Sesto Episodio (in fondo i link agli episodi precedenti)
di Tim Tirelli
“Ma sei sicuro di quello che stai facendo Ara? A me sembra una cosa da pazzi. Poi, devo dirtelo, mi chiedo come possa uno come te non superare il piccolo tradimento di Michela.” Mino questa volta mi parla senza tanti filtri. Siamo amici intimi dunque può usare il tono che desidera, ma mi colpisce questa sua determinazione diretta e senza fronzoli. Di solito siamo sempre molto attenti l’uno nei confronti dell’altro, è anche per questo che siamo così amici. Non capisce a fondo il perché di quelle scelte, non posso fargliene una colpa, nemmeno io comprendo quello che sto facendo, questa spinta autolesionistica che mi sta cambiando la vita.
E’ il 24 dicembre, cerco di incanalare il discorso su altri versanti: “Che programmi hai per stasera? Sei a Roma adesso no? Che farai?”
“Mi chiedo perché non ci siamo messi d’accordo, potevamo passarle insieme ‘ste feste, giusto? Io, te, i nostri dischi, Roma, un paio di amiche, non ci voleva mica tanto.” La cadenza e l’accento romano di Mino mi riportano ad un clima famigliare, a Roma, città che vivo da non residente e che quindi amo, l’idea di passare le feste là col mio amico sarebbe stata magnifica.
“Già, mi manchi tu e mi manca Roma, ma lascia stare le amiche, una mia conoscente l’altro giorno mi ha detto che sto sempre in giro a scopare di qui e di là, questa cosa mi ha dato pensare, io non mi vedo così…”
“Non ti ci vedi, Ara, lo so, come dici sempre non sei un cantante, eppure se ti pensano così un motivo ci sarà …”
Forse Mino ha ragione, perché dico tanto ma poi in testa ho solo la vecchia stufa di Mirvjena e le sue gambe lisce e morbide e non vedo l’ora di essere da lei stasera, le ho pure comprato qualche regalo: un pigiama di Biancaneve, un completo intimo e un libro. Le ho anche preparato una chiavetta con un po’ di musica.
Passo il pomeriggio tra me e me, con Minnie perennemente assopita, ha il pelo corto, il freddo non lo sopporta proprio e ovviamente preferisce il divano, il letto o il suo angolino nella mia stanza musicale. Il cielo è nuvoloso, a tratti cade una pioggia fredda che la suggestione trasforma in nevischio. Sfoglio le pagine de I Tre Moschettieri che sto rileggendo proprio in questi giorni, fisso le lucine ad intermittenza dell’albero che mi sono costretto a fare, osservo i regali che mi sono comprato e quelli che mi sono arrivati. Dalla grande portafinestra della sala contemplo la campagna, è silenziosa, umida, scura come la China calda che sto sorseggiando. La sensazione è piacevole, ho appena fatto una doccia, indosso un bel maglione di lana a collo alto e sto scivolando in un piacevole torpore.
Mi risveglio alle 18:00, devo essere a casa di Mirvjena alle 20:30, mi risistemo e mi metto in macchina, meglio investire un po’ di tempo tra le stradine del centro di Modena che rimanere qui da solo. Do un bacio alla Minnie, le lascio due luci accese, chiudo la porta a doppia mandata e parto. Mirvjena ha cambiato casa, ora abita in pieno in centro, trovare da parcheggiare sui viali alla vigilia sarà pressoché impossibile; infatti giro a vuoto più volte, provo all’ex ippodromo fino a che nei pressi di via Berengario, in via Bono da Nonantola, trovo un buco. Il problema è che sono dietro casa di Michela, a pochi metri dalle sue finestre. Prima di scendere mi alzo il bavero, mi infilo lo zaino, mi aggiusto la messenger, che Page me la mandi buona. Scendo, pago il parcheggio, la pioggia si sta trasformando in neve. Mi incammino verso via Berengario, lo scalpiccio dei miei passi sul marciapiede non copre il rumore di una finestra che si apre.
“Ste! Ciao, che ci fai qui?”
“Ho una cena con alcuni amici.”
“Aspetta che scendo e ti saluto.”
Rimaniamo cinque minuti sulla porta di casa a congelare, poi salgo da lei, non riesco a dirle di no.
La trovo bene, magari ha il viso stanco, ma rimane sempre una donna splendida. Mentre mi prepara un thè mi dice: “Appena ti ho visto ho sperato che fossi venuto per me …” e qui un tuffo al cuore mi fa barcollare. “Ti prego Michela, è la vigilia, c’è già abbastanza malinconia nell’aria …”
“Sì, sì, certo, scusa”. “Cosa fai stasera?” le domando. “Vado dai miei. Vengono anche le mie sorelle con figli e mariti. Ma finita la cena torno qui, non ho una gran voglia di stare tra la gente”.
E’ sincera, non lo dice per impietosirmi. “Tu invece? Cena con amici? E amiche?”.
Non rispondo.
“Beh, se finisci presto e ti va al ritorno puoi fermarti qui, ci beviamo qualcosa e ci facciamo gli auguri”.
Mi avvicino, le do un bacio sulla guancia e le dico “Buon Natale Michi”. Non ho la forza di usare auguri più in linea con il mio essere e dunque con le celebrazioni del solstizio d’inverno, non ho nemmeno la forza di chiamarla Michela e quel Michi non farà altro che peggiorare le cose. La pioggia si è trasformata in neve, fossi in un mood diverso sarei molto felice.
Attraverso via Berengario, faccio il giro largo mi dirigo alla Pomposa, cammino lentamente sotto alla neve, prendo Castel Maraldo, attraverso la via Emilia, prendo Rua Muro quindi via de’ Correggi, via Carteria ed infine Via della Vite. La porzione di caseggiato in cui abita è arancione, gli scuri dei vari piani hanno colorazioni e condizioni diverse: color marcio quelli del primo piano, grigi nel secondo e marroni nel terzo e nel sottotetto, dove abita Mirvjena. Entro e invece di trovare l’atmosfera piena di tepore che mi aspettavo noto subito che qualcosa non va, la tavola è apparecchiata per metà, la tovaglia dozzinale, piatti e bicchieri di tutti i giorni, nessun odore di buon cibo in cucina, giusto una bottiglia di spumante da due soldi, un paio di calici in plastica e qualche stuzzichino in un piatto.
Mirvjena mi sorride, versa lo spumante nei bicchieri, si getta in soliti e freddi convenevoli, mi viene vicino e io in un paio di minuti passo dall’essere spiazzato all’essere infastidito, e sento ITTOD dentro di me premere.
“Scusa Mirvjena, mi spieghi che succede? Non è che mi aspettassi chissà che ma c’è qualcosa che non quadra. Non dovevamo cenare insieme? Passare la vigilia insieme? Starcene un po’ in pace? Me lo hai proposto tu, ricordi?”
“Certo, è così, è solo che il mio fidanzato sta tornando dall’Albania, dovrebbe arrivare verso l’una o le due dopo mezzanotte e non ho tanto tempo, ma ci tenevo a stare con te…”
“Hai un fidanzato? E non mi hai detto nulla? No, fammi capire, mi fai venire da te la sera della vigilia per fare una sveltina prima che il tuo amichetto arrivi? Ma come cazzo ti è saltato in mente?”
“Ma … che male c’è, tu mi piaci e mi pareva ti piacessi anche io, stiamo un po’ insieme e poi prima di mezzanotte te ne vai”. Mi dice questo mentre si avvicina a me, cerca di abbracciarmi, mette la bocca vicino alla mia, ma io sento solo la rabbia salire e il suo alito che sa di spumante scadente.
“Cos’è che faccio? Ma tu sei fuori di testa! Ma come cazzo ragionate in Albania? Vai, vai Mirvjena, vatti a fare benedire che è meglio”.
Mi infilo il giaccone, prendo armi e bagagli ed esco; la sento dire che le dispiace, che non intendeva, che non pensava avrei avuto una reazione del genere … ma io intanto scendo in fretta le scale maledicendomi e mandandola – tra me e me – a farsi dare dove si nasano i meloni, come diciamo da queste parti. Ma che mi aspettavo, di conoscerla bene solo perché in passato per qualche settimana mi ha ospitato? Ma pensa te se il 24 dicembre mi devo trovare in una situazione del genere.
L’aria fredda mi entra nei polmoni, lo stordimento passa in un attimo, la rabbia diminuisce repentinamente, torno in me, riprendo possesso delle mie facoltà mentali. Sotto ai portici di via Carteria vedo che alcuni senza tetto si sono sistemati per la notte, faccio un pensiero un po’ trito e mi dico che i loro sono veri problemi non i miei. Chiamo il 118 e faccio presente la cosa, dopo 15 minuti arriva una pattuglia di vigili urbani, seguita da un furgoncino dei servizi sociali. In breve fanno accomodare le tre persone sui sedili, li porteranno in un centro d’accoglienza. Tra loro vi è una donna, prima che lo sportello venga chiuso le allungo i tre regali che avevo preso per Mirvjena. “Buon natale signora” le dico. Il suo sguardo non tradisce nessuna emozione, nessuna parola esce dalla sua bocca. I vigili mi augurano buon natale, lo sportello si chiude e i due veicoli partono verso la via Emilia.
In Sant’Eufemia uno dei Ristobar di quell’angolo medioevale è aperto, mi fermo a mangiare qualcosa. Ordino una media bianca, il piatto del giorno e un dessert. Vi sono altri avventori: tre coppie, alcuni amici che parlano di calcio e di donne, e un altro solitario come me. Mentre consumo il pasto guardo la neve cadere attraverso la porta a vetri; se non mi sentissi così inquieto direi che è buffo in una vigilia come questa, meteorologicamente perfetta, trovarsi a cenare da solo in un bar. Tuttavia, come sono solito fare già da un po’, cerco di adeguarmi alla situazione e trarre il massimo dal momento, dopotutto il locale è caldo, il cibo niente male e la compagnia gradevole. Tutti sembrano ben disposti, in breve tempo ci mettiamo ad interagire gli uni con gli altri, io cerco di non dire tanto ma sto al gioco. Mi chiedono come mai io sia capitato lì la sera della vigilia, quello che mi esce dalla bocca è:
“quando accetti di passare la vigilia con la ragazza sbagliata devi mettere in conto la possibilità di finire a passare la cena di natale da solo in un bar …”, un momento di silenzio, abbozzo un sorriso e tutti si mettono a ridere, alzando il calice alla mia salute: “tranquillo, ne troverai un’altra” dice una e via altre risate. Il barista offre a tutti qualcosa da bere, do una occhiata alle bottiglie che ha dietro di sé e chiedo un Jack Daniel’s Single Barrel, dopotutto sono un chitarrista Rock, no?
Esco dal locale dopo aver mandato un bacio con la mano a tutti, la neve cade con regolarità, la luce gialla e calda che illumina il Duomo rende lo spettacolo notevole. Piazza Grande poi è ancor più suggestiva. Torno verso via Bono da Nonantola. Alle 21,45 salgo in macchina e scappo via, ma sulla via Emilia all’altezza dell’Ottavo Campale torno indietro e, giunto nei pressi di casa di Michela, entro nel parcheggio del vecchio Palasport. Sono le 22 del 24 dicembre. Michela è già a casa, la vedo affacciarsi più volte alla finestra. La neve ora cade più decisa, niente di che ma è già un bel vedere. Vorrei trovare la forza di andarmene, ma non me la sento di lasciarla lì ad aspettare, potrebbe essere tornata presto per me, per non perdere quella minuscola probabilità che pensava di avere, almeno un saluto glielo devo. Torno a parcheggiare sotto casa sua, nemmeno il tempo di spegnere la macchina che la vedo correre alla finestra. So che è uno sbaglio, rimarrà comunque delusa, non andrà come si aspetta, ma le ho voluto bene, se sono qui è anche per questo.
“Ste, ci speravo ma in fondo non mi aspettavo arrivassi, non così presto perlomeno. E la cena con gli amici?”
“Non era serata. Le cose a volte non sono come te le aspetti”.
Che Michela sia splendida l’ho già detto, ma stasera con un maglione rosso a collo alto, la gonna e gli stivali si supera, e l’aria un po’ stanca e lo sguardo malinconico aggiungono spessore al suo fascino.
Michela accende il camino, mette sul tavolo uno spumante Gancia e un vassoio di tortelli dolci con le prugne, sa che per me sono uno dei simboli del natale. La tovaglia, i calici e gli addobbi sono perfetti, Michela sa come si fa. Un brindisi, qualche tortello, un rum, e il film d’animazione del 2009 della Disney “Canto di Natale”.
La Londra vittoriana che scorre sullo schermo mi riempie l’animo di buone vibrazioni, il nome Ebenezer – quello del protagonista – poi come sempre mi suscita emozioni fonetiche.
“Ste, ma il personaggio di Scrooge nel racconto di Dickens è pura invenzione o si rifà a personaggi realmente esistiti?” mi chiede Michela sapendo il tipo di interessi che ho.
Mr Sapientino, come mi chiamava una mia ex, sale in cattedra: “si dice che la figura di Ebenezer sia stata ispirata da un paio di persone facoltose e al contempo molto avare della Londra dell’epoca vittoriana, un mercante di nome Scroggie e un altro riccone, mi pare si chiamasse John Elwes. Scrooge è l’evidente storpiatura del cognome Scroggie, cognome che deriverebbe da un toponimo scozzese che descriverebbe un posto dove il fogliame stenta a crescere. Anche il nome Ebenezer si rifà ad un toponimo, in questo caso ebraico, citato nell’Antico Testamento, Eben-haezer, ovvero pietra dell’aiuto, o qualcosa del genere.”
Michela mi guarda stupefatta “Ma com’è che sai a memoria queste cose?
“Perché sono matto, ecco perché”.
Ho i suoi occhi fissi di me, lo sguardo che ha è chiarissimo “ …e poi non chiedermi come mai ci si innamora di te”, aggiunge.
Non voglio fare quella parte, e comunque se è ancora innamorata di me è perché tra di noi c’è una reazione chimica, reazione che prima o poi finirà, l’attrazione fisica e l’innamoramento potranno anche trasformarsi in un sentimento più intimo, quello relativo all’innamoramento consolidato, ma poi si arriverebbe alla terza fase, quella che Robert Sternberg chiama impegno e dunque la scelta di vivere con la persona amata senza considerare altre opzioni, ed è questo il punto, è una fase che lei non è stata in grado di rispettare. Mentre mi avventuro in questa digressione tra me e me, un po’ nauseato dalla sentenza supponente che ogni volta che gironzolo intorno a quel discorso emetto dopo quanto quanto accaduto, sento Michela parlare, raccolgo qualche spicciolo del suo discorso a cui non do riposta. Mi alzo deciso ad andarmene. Rimane delusa, la capisco ma non ci posso fare nulla. Devo sbrigarmi prima che Wesley mi giochi brutti scherzi e mi faccia finire a letto con lei, lo sento imbizzarrirsi laggiù. La abbraccio forte, le do un bacio sui capelli e scappo via.
Di nuovo in macchina, sulla via Emilia. Mi chiama Penny per assicurarsi che non sia solo, quando capisce che lo sono mi invita da loro per un brindisi, ma gentilmente rifiuto. Sul telefono lampeggiano le chiamate perse a cui non ho dato risposta. Sono di Mirvjena. Mi chiama Michela, questa volta è più risoluta, mi dice che non capisce, sa che ha sbagliato, ma le pare che io sia troppo fermo nel dare per chiusa la nostra storia, crede ci sia altro e che comunque vorrebbe passare il natale con me, che se cambio idea stasera, domani o quando voglio lei mi aspetta. Sono le 23,40, manca poca a casa, faccio inversione a U e mi rimetto in direzione est, l’impeto mi spinge a tornare da lei, ma dopo un paio di chilometri mi fermo a bordo di una rotatoria deserta … la neve scende, il tergicristallo tiene un tempo costante, ostinato, duro, senza swing, dalla chiavetta un tributo orchestrale ai Pink Floyd (preso solo perché in un brano compare Edgar Winter) che ora mi pare pesantissimo; scendo dalla macchina, respiro e mi dico “ma che cazzo sto facendo?”. Cambio idea per l’ennesima volta, punto verso Roncadella, pochi minuti e apro la porta di casa.
Minnie scende dal castello tiragraffi, si stira, e mi guarda con quei suoi occhioni tondi. Accendo la stufa a legna. Mentre mi preparo qualcosa, prima di mettermi davanti alla TV a guardare qualche vecchio cartone natalizio della Disney metto sul piatto Hold That Plane di Buddy Guy. Pur nella miseria di un umore tutt’altro che buono, accenno a qualche passetto a tempo di blues.
Sul tavolinetto della sala, un piatto con datteri, fichi secchi, scacchetti, spongata, succo d’arancia e un bicchiere di Southern Comfort … buon natale Aramis Reinhardt.
Il 25 non mi muovo, ci sono 40 cm di neve per terra e qui in campagna gli spazzaneve non è certo passino. Spendo parte della mattina al telefono, amici, zii, cugini, Michela. Ha smesso di nevicare ma il panorama è magico: la campagna completamente innevata, il fumo che sale dai camini delle case, le genti che nonostante la tanta neve arrivano alla chiesetta di Roncadella per la messa delle 11, il rintocco delle campane. Indosso la mia tuta Adidas più calda e sopra il mio giubbotto di lana pesante con pelo sintetico all’interno. La mattina sullo stereo passano Tale Spinnin’ dei Weather Report, il Piano Concerto di Keith Emerson dall’album Works degli ELP e Physical Graffiti dei Led Zeppelin. Scendo a prendere legna per la stufa, risalgo, mi preparo un pranzetto da uomo di blues. Poi, sospinto dal rum, mi appisolo sul divano. Riemergo, suono, scrivo qualcosa per il blog, sul piatto Crusade di John Mayall e il Live di Muddy “Mississippi” Waters. Natale se ne vola via così.
Il 26 tradizionale pranzo da mia sorella e pomeriggio passato qui da me a Roncadella con tutti i cugini. Tortelli dolci, spumanti e i soliti vecchi ricordi di noi bambini qui in campagna dal nonno. Risate, un po’ di malinconia, un brindisi a chi non c’è più, e la nostra piccola saga famigliare enfatizzata a più non posso.
I giorni dopo Santo Stefano si confondono gli uni con gli altri, fino all’epifania perlomeno, non sai mai che giorno della settimana sia, quanto manchi alla fine dell’anno o al sei gennaio. In uno di quei giorni indistinguibili ricevo una telefonata da Roma, è il responsabile di una casa discografica che vorrebbe sapere se sono interessato a fare due chiacchiere, ha saputo che al momento sono senza contratto, sarebbe interessato agli ARA e non gli dispiacerebbe capire se la cosa può stuzzicarmi. Gli dico che dal 7 gennaio non sarò più un professionista, che mi sono preso una pausa e che inizierò a lavorare in una azienda di logistica. Insiste: “guardi Rinaldi, sono al corrente della sua situazione, il nostro conoscente comune Scopelliti mi ha illustrato la cosa, ma per il momento va bene anche così, i suoi dischi con gli ARA qui da noi sono sempre piaciuti. Se le va ci vediamo e ci annusiamo. Che ne dice?”. Cesare de Angelis lo avevo sentito nominare da Mino appunto, e dal chitarrista di una band che conosco. Sembra gente a posto, un incontro lo possiamo anche fare. Ne parlo con Penny, meglio evitare di farlo con Giovanni, è appena tornato a lavorare nella ditta del padre, non voglio metterlo in difficoltà anticipandogli qualcosa che potrebbe anche non andare a buon fine.
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Alla stazione Mediopadana di Reggio prendo il treno ad alta velocità per Roma. Due ore e mezza di viaggio; leggo, sul laptop scrivo qualcosa per il blog, sonnecchio, parlo a bassa voce con Michela al telefono. Mino viene a prendermi all’arrivo, l’abbraccio che ci diamo è virile e pieno di amicizia, dio, quanto voglio bene a quest’uomo. Giusto il tempo per bere qualcosa insieme e per accompagnarmi alla casa discografica poi – causa impegni di lavoro – deve scappare. De Angelis mi accoglie nella saletta ricavata nel suo grande ufficio. Insieme a lui anche la sua collaboratrice Elisabetta Bonaga, presentata come responsabile del sales enablement. Quei termini inglesi mi innervosiscono un poco, ma faccio buon viso a cattivo gioco. La loro intenzione è di espormi in breve la visione della casa discografica e la necessità di diversificare il business visto che di dischi in formato fisico naturalmente non se ne vendono più come un tempo. Il programma dell’incontro sarebbe di accennare alla cosa per un’oretta, poi pranzare insieme e quindi terminare informalmente la chiacchierata nel primo pomeriggio. Succede però un imprevisto, De Angelis e la Bonaga vengono chiamati da una terza persona, devono assolutamente assentarsi per un po’. Si scusano molto, e chiedono se non è un problema rivederci più tardi. Mi lasciano in compagnia di una loro collega la quale, sembra di controvoglia, mi porta a pranzo.
“Ci scusi ancora signor Rinaldi, ma a volte capitano urgenze imprevedibili.” In altri momenti avrei anche potuto alzarmi e tornarmene in Emilia, ma non stavolta; sono senza contratto e, per quanto faccia finta di credere di volere cambiare vita e allontanarmi dalla musica, meglio non fare troppo il difficile.
Non ho capito esattamente il ruolo della tipa che ho davanti all’interno dell’azienda, mi hanno detto che è laureata in lingue e si occupa di contratti e di marketing, o qualcosa del genere. Al ristorante ci scambiamo i biglietti da visita.
“Lucrezia Michelle Dalle Monache? Nome singolare, articolato … complimenti. Io sono sempre molto interessato all’onomastica”. Non si sbilancia, sembra disinteressata a fare conversazione. Ordiniamo, poi, probabilmente pentita di apparire troppo distante, cerca di rientrare in carreggiata.
“Beh, anche lei in quanto a nome non scherza… i miei nonni comunque erano di Viterbo, una città dove il mio cognome è comune, i nomi personali invece li devo a mia madre. Mentre mi aspettava stava leggendo il libro di Dumàs I Tre Moschettieri, in una pagina lesse ‘Lucrezia d’Inghilterra’ e le venne l’ispirazione. Michelle non proviene dalla canzone dei Beatles ma bensì da un pezzo dei Pooh.”
“Ah, certo, Che Ne Fai Di Te”.
“La conosce? Non credevo ascoltasse i Pooh…”
“Il mio amico di sempre aveva Poohlover e Rotolando Respirando, e nella adolescenza fecero parte dei dischi che ascoltavamo, insieme ai tanti altri album Rock che formarono i nostri DNA.”
Lucrezia guarda il mio biglietto da visita: “Aramis Reinhardt – Uomo di Blues”, uhm, come mai Uomo di Blues e non musicista?”
“credo che Uomo di Blues mi descriva meglio, è inteso in senso lato, non solo musicale …”
Vedo che preferirebbe starsene sulle sue, ma parte del suo lavoro è pur sempre trattare con gente come me, dunque si sforza di mantenere viva la conversazione.
“In senso lato?”
“Per come lo intendo io l’uomo di blues è uno sempre alla ricerca del proprio nido di stelle, pur sapendo che non esiste, è sospinto quindi da una irrequietezza atavica” le dico, e non riuscendo a fermare la mia emilianità aggiungo” prenda me, fino a poco fa avevo una storia d’amore con un’amazzone meravigliosa, per una faccenda antipatica ma a cui avrei potuto passare sopra ho interrotto tutto. Inoltre tra pochi giorni non sarò più un musicista professionista. Avevo avuto proposte discretamente allettanti dall’altra casa discografica per proseguire un progetto che mi avrebbe garantito un minimo di fama in Europa e entrate di un certo tipo, e invece cosa faccio? Rinuncio, perdo il contratto e mi accingo a iniziare un lavoro in una azienda di Logistica. Le pare normale?”.
Lucrezia è sorpresa, non si aspettava fossi così sincero con una sconosciuta. Pranziamo, la conversazione scivola verso i soliti temi neutri. Ha occhi profondi, pare una donna con un passato, deve avere più o meno la mia età. Rientriamo. De Angelis e la Bonaga mi presentano un’altra giovane collega che si occuperà di me in caso ci accordassimo, Margherita Passacantando.
“Buongiorno Aramis, è un piacere conoscerla.”
“Ciao Margherita, quindi anche tu farai parte del team che mi seguirà in caso la faccenda vada in porto?”
“Sì, è così, per le cose importanti avrà Cesare, Elisabetta e Lucrezia, per tutto il resto chieda pure a me.”
“Lo so che sono più vecchio di te, ma se io ti do del tu, anche tu devi farlo”.
Il feeling sembra quello giusto al punto che mi chiedono di fermarmi un altro giorno, l’indomani potremmo andare più sul concreto e lasciarci con le idee molto più chiare, su cui poi riflettere. Mi trovano un tre stelle nelle vicinanze, Elisabetta si preoccupa di accompagnarmi all’albergo e di organizzare un aperitivo, questo prima della cena in un agriturismo a una decina di chilometri dall’albergo. Salgo in camera, mi sistemo, mi rinfresco e scendo. Elisabetta mi aspetta al banco del bar, ha in mano uno Spritz. “Mi spiace tu debba prolungare l’orario di lavoro con questo aperitivo e la cena” le dico, “Non ti preoccupare quando ci sono riunioni con gli artisti è così. Comunque questo è anche il mio albergo. Sono già salita in camera.” “Dunque non abiti a Roma, Infatti hai l’accento emiliano, sei di Bologna?”. “Sì, abbiamo qualche ufficio anche lì, scendo a Roma quando c’è bisogno. Sono la coordinatrice dei sales, ma faccio anche la commerciale pura e in pratica quello di cui c’è bisogno. Le cose sono cambiate, anche se da un paio di anni tutto si è stabilizzato, e la situazione adesso non è malvagia.” Elisabetta è carina, alta, capelli neri e puliti raccolti in uno chiffon davvero ben fatto, ha un cappotto corto molto bello, nero decorato da fiori vivaci di stoffa, jeans infilati dentro a stivali al ginocchio. Da brava Emiliana mi racconta della sua vita, quarant’anni, single, con un figlio grandicello, le piace la musica non melodica.
La cena si rivela piacevole, sembra davvero gente in gamba e ben disposta. Con De Angelis e Dalle Monache siamo ancora al lei, ma con Elisabetta e Margherita il tu ormai è liscio come l’olio. A mezzanotte ritorno in albergo con Elisabetta.
Ore nove di mattina, colazione e poi alla casa discografica. La riunione è alle dieci, passo così quasi mezz’ora con Margherita. Venticinque anni, laurea breve, bellezza del sud, sguardo sveglio. Le chiedo da dove viene visto che non riesco a decifrarne l’accento “Sono campana, ma ho girato molto, e non ho un accento del tutto riconoscibile”.
Le due ore di riunione sono proficue, mi offrono un contratto per due album a condizioni niente male. Ci risentiremo tra una settimana, intanto ci stringiamo la mano e con Elisabetta corro in stazione, Margherita ci ha trovato due biglietti su Italo per le 13.
Il treno sfreccia, ci mangiamo un panino, beviamo una coca, poi lei si mette a lavorare sul laptop. Io guardo passare l’Italia ai miei piedi, giocando a carte col mio destino. A bassa voce faccio qualche telefonata a Penny, Bianca e Mino. Spiego per sommi capi le prime impressioni. Due ore e mezza dopo scendo alla Mediopadana di Reggio Emilia, Elisabetta mi abbraccia “Ciao Aramis, ci sentiamo allora tra qualche giorno. Valuta bene, noi siamo davvero interessati, lo hai capito. E alla prima occasione andiamo a pranzo o a cena insieme, va bene?”.
Mi faccio lasciare dal taxi davanti al cancello, percorro lentamente i 50 metri dello stradello d’entrata, in quel momento arriva Sabrina, la mia vicina: “Ciao Ara, tutto bene? Senti, ieri sera non sono riuscita a mettere dentro la Minnie. Stamattina l’ho cercata ma non l’ho vista…sono preoccupata, mi spiace…”.
Mi guardo intorno, alzo lo sguardo e la vedo sul tetto della barchessa.
“Minnie, sciocca! Cosa fai lì? Hai passato la notte fuori disgraziata? Dai andiamo in casa!”
Mi avvicino al caseggiato di servizio, lei salta sul tetto più basso, quindi su alcune assi di legno appoggiate al muro, atterra sull’erba e corre verso le scale. La casa è fredda, accendo riscaldamento, stufa a pellet e stufa a legna. Dopo averle dato da mangiare e acqua fresca da bere, con la salvietta la pulisco, come faccio ogni sera, per oggi non esce più. Rassegnata e obbediente mi lascia fare, cerco di adempiere al compito con dolcezza, è una faccenda che non ama molto, la guardo negli occhi, mi piace pensare che sappia che lo faccio per il suo bene (e per il mio). Se vuole vivere in casa, condividere, letto, tavola e in pratica ogni cosa, deve pagarne il prezzo.
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L’ultimo dell’anno lo passo da solo, voglio vivere il mio blues tranquillamente, ma il pomeriggio mi vedo con gli amici in centro a Modena, quindi con Ricca, Lizn, Ellade, Fede, Martino, Zakk, Rod, Cole e Lauro. Siamo all’Irish Pub Griffin in via Gallucci angolo Largo Hannover. Ci sediamo all’esterno, si gela, così ci raggruppiamo stretti intorno a tre tavoli, i funghi di calore tentano di riscaldarci un poco, ma sono le due medie a testa che in qualche modo lo fanno, Belgian Blanche per me, Rosse per Ella, Guinness e Harp per gli altri. Mi chiedono degli sviluppi lavorativi, musicali e sentimentali, racconto per sommi capi quello che sta accadendo, ma non voglio annoiare e intristire nessuno, preferisco che si saluti l’anno vecchio alla solita maniera, parlando quindi dei massimi sistemi: calcio, donne e musica Rock. Dopo un’oretta ritorno al parcheggio, sono mezzo brillo, due medie e un irish whiskey a stomaco vuoto sono un po’ troppo. Devo attraversare buona parte del centro, tiro su il bavero del giaccone, fa un freddo becco che spero mi faccia passare il torpore che ho in corpo. Mi viene in mente Cartello Alla Porta di De Gregori e dentro di me la canticchio con allegra malinconia
Ho fatto il pieno e cammino di notte
Come uno scemo
E mi prendo gli schiaffi e le botte
Del freddo e del vino
E premo l′acceleratore
Quando incrocio le luci blu
Ho fatto il pieno, ho perso il treno
Di quei treni che non passano più
Percorro corso Canalgrande, poi la laterale che porta in piazzale San Giorgio e quindi via Taglio. Verso la Pomposa passo svelto tra i locali stracolmi dei forzati da aperitivo. Mi dirigo verso via Berengario, in uno degli ultimi locali noto una rossa seduta di schiena ad un tavolino con alcune amiche; una di queste esclama “Aramis!”. La rossa si volta di scatto “Ste!”. Mi fermo a salutare, le amiche di Michela chiedono di farsi una foto con me. La amazzone mi prende da parte: “Ma … hai bevuto”. “Sì, una paio di birre con i ragazzi al Griffin. Adesso torno a casa.” “Solo birre?” “Anche un whiskey”, “Si sente” mi dice avvicinando il muso alla mia bocca. “Non penserai di metterti subito in viaggio, vero?” “No, pensavo di stare un po’ in macchina nel parcheggio ad aspettare che mi passi…” “Con questo freddo? Sei pazzo? Vuoi finire come Bon Scott? Aspetta …”. La sento dire alle amiche che si vedranno più tardi alla cena o qualcosa del genere, poi mi prende a braccetto. “Dove hai la macchina?” “Al Novi Sad” “Beh, allora adesso vieni a casa mia, ti faccio un thè e un caffè e aspettiamo che ti passi un po’”. Non dico nulla, mi lascio guidare da lei. Saliamo le scale, davanti alla porta mentre cerca le chiavi la guardo e le dico “Ti ho voluto tanto bene”, non so come mi sia uscito, deve essere l’alcol. Alza lo sguardo, mi avvicino e le appoggio leggermente le labbra alle sue. Entriamo, vorrei mettermi sul divano accanto al camino, lo faccio ma solo dopo averla strinta a me. “Hai bevuto Ste, temo tu lo faccia solo per questo”. Torno in me. Sul divano mi bevo il caffè caldo, e poi il thè con i biscotti svedesi. Michela è un tesoro, prepara tutto con molta cura. Sorseggio il thè, lei fa lo stesso, ci guardiamo negli occhi, appoggio la tazza sul tavolino, mi avvicino e la bacio con passione, poi torno sul divano e mentre mi si chiudono gli occhi sento che mi copre con una plaid. Poco dopo le 20 mi sveglia. “Ste, io dovrei andare, se vuoi rimanere per me va bene, ma vedi tu”. Mi alzo, mi risistemo e decido di tornare a casa. Prima di lasciarci Michela mi guarda negli occhi “Se mi vuoi ancora, io sono qui, per te, solo non impiegarci troppo”. Mi abbraccia, mi augura buon anno e sale in macchina.
Sulla Sigismonda, la blues mobile, rollo sulla via Emilia, cerco di non riflettere troppo sull’anno che si sta chiudendo, il car stereo passa De Gregori, è la compilation che ho fatto con i pezzi che sento di più quando sono in questo mood: Cartello Alla Porta appunto, e poi Deriva, Sempre e per Sempre, Compagni di Viaggio, Ti leggo Nel Pensiero, Showtime e Jazz, quest’ultima la canticchio sostituendo il termine Jazz con Blues
Qualcuno l’avrebbe saputo perfino suonare quel blues
Certamente non proprio benissimo
ma quel tanto che basta e che fa.
Che si dica “Ha vissuto la vita sotto l’ombra del blues’.
Che si dica ‘Quell’uomo ha vissuto sotto i colpi del blues’.
Arrivato a casa, mi fermo in cortile ad osservare le stelle, ricordi di campeggi estivi organizzati dal prete del paese mi tornano su, le settimane di vacanza alle Piane di Mocogno, i fazzolettoni al collo e le serate passate intorno ad un falò acceso in mezzo ad una piana nel bosco ad intonare i canti dei Lupetti …quante stelle quante stelle dimmi tu la mia qual è … sto diventando sentimentale, meglio entrare in casa. Minnie sta giocando con la pallina, io mi butto sotto alla doccia; quindi mi preparo un paio di toast che porto sul tavolino della sala insieme a frutta, sughi d’uva, una paio di paste diplomatiche e la Lemonsoda, in frigo metto la bottiglia di Bellussì Blanc De Noir che mi ha regalato Lauro per natale e che aprirò più tardi per il brindisi che farò con Minnie, io lo spumante freddo e lei un poco di latte tiepido. Infilo nel lettore il divudi di Jeremiah Johnson, il mio film preferito, non sarà un fine anno scoppiettante ma è già qualcosa. Alle 23:30 suona il campanello. Dal finestrone cerco di capire chi può essere, c’è un’auto con i fari accessi davanti al cancello, una figura scende, vede la mia sagoma in lontananza ritagliata dalla luce che la stanza riflette alle mie spalle, si ferma, mi guarda, la guardo, aziono l’apricancello.
La sento salire le scale, la faccio entrare. “Non potevo non venire, non mi importa nulla di quello che sarà, stasera dovevamo stare insieme.” Non dico nulla, apro il frigorifero, prendo il Blanc De Noir, riempio due calici, li facciamo tintinnare, ci auguriamo buon anno, lei svuota il suo in un istante e si dirige in camera, si spoglia, rimane in mutandine e reggiseno e si infila sotto al piumone, faccio lo stesso, inutile chiedersi se sia un errore o meno, sono gli ultimi minuti di un anno turbolento, è giusto così, viviamo il momento. La abbraccio, scivolo sopra di lei, la guardo negli occhi, mi appresto a baciarla mentre la campagna fredda e scura rimanda gli echi dei botti di fine d’anno e Robert Redford, dopo aver sconfitto i migliori guerrieri della tribù dei Corvi mandati ad affrontarlo uno alla volta alla maniera dei Crow, scorge da lontano Paints-His-Shirt-Red (Corvo Rosso insomma), i due nemici si osservano, Redford imbraccia il fucile ma Corvo Rosso inaspettatamente alza il braccio e apre la mano in segno di pace, Redford lentamente contraccambia il gesto, sancendo la fine del loro conflitto.
Stefano Tirelli – © 2022
LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT SUL BLOG:
EPISODIO I:
LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT -I- Praenomen, Nomen et Cognomen
EPISODIO II:
EPISODIO III:
LE AVVENTURE DI ARAMIS REINHARDT -III- La Città (Gothic Blues)
EPISODIO IV:
EPISODIO V:
Grande Ara, puntata notevole, una delle migliori e che rispecchia appieno la poetica tirelliana.…
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Forse troppo. Sarebbe interessante l’opinione di qualcuno che non conosca il magister e non legga il blog…
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Ho risposto a questo commento diversi giorni addietro, ma si vede non è passata… Secondo me rispecchia anche troppo la poetica tirelliana, e propio per questo al Magister sarebbero più utili feedback esterni, da estranei alla tirellosfera
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Ma un plauso alla Michi che prende il destino del nostro eroe in mano (peste colga il I maschio che prova a fare battute eh?) e fa esattamente ciò che andrebbe fatto perché entrambi vogliono sia fatto, perché è naturale sia fatto? Il mio momento preferito? Quando a quell’Ara – io vorrei, non vorrei, ma se vuoi – che ancora non ha capito di essere di Michela si svela la cruda realtà che anche le donne – come e più degli uomini – sanno usare se stesse e gli altri per il momento, avendo invece ben chiaro ciò che è importante e ciò che riempie solo la quotidianità…..e finalmente Mirvjena che appare per ciò che è: una fredda solo apparentemente calda compagna di qualche momento. Tutto sommato aveva ragione quella tua amica, Ara….scegliersele meglio le compagne (non di vita ma ) di solitudine!!! Bel capitolo. Non farci aspettare altri tre mesi per il prossimo
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