quelle col rivestimento esterno in acciaio porcellanato, con la piastra e i cerchi in ghisa, il forno smaltato e con tanto di vaschetta con mescolo per avere sempre acqua calda disponibile.

Stefano Tirelli – © 2021

 

LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT

 

LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT sul blog:

EPISODIO I: https://timtirelli.com/2021/05/01/le-avventure-di-aramis-reinhardt-i-praenomen-nomen-et-cognomen/

EPISODIO II: https://timtirelli.com/2021/05/16/le-avventure-di-aramis-reinhardt-ii-castles-made-of-sand/

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7 Risposte a “LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT -III- La Città (Gothic Blues)”

  1. Giacobazzi 07/06/2021 a 08:36 #

    Uscirà a stampa?

    Piace a 1 persona

  2. lucatod 08/06/2021 a 14:49 #

    Tim , non sarebbe male una edizione “physical” di questo o altro materiale , tenendo ovviamente conto che non è proprio una passeggiata realizzare qualcosa del genere. Però un paio di copie sarebbero già mie! Dopotutto Jep Gambardella ci ha impiegato quarant’anni tra un libro e l’altro e James Patrick ancora lo deve pubblicare il suo secondo album.

    Piace a 1 persona

    • timtirelli 08/06/2021 a 15:43 #

      Luc, amico mio, grazie mille. Mi piacerebbe molto, trovare un editore credo sia arduo e un autoproduzione sarebbe pesante da affrontare, ma l’obbiettivo sarebbe quello. Chissà …

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