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TT’s SCHOOL OF ROCK VIII: Free & Bad Co

6 Apr

L’ottava puntata della School Of Rock che tengo per la azienda per cui lavoro si è tenuta il 4 aprile del 2024, in ritardo di un paio di settimane sull’Equinozio di primavera, ma ogni tanto la logistica aziendale ha la precedenza.

Faccio un copia incolla dell’introduzione presa dalle precedenti School Of Rock per far comprendere meglio la cosa a chi si dovesse affacciare sul blog per la prima volta:

Come scrivo ogni volta che affronto questo tipo di articoli, lavorando in un’azienda come quella in cui sono uno dei miei compiti è anche quello di tenere alcune lectio magistralis (e sia chiaro, lo scrivo con tutta l’autoironia possibile) sulla musica Rock. D’altro canto il presidente me lo disse già durante il colloquio tre anni fa: “In caso scegliessimo te, sappi che ti chiederò di tenere lezioni sul Rock per i colleghi”. Eccomi dunque qui per la nuova “School of Rock”. Siamo ormai arrivati all’ottavo episodio, da tenersi come sempre dalle 18:15 alle 19:30 nella – a me tanto cara – Sala Blues, la sala riunioni informale,  la sala “where the dreams come blue”, capacità: 25 posti a sedere. Un pubblico dunque selezionato che si prende la briga di fermarsi in azienda dopo l’orario di lavoro per ascoltare storielle e brani musicali di gruppi del bel tempo che fu. 

Anche in questa occasione si è rischiato di far saltare l’appuntamento primaverile del 2024, il periodo lavorativo che stiamo passando per varie ragioni è molto intenso e impegnativo dunque avevo davvero pensato di non mettere altra carne al fuoco, tuttavia uno dei nostri dirigenti continua a non demordere e a “pretendere” che la School Of Rock rispetti gli appuntamenti trimestrali, e allora non si molla, nemmeno di un centimetro. Questa ostinazione nel tenere viva la School Of Rock la dice lunga sul carattere dell’azienda, su come si punti decisi sul legame che unisce le persone, sull’attività extra lavorativa atta a sottolineare la condivisioni di interessi e a cementare la personalità della azienda stessa.

Il suddetto manager mi ha invitato a tenere la barra puntata pure in questa sessione verso l’Hard Rock (Blues) e allora – visto anche il poco tempo a disposizione – niente di meglio che parlare dei Free e dei Bad Company, argomento a me caro (carissimo) e conosciuto.

In un ora o poco più non è che si possa riassumere la storia di due gruppi, come ho scritto nell’episodio VII, dunque meglio affidarsi a qualche squarcio estemporaneo per cercare comunque di far capire che cosa sia il Rock e che cosa siano stati i Free (soprattutto) e i Bad Company.

Un po’ l’argomento sconosciuto ai più, un po’ il periodo lavorativo intenso vi sono alcune defezioni dell’ultimissimo minuto, non c’è dunque il sold out (capacità della sala: 25 persone o poco più), ma più o meno un quinto del personale è comunque presente, colleghi e amici che decidono di spendere un po’ di tempo col sottoscritto, di trasformarsi in congregazione e di assistere di nuovo al rito della School Of Rock, perché il claim della School Of Rock di Tim Tirelli è pur sempre questo:

il Rock non si può insegnare, il Rock lo si riceve in dono da una predisposizione spirituale e lo si impara col chilometraggio.”

Lascio l’introduzione ad un aneddoto e racconto che:

Qualche giorno fa ero in refettorio (la cucina aziendale), stavo prendevo un caffè quando arrivano Daddo e Chris (due colleghi) … mi chiedono chi sono quei due gruppi di cui parlerò …accenno a come sono entrati nella mia vita e ai brividi che mi hanno dato sin dal primo momento … mi lascio trasportare dall’enfasi come mio solito …Chris mi dice, “mi hai convinto, allora ci sarò anche io”. Daddo aggiunge che “è bello quando ci racconti queste cose di quanto eri un ragazzino, di quando non c’era internet, youtube, spotify e dovevate arrangiarvi alla bene meglio per avere notizie dei gruppi”.

Racconto pertanto di come mi sono arrivati i Free:

Un bel sabato mattina di maggio, fine anni settanta, a Nonantola, la primavera, noi ragazzini e la sensazione di sentirsi titanici dinnanzi al futuro. Bicco è il mio migliore amico, abbiamo messo insieme un gruppo …The Strangers …

The Strangers 1979

The Strangers – 1979 da sx Marcel, Tim, Biccio, MarioMarchi Foto Roberto Sighinolfi

da poco con la sua famiglia si è trasferito di fianco alla palazzina bifamigliare in cui abito io. Scende in cortile con suo fratello più piccolo, Marcel, ha una cassetta fatta da suo cugino più grande di noi … la fa partire, il mangianastri gira più lento, la voce del cantante pare profonda tanto che noi pensiamo siano neri, non c’era internet/Youtube/Spotify etc etc, le foto le trovavi o sui dischi o sui pochi giornali specializzati che già a loro volta faticavano ad averle … benché fossimo molto giovani, ragazzini o poco più e quindi convinti che il mondo girasse intorno a noi avevamo già una predilezione per i beautiful losers di certi film americani, una certa predisposizione per la malinconia, per i cuori infranti, per le serate nebbiose …e allora FIRE AND WATER dei FREE ci colpì come un fulmine. Quel rock schietto e genuino proveniente dal blues, quella tensione piena di testosterone, quella ballate suadenti che diventarono un velo di crepe nere da indossare … ALL RIGHT NOW certo, MR BIG sicuro, ma anche Oh I Wept, Remember e soprattutto Don’t Say You Love me (because I know it would be just a lie).

Dopo questo incipit passo a raccontare per sommi capi la storia:

Nel 1967 a soli 17 anni il cazzutissimo Paul Rodgers decide di lasciare Middlesbourgh nel nord Inghilterra insieme agli amici della sua band (già piuttosto famosa dalle sue parti) per provare ad avere fortuna nella capitale Londra. Con lui anche il chitarrista Micky Moody (futuro chitarrista degli Whitesnake) e Bruce Thomas (futuro bassista di Elvis Costello). Dopo poco la band (The Wildlowers) però si scioglie. Moody torna Middlesbourgh mentre Rodgers rimane a Londra ed entra in una gruppo di Rhythm and Blues chiamato Brown Sugar. Durante un loro concerto tra il pubblico vi è Paul Kossoff, chitarrista dei Black Cat Bones, una blues band, il quale rimane colpito dalla voce e dalla presenza di Rodgers e chiede di poter unirsi al gruppo in quella serata per fare una jam session. Scatta la scintilla. Kossoff convince Rodgers a formare una band, prendono a bordo Simon Kirke che già suonava con Koss e si mettono in cerca di un bassista. Con l’aiuto di Alexis Korner – uno dei padri del blues revival inglese degli anni sessanta – trovano Andy Fraser un 15 enne che era già nel giro di John Mayall, altro nome di spicco del british blues.

Il gruppo è formato da 4 adolescenti, ma ha una maturità già incredibile.

Il 19/04/1968 fanno il primo concerto a Londra in un pub a Battersea e da lì inizia una corsa vorticosa, ben presto si sparge la voce, nei circoli underground il nome del gruppo si fa sempre più conosciuto fino a che la Island Records li mette sotto contratto e gli fa aprire i concerti degli Who a fine 1968.

TONS OF SOBS (un sacco di soldi) esce nel marzo del 1969, disco di blues Rock al contempo feroce e pieno di testosterone e riflessivo. Purtroppo vende solo 20.000 copie in UK e non entra in classifica, mentre negli USA arriva appena al 197 posto. La Copertina non aiuta essendo piuttosto funerea.

FREE (il secondo album) esce nel ottobre del 1969, giusto sei mesi dopo il precedente. Il blues si fa meno formale, iniziano a trasparire tracce di songwriting più aperto. Le atmosfere sono più dilatate e suggestive. La partnership compositiva Rodgers-Fraser inizia a farsi interessante. Copertina creativa e sensuale. 22esimo in UK, 177 in USA, meglio ma ancora troppo poco, e siamo già al secondo disco.

FIRE AND WATER esce nel 1970, la copertina definisce il carattere del gruppo, potrebbe sembrare uno scatto da boy band, ma lo sguardo e le pose dei nostri 4 eroi non lasciano dubbi, sono 4 giovani uomini che non vogliono fare prigionieri. Il blues si stempera in un songwriting ormai maturo e influenzato dal primo disco del 1968 della Band, gruppo americano che per un periodo accompagnò Bob Dylan. All Right Now è scritta dopo un concerto non esattamente riuscito, la band rientra nel camerino, Fraser per tirare su il morale canticchia una frasetta improvvisata “All right Now, baby it’s All Right Now.” “Uhm”, si dicono lui e Rodgers, nei giorni seguenti ci lavorano sopra e nasce il successo Rock del 1970 All Right Now, il singolo arriva al secondo posto in UK e al 4° posto in USA e trascina l’album al 2° posto in UK e nella Top 20 americana.

Tim Tirelli School of Rock 04-04-2024 Free & Bad Co

Tim Tirelli School of Rock 04-04-2024 Free & Bad Co – Foto Stremmy Girl

Certo, il bell’Hard Rock di All Right Now e Mr Big (con l’assolo di basso suonato come fosse una tuba), ma anche la poetica maestosamente malinconica di Don’t Say You Love e I Wept. L’album Fire And Water è patrimonio dell’umanità.

(Chi volesse approfondire: https://timtirelli.com/2012/11/07/riletture-free-fire-and-water-island-records-1970-ttttt/ )

Il tempo scorre veloce, accenno brevemente al resto della storia

HIGHWAY esce a dicembre 1970, ma non duplica il successo di Fire and Water. La band è convinta di avere in mano un singolo degno successore di All Right Now, ma The Stealer singolo proprio è. Tuttavia l’album è pieno di gran belle canzoni. Ma le vendite crollano.

I Free si sciolgono, Paul Kossoff – da sempre indifeso verso le dipendenze – cade nel torbido giro della droga.

I membri dei Free fanno di tutto per salvarlo, ma pare non ci sia nulla da fare. Si rimettono insieme, ma il tour del 1972 mette in mostra un Paul Kossoff in grandi difficoltà sulla chitarra. Il suo tocco, la sua dinamica, i suoi fraseggi sono ingoiati da quella merda che è la roba pesante. Dopo Free At Last del 1972 Fraser, uno dei due leader, abbandona il gruppo, i Free tirano avanti fino al 1973, fanno uscire un altro buon album e poi chiudono la loro storia definitivamente. Fraser ha solo 19 anni quando lascia la band. Paul Kossoff prova con la carriera solista, un paio di album, confusi seppur a tratti niente male. Morirà durante un volo aereo tra Los Angeles e New York nel 1976, aveva 26 anni.

Giunge la seconda parte della serata, dedicata ai Bad Company

BAD COMPANY 40.000.000 di ALBUM WORLDWIDE (20 MLN solo in USA)

Durante un tour dei Free Rodgers conosce Mick Ralphs chitarrista del gruppo spalla, i Mott The Hoople. I due si trovano subito bene insieme. Rodgers inizia a vedere le crepe all’interno dei Free, Ralphs racconta a Paul la sua frustrazione, ha alcune canzoni rock già pronte che il cantante dei Mott The Hoople non vuole cantare. I due decidono di restare in contatto e collaborare in futuro.

Nel 1973, una volta finiti i Free, Rodgers contatta Ralphs e il gioco è fatto. I due si trovano, ascoltano le canzoni dell’uno e dell’altro già pronte e ne scrivono di nuove insieme. Simon Kirke di ritorno da un viaggio in Brasile si fa vivo e viene inserito nella band. Faranno 16 audizioni per trovare il bassista, alla fine arriva Boz Burrell (ex King Crimson).

Rodgers è risoluto nel volere un management coi fiocchi, troppi i problemi avuti nei Free. Contatta il mitologico Peter Grant, manager extraordinaire dei Led Zeppelin, che in quegli anni era il gruppo più di successo della musica Rock. Si danno appuntamento in un sala prove di un paesino della campagna inglese. Il gruppo vede che Grant è in ritardo, per non sprecare tempo prova ugualmente i pezzi pronti …Grant ancora non si vede, sono passate quasi due ore quando questi si presenti:. “Ero qui fuori ad ascoltarvi. Mi piacete. Qui la mano. Questa stretta vale come un contratto”.

Nel novembre del 1973 i Led Zeppelin tornarono ad affittare Headley Grange per iniziare le registrazioni del loro nuovo album. Headley Grange è un edifico del 1795 costruito nella campagna inglese per assistere i poveri, gli inferni e gli orfani. Curiosamente fu affittato la prima volta (dalla loro segretaria) nel 1971 per registrare in santa pace il famoso Led Zeppelin IV con l’ausilio del Rolling Stones Mobile Studio, un furgone pieno di attrezzatura parcheggiato fuori dall’edificio e collegato agli strumenti tramite lunghi cavi.

John Paul Jones polistrumentista dei LZ chiese a Peter Grant del tempo, perché non era più certo di volere vivere la vita spericolata di una Rock band, Grant posticipò le registrazioni dei LZ e offrì ai Bad Company la chance di registrare il loro album. La Bad Company pubblicò i suoi album in USA tramite la Swan Song, l’etichetta creata nel 1974 dai LZ e legata per la distribuzione alla Atlantic Records di New York.

BAD CO esce nel maggio del 1974 e, grazie ad un tour infinito e al sapiente lavoro di Peter Grant, diviene un album di enorme successo. N.3 in UK, N.1 in USA e in Canada. 5.000.000 di copie vendute nei soli Stati Uniti. Un trionfo. La copertina è iconica. CAN’T GET ENOUGH, una di quelle canzoni che l’ex cantante di Ralphs non voleva cantare, diventa un singolo di grande successo, N.5 nella TOP 100 dei singoli USA.

CAN’T GET ENOUGH

BAD COMPANY

STRAIGHT SHOOTER  1975

Dal 1974 al 1976 i Bad Company non si fermano un secondo, un album e un tour dietro l’altro, tre anni spesi sulla corsia di sorpasso. Straight Shooter è il loro secondo capitolo, uno dei tre più riuscito. Il primo era vibrante e schietto, questo pur mantenendo le stesse caratteristiche ha una produzione di maggior rilievo, quasi perfetta. Straight Shooter significa uomo schietto oppure uno che dice le cose come stanno ma vista la copertina anche colui che tira i dadi. Io scoprii i Bad Company con questo disco, Straight Shooter fa parte del mio DNA. Esce nel marzo del 1975, n.3 in UK e USA, 3.000.000 di copie solo in USA

GOOD LOVIN’ GONE BAD

FEEL LIKE MAKIN’ LOVE

SHOOTING STAR

WILD FIRE WOMAN

L’ora sta per finire, devo riassumere velocemente gli ultimi anni

RUN WITH THE PACK  1976

Esce nel gennaio del 1976, altro gran bell’album magari senza un singolo forte, ma davvero riuscito. L’album fu registrato in Francia utilizzando il Rolling Stones Mobile studio nel settembre 1975 con l’ingegnere Ron Nevison e mixato a Los Angeles da Eddie Kramer. Unico album dei Bad Company originali senza artwork di Hipgnosis, la copertina infatti è di Kosh. L’album raggiunse la quarta posizione nella classifica degli album del Regno Unito e la quinta nella Billboard 200 degli Stati Uniti. Solo negli Stati Uniti ha venduto un milione di copie.

Segue BURNIN SKY del 1977 album obliquo, arriva dopo i primi tre anni corsi a velocità folle. Il grande successo ritorna nel 1979 con DESOLATION ANGELS quinto album in studio del gruppo, pubblicato il 7 marzo 1979 . Il titolo dell’album deriva dall’omonimo romanzo del 1965 di Jack Kerouac. Il titolo era stato scelto quasi 10 anni prima per intitolare il secondo album dei Free, che alla fine fu chiamato semplicemente Free. Doppio disco di platino in USA. Il tour relativo fu lunghissimo e di grande, grande successo.

ROUGH DIAMONDS esce nel 1982, ma i tempi sono cambiati e il gruppo non è più lo stesso. Solo 26 esimo in USA.

Racconto in maniera telegrafica il resto:

A Rough Diamonds non seguì un tour e la band si sciolse.

Nel 1983 Paul Rodgers fece uscire un disco CUT LOOSE (dove tra l’altro suonava tutti gli strumenti). Dal 1984 al 1986 fu il cantante e co-leader dei THE FIRM con Jimmy Page, dopo di che seguirono altri progetti e altri dischi solista senza infamia e senza lode.

Su spinta dei discografici Il gruppo si rimette in pista con Brian Howe alla voce (1986–1994) … hard rock commerciale per pubblico statunitense di bocca buona, un paio di album di grande successo. Howe poi se ne va, entra Robert Hart (1994–1998). Ritorna Rodgers per sporadici concerti e tour con o senza Mick Ralphs.

Io li vidi finalmente Glasgow nell’autunno del 2016 e fu un momento memorabile per il ragazzino che ero.

Siamo già oltre le 19:30 meglio salutare e ringraziare per avermi sostenuto con calore, affetto e pazienza, dare appuntamento alla prossima edizione se si terrà, benedire nel nome del blues e ricordare  che sebbene il loro corso possa a volte cambiare, i fiumi sempre raggiungono il mare.

Aggiungo il consueto teatrino finale con qualche variazione … perché anche stasera per alcuni secondi mi è sembrato di essere sul palco del … dunque la chiosa rimane la stessa, la canzone rimane la stessa… NNT goodbye!

Video “All Right Now” + “Don’t Say You Love me ” + finale – filmati da Stremmy Girl & Mar

Seguono abbracci, saluti e incoraggiamenti. Per festeggiare il buon successo anche di questa School Of Rock decido di fermarmi con un paio di groupie e con l’uomo di Belo Horizonte al Red Lion Bar & Grill, quasi come fossimo al Rainbow di Los Angeles.

Siuviu & Tim - Red Lion Bar & Grill - Mutina 04-04-2024

Siuviu & Tim – Red Lion Bar & Grill – Mutina 04-04-2024

Mar & Stremmy at Red Lion Bar & Grill - Mutina 04-04-2024 - foto Tim T.

Mar & Stremmy at Red Lion Bar & Grill – Mutina 04-04-2024 – foto Tim T.

A casa verso mezzanotte, sistemazione dei gatti, doccia, la crema corpo come ogni metrosexual che si rispetti (Johnny Winter have mercy!) e a letto. Anche oggi ho fatto il mio porco lavoro, e adesso tra me e me posso dirlo … “New York, goodnight”.

RP New York Goodnight

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la School Of Rock sul blog:

VII

TT’s SCHOOL OF ROCK VII: Led Zeppelin

I

Tim Tirelli’s School Of Rock

TT’s SCHOOL OF ROCK VII: Led Zeppelin

5 Gen

La settima puntata della School Of Rock che tengo per la azienda per cui lavoro si è tenuta il 21 dicembre del 2023, il giorno del solstizio d’inverno, nonché mio compleanno e dunque vi si è aggiunta una sfumatura personale.

Faccio un copia incolla dell’introduzione presa dalle precedenti School Of Rock per far comprendere meglio la cosa a chi si dovesse affacciare sul blog per la prima volta:

Come scrivo ogni volta che affronto questo tipo di articoli, lavorando in un’azienda come quella in cui sono uno dei miei compiti è anche quello di tenere alcune lectio magistralis (e sia chiaro, lo scrivo con tutta l’autoironia possibile) sulla musica Rock. D’altro canto il presidente me lo disse già durante il colloquio quasi tre anni fa: “In caso scegliessimo te, sappi che ti chiederò di tenere lezioni sul Rock per i colleghi”. Eccomi dunque qui per la nuova “School of Rock”. Siamo ormai arrivati alettimo episodio, da tenersi come sempre dalle 18:15 alle 19:30 nella – a me tanto cara – Sala Blues, la sala riunioni informale,  la sala “where the dreams come blue”, capacità: 25 posti a sedere. Un pubblico dunque selezionato che si prende la briga di fermarsi in azienda dopo l’orario di lavoro per ascoltare storielle e brani musicali di gruppi del bel tempo che fu. 

Vista la faccenda di Palmiro avevo pensato di posticipare la lezioncina di qualche settimana, non mi sentivo esattamente nell’umore adatto per affrontare una School Of Rock, il mio è un approccio alla Jack Black e Rick Gervais (e lo dico con la massima umiltà), non mi interessano le lezioncine da pretini che ogni tanto vedo in giro, il Rock è un altra cosa, occorre che la passione e il ritmo primordiale prendano il sopravvento e sapere lasciarsi andare. Tuttavia se un dirigente insiste chi sono io per tirarmi indietro? Il suddetto manager mi ha invitato a tenere la barra puntata verso l’Hard Rock e allora – visto anche la concomitanza col mio compleanno – niente di meglio che parlare dei Led Zeppelin.

In un ora o poco più non è che si possa riassumere la storia del gruppo e far ascoltare qualche brano e allora, come sempre faccio, meglio affidarsi a qualche squarcio estemporaneo per cercare comunque di far capire che cosa sia il Rock e che caxxo siano stati i Led Zeppelin. Ho fatto ascoltare alcuni brevi spezzoni di qualche brano del gruppo partendo dai classici Hard Rock, virando sulle deep cut e proponendo un paio di brani meno consoni, tanto per far capire l’ampia gamma espressiva dei Led Zeppelin. Questi i brani scelti:

WHOLE LOTTA LOVE
HEARTBREAKER
BLACK DOG
ROCK AND ROLL
BATTLE OF EVERMORE
STAIRWAY
RAIN SONG
KASHMIR
IN THE LIGHT
TEN YEARS GONE
FOOL IN THE RAIN
I’M GONNA CRAWL

Prima della School Of Rock pranzo con alcuni colleghi, colleghi così carini da organizzare il consueto rito del dolce con la candelina da spegnere e questo ha contribuito a smussare gli angoli di un mood spigoloso.

Team Tirelli celebrating the winter solstice, Mutina 21-12-2023 – foto Siuviu

Poi, verso sera, dopo il lavoro, ecco arrivare da uno dei lunghi corridoi del convento in cui lavoriamo i colleghi. Più di 25 persone, un quarto del personale, che sebbene si sia sotto le feste decide di spendere un po’ di tempo col sottoscritto, di trasformarsi in congregazione e  di assistere di nuovo al rito della School Of Rock.

Introduco il tutto alla mia maniera … specifico che anche questa volta sarà una non-lezione  perché credo che il Rock non si possa insegnare, il Rock lo si riceve in dono da una predisposizione spirituale e lo si impara col chilometraggio. 

E subito dal fondo sento SimoSta dire “Bene, con questa possiamo anche andare. Hai già detto tutto”

Ripeto quanto sia basilare comprendere la differenza tra capitoli importanti della Musica e della propria vita … e che è bellissimo quando le due cose collimano, sottolineo che quello dei Led Zeppelin è Rock contenutistico, perlomeno dal punto di vista musicale. Insisto sul fatto che il gruppo di Page fa parte di quella cerchia di grandi gruppi Rock a tutto tondo come Beatles, Rolling Stones, Who, Pink Floyd etc etc e che non vada pensato come solo gruppo Hard Rock perché come scrisse Manuel Insolera (giornalista musicale italiano) “tra loro e gli imitatori (Deep Purple, Black Sabbath, Ufo, Bad Company etc) c’è la stessa differenza che c’è tra una sinfonia di Wagner e una canzone della Bertè.”

Perché sì, i LZ si differenziano dagli altri gruppi Hard Rock, tra le altre cose, per l’ampiezza della gamma espressiva e compositiva, i LZ hanno fatto Hard Rock, Blues, Rock, prog Rock, country, reggae, canzoni, punk, musica sudamericana, musica celtica …

Cito poi una riflessione di Dave Grohl (batterista dei Nirvana e Leader dei Foo Fighters): “to me, Zeppelin were spiritually inspirational. I was going to Catholic school and questioning God, but I believed in Led Zeppelin. I wasn’t really buying into this Christianity thing, but I had faith in Led Zeppelin as a spiritual entity. They showed me that human beings could channel this music somehow and that it was coming from somewhere. It wasn’t coming from a songbook. It wasn’t coming from a producer. It wasn’t coming from an instructor. It was coming from somewhere else”.

TT School Of Rock – Photo Jona

Spiego che i LZ sono stati il gruppo Rock in senso stretto ad aver venduto più dischi … sia chiaro, la classifica generale vede altri artisti ai primissimi posti: Beatles 600 mln, Elvis Presley 500 mln, Michael Jackson 400 mln, ma subito dopo insieme a Elton John, Queen e Madonna vi sono i Led Zeppelin con 300 mln. Aggiungo che certo, anche Beatles, Presley e  Queen possono essere considerati artisti Rock, ma la loro discografia comprende per lunghi tratti anche musica leggera e commerciale, mentre i LZ hanno fatto esclusivamente musica Rock articolata, non facile, contenutistica (se non altro dal punto di vista musicale appunto). Tutto questo considerando che sono stati insieme solo 12 anni e durante il loro regno hanno fatto uscire solo 8 dischi da studio e un disco dal vivo e nei lustri successivi giusto un disco di inediti, qualche raccolta e un secondo live, pochissima roba rispetto ai loro colleghi (i LZ sono in pratica l’unico gruppo ad aver pieno controllo del proprio catalogo, nulla esce se il gruppo – Jimmy Page – non vuole).

Tanto per mettere le cose in prospettiva sciorino alcune cifre circa le vendite dei dischi di altri gruppi Rock: i Pink Floyd 250 mln, i Rolling Stones (con una carriera di 60 anni) 200 mln, i Metallica 125 mln, i Deep Purple 100 mln.

Mi soffermo su alcuni punti cardine: la visione sonora di Jimmy Page / i primi due album hard rock blues mai sentito prima con un sound che ha fatto scuola / la sterzata acustica di LZ III / la musica rock universale di IV, HOTH, PG / il cupo grido metallico di PRESENCE / il tentativo di rinascita con ITTTOD

Rimarco che il concetto LZ vale più della somma dei componenti del gruppo, come a volte infatti accade nel rock alle capacità dei quattro musicisti si unisce un quinto elemento, una sorta di vibrazione universale, un plus (pronunciata come si legge, sono italiano e non pronuncio una parola latina all’americana) dato da sinergie cosmiche inaspettate.

Cito i due record mondiali di presenze nei concerti di Tampa (FL) 5 maggio 1973 56,800 e al Silverdrome Pontiac (area di Detroit) 30 aprile1977 76,229 spettatori (anche se fonti non ufficiali parlino di più di 80.000). Uno dei veri pochi(ssimi) grandi gruppi della musica Rock. Parlo della evoluzione dei testi di Plant, dai primi due album pieni di rigurgiti provenienti dalla grande tradizione blues (i testi a carattere sessuale erano per i neri che suonavano blues un espediente per poter affermare la propria identità, il proprio diritto ad esistere e il proprio modo per uscire dalla condizione di schiavo o servo) alle liriche più composte e complesse, sicuramente più suggestive del periodo della maturazione.

Tim Tirelli’s School Of Rock LZ 21-12-2023 – photo Marzia P.

E poi finalmente ecco qualche assaggio musicale.

WHOLE LOTTA LOVE …il riff, l’assolo maschio e cazzuto e il potentissimo sound mai ascoltato prima

HEARTBREAKER …il riff e assolo senza accompagnamento…oggi magari sorpassato dato che è possibile trovare nei negozi di musica 14enni che provano chitarre e mettono in scena una tecnica mostruosa, ma appunto occorre distinguere tra abili giocolieri e creatori di musica, di emozioni appunto.

L’Hard Rock Bluesato giocato sui tempi del 4/4 e del 5/4 di BLACK DOG,

il virginale candore di STAIRWAY TO HEAVEN (e la meravigliosa coda sonora dei piatti della batteria di Bonham) e le suggestioni celtiche di THE BATTLE OF EVERMORE

la meraviglia compositiva di RAIN SONG, il mellotron e l’accordatura aperta

Soffermarsi sugli artwork delle copertine poi è un dovere.

TT School Of Rock HOTH 21-12-2023 photo Jona

La magniloquenza unita ad un senso del blues estremamente innovativo di PHYSICAL GRAFFITI e la sua incredibile ampiezza stilistica …

TT School Of Rock HOTH 21-12-2023 photo Jona

la stupefacente narrazione musicale del mio pezzo preferito in assoluto TEN YEARS GONE e le frasi emozionanti del testo tra cui la mia preferita ...”sebbene il loro corso a volte possa cambiare, i fiumi sempre raggiungono il mare”

l’oscuro impianto metallico dell’album Presence e infine l’album della tentata rinascita In Through The Out Door pieno di percorsi musicali inaspettati;

visto che il clima natalizio propongo in chiusura un blues suadente dalle nuance soul, doo woop, l’ultimo brano in studio del gruppo. Dopo qualche considerazione sul bellissimo assolo di chitarra cito una volta ancora quanto Pike (colonna di questo blog) scrisse a proposito:

“I’m Gonna Crawl è un capolavoro assoluto. Il miglior modo di concludere una carriera. Mai abbastanza celebrata. Posso vedere la band sul palco, locale chiuso, una donna delle pulizie che passa lo straccio. La festa è finita, ma prima di andare a dormire c’è tempo per questo piccolo ma gigantesco blues che riporta tutto all’inizio. Un doo-wop spettrale che esce da una radio A.M., fuori dal tempo. Echi di Five Satins, Flamingos, Skyliners, Penguins. La tastiera vagamente da music-hall è perfetta. I ragazzi, in piena malinconia, sembrano volerci dire ‘Vi facciamo sentire per l’ultima volta cosa cazzo state per perdervi per sempre’. Irripetibile. E’ il ‘Last Waltz’ degli Zep. Pensate se avessero chiuso il disco con Hot Dog… ” (Stefano Piccagliani 2015)

Dopo quest’ultima meraviglia di pezzo chiudo alla mia maniera; confesso che mentre citavo la frasetta sui fiumi che sempre raggiungono il mare per qualche secondo mi sono smarrito nel lago silente della commozione, dopotutto pochi giorni prima avevo perso Palmiro … comprensibile. Ad ogni modo penso sia stata una lezioncina riuscita, l’attenzione e la partecipazione calorosa dei presenti mi pare siano lì a dimostrarlo. Una festicciola di compleanno niente male per l’uomo di blues che sono.

Video della chiusura – filmato da Siuviu

Video della chiusura (alternate version) – filmato da Stremmy Girl

Poco dopo un brindisi veloce e auguri di buone feste e anno nuovo a tutti.

Stremmy & Tim photo Marcya P

I commenti arrivati la sera stessa o il giorno dopo oltre al piacere che hanno portato sono anche testimonianza che il Rock, quello vero, è ancora musica viva, palpitante, irresistibile.

Siuvio (o homem de Belo Horizonte): Tim, favoloso ieri!!! C’è tanto bisogno di autenticità e spontaneità in un mondo come quello di oggi.

The Tuscany Boy: Numero 1

Marcella T: Ciao Tim, ieri sera è stata la mia prima School of Rock e mi è piaciuta tantissimo!!! Grazie davvero, è stato un momento molto piacevole e soprattutto ho imparato tante cose che non sapevo sui Led Zeppelin… Mi hai trasmesso tanto entusiasmo e curiosità di approfondire ulteriormente!

Matzia-Marcya P: Tim stasera sei stato davvero assoluto. Mentre uscivamo dalla sala blues ho sentito la Stefania S che parlava con L.Bosch, gli diceva “sento il bisogno di ascoltare i Led Zeppelin mentre vado a casa” e Luca “incredibile, musica che hai già ascoltato mille volte, raccontata da Tim fa venire la pelle d’oca, ti entra dentro”
Professoressa Stremmy: Tim sei stato davvero…non lo so…io rivivrei quell’ora e come hai concluso per altre 100.000 volte…pazzesco, davvero pazzesco, è stata una bellissima lezione.

E’ stata una bellissima lezione” dice la Stremmy Girl… meglio così, dopotutto il Rock sarebbe dovuto (avrebbe potuto) essere la mia (la nostra) vita. Rock on, baby.

Ooh, let me get it back, let me get it back
Let me get it back, baby, where I come from

It’s been a long time, been a long time
Been a long lonely, lonely, lonely, lonely, lonely time

◊ ◊ ◊

la School Of Rock sul blog:

I

Tim Tirelli’s School Of Rock

TT’s SCHOOL OF ROCK VI: DEEP PURPLE

23 Set

Intro:

Come scrivo ogni volta che affronto questo tipo di articoli, lavorando in un’azienda come quella in cui sono uno dei miei compiti è anche quello di tenere alcune lectio magistralis (e sia chiaro, lo scrivo con tutta l’autoironia possibile) sulla musica Rock. D’altro canto il presidente me lo disse già durante il colloquio due anni e mezzo fa: “In caso scegliessimo te, sappi che ti chiederò di tenere lezioni sul Rock per i colleghi”. Eccomi dunque qui per la nuova “School of Rock”. Siamo ormai arrivati al sesto episodio, da tenersi come sempre dalle 18:15 alle 19:30 nella – a me tanto cara – Sala Blues, la sala riunioni informale,  la sala “where the dreams come blue”, capacità: 25 posti a sedere.

Sala Blues – foto Tim Tirelli 2021

Un pubblico dunque selezionato che si prende la briga di fermarsi in azienda dopo l’orario di lavoro per ascoltare storielle e brani musicali di gruppi del bel tempo che fu. In questo equinozio d’autunno viro verso uno dei capisaldi dell’Hard Rock: i Deep Purple.

Per vari motivi arrivo a questa SoR in ritardo su tempi, penso di rimandarla senonché uno dei dirigenti dell’azienda mi sprona con molta decisione a farla ugualmente. Cerco di tenere il punto ma finisco per cedere davanti alla determinazione di uno dei colleghi più alti in grado, il quale approfitta della mia momentanea défaillance per invitarmi a parlare dei DP.

Nei minuti che precedono l’inizio vero e proprio della School Of Rock avviene una sorta di Meet & Greet, alcuni colleghi tra i più affezionati vengo a farsi fotografare con Nonantola Slim:

Dave & Tim – TT’s School Rock: Deep Purple 2023-09-21 – Foto Stremmy & Marcya

Tim e la professoressa Stremmy – TT’s School Rock: Deep Purple 2023-09-21 – Foto Marcya P.

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Per i colleghi nuovi arrivati anticipo che durante questi incontri capita (ma si sa, è la mia modalità standard) di andare sopra le righe ma parliamo di Rock santiddio, non si possono fare lezioncine, qui bisogna pompare se vogliamo raggiungere le profondità cosmiche.

Introduco il gruppo dicendo qualche ovvietà, ovvero che i Deep Purple sono una delle più importanti e  famose band di hard rock, che nel lustro che va dal 1970 al 1974 sfornarono alcuni lavori che sono  classici della musica (hard) Rock e che il nome Deep Purple (viola intenso) fu suggerito dal chitarrista perché era il titolo della canzone preferita da sua nonna, una brano di Peter De Rose degli anni 30 del secolo scorso. Qualche notiziola sui dischi venduti ovvero più di 100,000,000 albums in tutto il mondo, di cui 8.000.000 e più negli USA e 1.000.000 in UK. Avverto tutti che non abbiamo tempo a sufficienza per approfondire più di tanto e dunque ci concentreremo sui 5/6 anni in cui i Deep Purple hanno inciso sulla Storia del Rock. Prima di iniziare, per comprendere la vita turbolenta del gruppo accenno al
carattere assai particolare di Blackmore aggiungendo qualche aneddoto vissuto dal sottoscritto in prima persona al concerto di Zurigo del 1985.

Racconto brevemente che nel 1968/69 sull’onda del successo di Cream e Jimi Hendrix iniziano a crearsi i gruppi Rock in senso stretto che diventeranno definitivi e fondamentali per gli anni settanta, e dunque che nel 1968, dalle ceneri degli Yardbirds, il chitarrista inglese Jimmy Page (già valente per quanto poco ortodosso session man inglese) forma i Led Zeppelin, quartetto britannico che da lì a poco ribalterà il mondo del Rock. In novembre registra in 30 ore il primo album della band, disco d’esordio che nel giro di qualche mese arriverà nelle primissime posizioni della classifica che veramente conta in termini di vendite, quella americana. Il disco esce nel gennaio del 1969 e riscrive il sound della musica Rock. Se già Hendrix e i Cream avevano sondato nuovi terreni, con l’avvento dei LZ le sonorità Rock e il metodo di registrazione si arricchiscono di un nuovo abecedario. Prodotto da Jimmy Page con solo 3000 sterline il disco è una bomba, tanto che la rinomatissima etichetta americana Atlantic li mette sotto contratto immediatamente anticipando 200.000 dollari (siamo nel 1970, oggi sarebbero diversi milioni di dollari) e lasciando nero su bianco ampissima libertà decisionale a Jimmy Page.

Led Zeppelin 1 è un terremoto che pian piano colpisce anche l’Inghilterra. La Earth Blues Band, semisconosciute gruppetto di Birmingham rimane folgorata, cambia marcia, nome (adotterà quello di Black Sabbath) e si metterà a scrivere brani hard rock sulla falsariga del disco dei LZ.

Continuo nel dire che nel 1968/69 i DP sono un gruppetto che fa il verso agli statunitensi Vanilla Fudge, immerso in uno stile tra il rock psichedelico e il proto rock progressivo di quegli anni. Nei primi 3 album (Shades Of DP / The Book of Taliesyn / Deep Purple) vi sono spunti interessanti che lasciano intravedere un possibile futuro ma in pratica a parte due singoli (entrambi cover) che si comportano bene nelle classifiche americane gli album vendono poco. Il primo album dei LZ irretisce il chitarrista del gruppo (Ritchie Blackmore) che impone una svolta drastica: il bassista e il cantante vengono sostituiti da Roger Glover e Ian Gillan (due potenti e dotate personalità), la musica si trasforma in qualcosa di molto più duro.

TT's School Rock: Deep Purple 2023-09-21 - Foto Stremmy & Marcya

TT’s School Rock: Deep Purple 2023-09-21 – Foto Stremmy & Marcya

Parto dunque con In Rock specificando che è il primo album in studio registrato dalla formazione Mark II composta da Ritchie Blackmore, Ian Gillan, Roger Glover, Jon Lord e Ian Paice.

L’artwork perde i risvolti psichedelici dei tre precedenti e va dritto al punto: raffigura il Monte Rushmore con scolpiti nella roccia i volti dei membri della band sovrapposte a quelli dei presidenti degli Stati Uniti con l’ovvio gioco di parole IN ROCK … nella roccia e nel Rock. Parlo di Child In time che è uno dei brani più famosi dei DP, sebbene sia un’imbarazzante scopiazzatura di Bombay Calling del 1969 del gruppo It’s A Beautiful Day, ma i DP ne danno una versione sensazionale, matura, rotonda annullando così ogni perplessità, anche perché tutti, tutti (tutti!) i gruppi e gli artisti hanno “preso in prestito” parti musicali da altri musicisti.

Tim e la professoressa Stremmy - TT's School Rock: Deep Purple 2023-09-21 - Foto Stremmy & Marcya

TT’s School Rock: Deep Purple 2023-09-21 – Foto Stremmy & Marcya

Aggiungo che succede la stessa cosa anche per Black Night, il singolo (che non compare sul disco), che proviene dalla versione di Rick Nelson di Summertime, poi ripresa da The Blues MacGoos per We Ain’t Got Nothin’ Yet  e dai Deep Purple per l’appunto. Sono i due brani di In Rock che faccio ascoltare.

video Child In Time (filmed by The Stremmy Girl)

Due parole sul tour relativo, su Fireball comunque grande album ma schiacciato tra due capolavori e poi racconto del 1972, l’anno dei DP. La preparazione di Machine Head, Montreux, il Casinò che prende fuoco, il fumo sul lago.

TT's School Rock: Deep Purple 2023-09-21 - Foto Stremmy & Marcya

TT’s School Rock: Deep Purple 2023-09-21 – Foto Stremmy & Marcya

Faccio ascoltare Smoke And The Water e Highway Starr, poi parlo dl tour del 1972 e delle tre date in Giappone semplicemente sensazionali così come Live In Japan poi rinominato Made In Japan da cui faccio ascoltare la mervigliosa versione di Lazy.

video Lazy (filmed by Marcya P)

Il tempo scorre, accenno al fatto che nel periodo di maggior successo creativo e magia il gruppo crolla causa tensioni varie, Blackmore prova un progetto alternativo con Paice e Phil Lynott e che poi dopo il tour de 1973 Gillan e Glover se ne vanno. Entrano Hughes e Coverdale, si forma la Mark III ed esce Burn (faccio ascoltare la title track).

Chiaro che per il tipo che sono mi sarebbe piaciuto fare ascoltare pezzi obliqui, ma il tempo è poco meglio far arrivare ai giovani colleghi prima le pietre miliari. Via di corsa sulle ali di Stormbringer sorseggiando subito dopo Come Taste The Band e riassumendo in un minuto quello che successe dall’anno della reunion (1984) ad oggi.

Devi dire che è stata una delle School Of Rock più piacevoli, forse perché avendo avuto poco tempo ho più che altro improvvisato e mi solo lasciato andare. Il gentile pubblico sembra aver gradito tanto da farmi sentire a mio agio, come uno che trovi finalmente il suo posto nel mondo …certo non avevo la chitarra elettrica in mano, né stavo suonando le mie canzoni, ma la sensazione è più o meno la stessa. New York, goodnight!

video saluti e ringraziamenti

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I

Tim Tirelli’s School Of Rock

Riletture – THE FIRM: i Led Zeppelin in modalità DDR.

8 Ago

E’ il tardo pomeriggio del 16 luglio 1984, insieme ad alcuni amici mi avvicino a Piazza Duomo, stasera qui al Blues Festival di Pistoia suonerà un ensemble di storici musicisti inglesi, sarà poco più di una jam session dedicata al ricordo di Alexis Korner, una delle figure di riferimento del British Blues anni sessanta del secolo scorso; tra i nomi, giganteggia (come scrisse il Resto Del Carlino) quello di Jimmy Page. Sto dunque per vedere il mio musicista preferito, quello a cui, di lì a qualche mese, avrei dedicato una fanzine che sarebbe andata avanti sino al 2003 e di lì a qualche anno una biografia edita da Gammalibri/Kaos edizioni. Ai cancelli mi aspetta una mia amica, esteticamente versione femminile di Robert Plant. anche lei amante dell’ex chitarrista dei Led Zeppelin. Si entra, ci affrettiamo, corriamo verso il palco, mi ritrovo in prima fila e mi accorgo che i musicisti hanno appena finito il soundcheck, qualcuno si è attardato sul palco, uno è appunto Jimmy Page, ed è così che vedo per la prima volta quella che al tempo era la mia rockstar preferita in assoluto.

Jimmy Page Pistoia 1984 – photo Luciano Viti

Jimmy Page – Pistoia 1984 – photo Luciano Viti

Cala la sera, inizia il concerto, Page torna on stage prima che tocchi a lui, mentre suonano altri musicisti si siede nel zona esterna, alla mia sinistra, del palco; è insieme ad una ragazza, non so perché penso che lei abbia 29 anni, sembra una tipa risoluta e in completo dominio della situazione ma in realtà è molto più giovane di quel che sembra. Sono a pochi metri da loro, guardo questo quarantenne fighissimo che a fatica sta cercando di tornare in pista dopo la tragica fine dei Led Zeppelin. Io non mi aspetto nulla dal concerto, so in che condizioni è Page, ma molti intorno a me rimangono delusi dalla sua performance.

Jimmy Page – Pistoia 1984 – foto Luciano Viti

Vi sono già indiscrezioni sul nuovo progetto che ha in mente, non vi sono ancora internet e la telefonia mobile, ma qualcosa sui giornali esteri trapela. Ciao 2011, il settimanale di riferimento della mia generazione, poco dopo Pistoia parlerà di un gruppo con Cozy Powell e Paul Rodgers. Sono nomi facili da citare, Powell in qualche modo ha un drumming riconducibile a quello di Bonham e Paul Rodgers, oltre ad essere stato l’indimenticabile cantante di Free e Bad Company (questi ultimi incidevano per la casa discografica dei LZ, la Swan Song), ha accompagnato Page nei concerti americani dell’ARMS Tour giusto lo scorso dicembre. Insieme stanno segretamente lavorando al loro progetto già da mesi, l’anno precedente i capi dell’etichetta Atlantic chiesero a Rodgers di aiutare Page a rialzarsi, l’unione tra i due sembrava inevitabile. Dapprima Page prova il batterista dei Damned Rat Scabies (visto che piaceva molto allo scomparso John Bonham), poi lui e Rodgers chiedono a Bill Brudford e Pino Palladino di unirsi alla loro nuova band. Palladino rifiuta per i troppi impegni che già ha, Bruford – un cagacaxxo fissato coi tempi dispari – probabilmente capisce che non sarebbe stata musica per lui. Vengono così assunti Tony Franklin, bassista di Roy Harper con cui Page aveva già suonato e Chris Slade, veterano del Rock britannico.

Prima che l’album esca, i Firm fanno una mini tournée europea, gli ultimi due concerti si svolgono al bellissimo Hammersmith Odeon l’8 e il 9 dicembre 1984, il secondo verrà filmato e verrà trasmesso più volte Italia nel 1985 dalla appena nata Video Music.

LucaTod, colonna di questo blog, tempo fa scrisse in un commento:

Di questa registrazione ho la versione cdr con la cover rossa (2016) ma tendo a preferire soundboard come L.A, Oakland e Wembley arena. Ovviamente lo spettacolo filmato all’Hammersmith Odeon è il loro The Song Remains The Same. Assolo finale su Live Peace epico.
In un epoca dove Van Halen e Police si contendevano il pubblico rock e pop, i Firm sono stati un progetto in bilico tra coraggio e sciatteria, volendo avrebbero potuto essere un affare più grande. Probabilmente mi piacciono proprio per questo. LED ZEPPELIN modalità DDR. Più interessanti di qualsiasi altra cosa abbia prodotto Robert Plant.”

Ecco, i Led Zeppelin in modalità DDR, la frase di LucaTod descrive benissimo il progetto THE FIRM. Progetto destinato ad essere apprezzato solo dai fan (dei LZ) che al contempo siano donne e uomini di blues. Recentemente il giornalista musicale (e amico) Gianni Della Cioppa sui social ha parlato dell’album che Page fece con David Coverdale nel 1993, il luminare del metal ne ha tessuto lodi, aggiungendo giudizi assai meno lusinghieri per il progetto FIRM. Capisco ovviamente il suo punto di vista, da una accoppiata come Rodgers e Page il grande pubblico si aspettava ben altro, ma d’altra parte eravamo nel bel mezzo degli anni ottanta, molti dei grandi nomi del Rock anni settanta in quel periodo facevano dischi tutt’altro che memorabili, a volte pessimi. Qualche esempio? I Rolling di Dirty Work (1986) … Stephen Stills con Right By You (1984), i Genesis, gli Yes, i Black Sabbath, i Deep Purple, Paul McCartney, e tanti, tanti altri.

La fanzine Oh Jimmy coincise più o meno con l’uscita del primo album. Ricordo la curiosità, l’eccitazione (pur essendo ben conscio che gli anni settanta erano finiti, che il “mio” Rock non sarebbe più stato lo stesso) e la fustinella* che avevo per le nuove uscite come questa dei miei artisti preferiti.

THE FIRM – “The Firm” (Atlantic 1985) – TTT½

Febbraio 1985, venerdì sera. Sono in giro per Modena con la mia ragazza di allora. Dopo il cinema e una pizza torniamo verso casa sua, sita nel centro storico della città. Attraversiamo Piazza Grande (the heart of the city), prima di incamminarci per Via Dei Servi mi fermo davanti al negozio di dischi di cui sono un avido cliente: in vetrina troneggia la copertina dell’album dei Firm. Sbam! Sono gli anni più caldi della mia inesauribile passione Rock e a fatica mi trattengo dal rompere la vetrina e rubare il disco in questione. L’indomani, sabato, finalmente acquisto l’ellepì che penso sia il definitivo ritorno al Rock di Jimmy Page. Non che mi aspettassi Physical Graffiti, erano gli anni ottanta, ma quanta trepidazione per il primo album dei Firm.

Closer (Page – Rodgers) parte con decisione, buon riff con cui Page gioca sul tempo e sul cambio degli accenti. Occorre abituarsi al basso fretless, non certo lo strumento più azzeccato per fare del Rock di un certo tipo. Produzione compressa, suoni che cercano di essere in qualche modo al passo con i tempi pur restando ai margini del trend di quegli anni. Bella prova di Rodgers, testo piuttosto semplice. L’utilizzo dei fiati pare forzato ma è il suono del basso la cosa più fastidiosa. L’assolo di chitarra è suonato utilizzando la Telecaster con lo Stringbender, la chitarra di riferimento di Page negli anni ottanta.

Make Or Break (Rodgers) è il classico brano che Paul Rodgers scrive quando non è esattamente ispirato. Esposizione quadrata, senza nessun sussulto. Testo banalissimo. L’assolo di chitarra ha parti piuttosto scontate (anche qui Page inserisce la stessa frase usata tante volte in passato), ma a tratti la zampata del fuori classe echeggia qui e là (ad es. al minuto 2:35 quando Rodgers torna a cantare).

Someone To Love (Page – Rodgers) è uno due pezzi dell’album che non mi hanno mai entusiasmato (l’altro è – lo avrete capito – Make Or Break). Scrittura ancora mediocre, poco swing, gli unici brividi arrivano quando Page cerca di rendere tutto meno rigido, meno Rockpalast. Il basso è insopportabile. L’assolo di chitarra comunque dice qualcosa.

Together (Page – Rodgers) pur essendo solo una canzoncina tocca le corde giuste. L’acustica di Page, la melodia di Rodgers, l’atmosfera bucolica … al di là del testo scritto da un bambino dell’asilo, il pezzo funziona, è gradevole e i ricami di Jimmy sulla elettrica sono efficaci. Nell’assolo il Dark Lord ci dà di Stringbender.

Radioactive (Rodgers) fu il primo singolo e ricordo l’impatto che ebbe su di me il video relativo … era l’inizio di febbraio 1985, lo trasmise Italia 1 verso le 13:30 di una domenica, i video musicali stavano arrivando anche in Italia e alcune emittenti TV provavano a dedicare spazi a questa nuova moda televisiva.

Radioactive è un pezzo in minore in puro stile Rodgers, uno stomp che si lascia ascoltare. Curioso che il riff di chitarra eccentrico e quasi sfasato sia di Rodgers e non di Page. Fu bellissimo rivedere due dei miei eroi in video sebbene trovai stucchevole che Page per farsi riconoscere meglio pensò bene di usare la doppiomanico, di infilare i pantaloni dentro agli stivali usati nel tour del 1977 dei LZ e fare mossettine “alla Page” poco spontanee.

You’ve Lost That Loving Feeling è la cover del pezzo dei Righteous Brothers e oggi tendo a non sopportarla più. Ricordo che al tempo non mi dispiaceva, ma oggi l’arrangiamento pare semplicistico, il pezzo ne risente e risulta vuoto benché la band cerchi di creare una certa atmosfera. Rodgers tuttavia canta benissimo e Chris Slade in alcuni momenti sembra fare il verso al Phil Collins batterista di In The Air Tonight.

Money Can’t Buy (Rodgers) è un pezzo in La minore di nuovo nel classico stile Rodgers. Non è malaccio, ma … melodia non certo memorabile e testo nemmeno sufficiente. Il brano è salvato da Page, la sua chitarra dà in qualche modo lustro alla scrittura. L’assolo col wah wah è ispirato e questo ci fa pensare che se solo il Dark Lord fosse stato più determinato e meno schiavo dell’accidia la sua carriera post LZ sarebbe stata assai dignitosa.

Satisfaction Guaranteed (Page – Rodgers) ha finalmente un testo meno ordinario del solito o almeno così a me pare:

Mystery surrounds me and I wonder where I’m going
There’s a cloud above me and it seems to hide the way
I’m going straight ahead ‘cause it’s the only way I know
I wanna leave the past and live just for today

la scrittura del brano attinge ad acque misteriose e insieme al ritmo – al contempo suadente e ipnotico – fa di questa canzone uno dei momenti migliori del gruppo. La chitarra ritmica di Paul Rodgers costruisce la base su cui si fonda il pezzo e gli arabeschi di Page lo rendono a tratti magnifico. L’assolo di slide guitar è lineare, forse troppo, ma sul finale l’altro assolo di chitarra, che non è proprio ortodosso, risplende.

Quello di Satisfaction Guaranteed è il mio video musicale preferito in assoluto: Les Paul che funge da Bar tender, il gruppo sul palco di un locale tipo Juke Joint del Mississippi, il temporale che sta per scoppiare, il caldo opprimente che rende le donne all’interno del locale seducenti e luccicanti. Nota personale: curioso che in questo video faccia una fugace apparizione, giusto un cameo, una mia amica. Chi l’avrebbe immaginato.

Midnight Moonlight (Page-Rodgers) non è altro che il brano “Swan Song” scritto da Page nel 1973 e registrato professionalmente (solo) con l’aiuto di John Bonham per l’abum Physical Graffiti del Led Zeppelin, ma mai finito e dunque mai pubblicato; qui Rodgers aggiunge melodia e testo. MM fu presentato per la prima volta nel tour americano del progetto benefico ARMS a fine 1983.

E un pezzo in accordatura aperta dadgad (quella di Kashmir insomma) ed è in pratica l’unico serio avvicinamento dei Firm alla legacy dei Led Zeppelin. Paul deve essere stato sospinto dalla epica intrinseca del pezzo, il testo infatti è articolato e per niente scontato.

Nove minuti di musica vera, con tanto intermezzo di sola chitarra, tra arpeggi, chitarre acustiche elettriche, ritmiche e soliste che entrano ed escono dalla scena; Rodgers di nuovo superbo.

Unici appunti: I cori femminili potevano essere tranquillamente essere evitati, così come il basso fretless .

The Firm venne registrato nello studio The Sol di Jimmy Page nel 1984, uscì appunto nel febbraio 1985 e arrivò al 17esimo post in USA (disco d’oro) e 15esimo in UK. Seguì una tournèe in USA (con qualche data in UK) soddisfacente (ma con Page talvolta inconsistente). Copertina dalla grafica massiccia atta a lasciar presagire qualcosa di solido. Il nome The Firm proviene dallo slang inglese e si riferisce (più o meno) alle uscite con gli amici.

Recensione di THE FIRM 1985 a firma Mick Wall di Kerrang

The Firm

  • Paul Rodgers – lead vocals, acoustic and electric guitars, production
  • Jimmy Page – acoustic and electric guitars, production
  • Tony Franklin – fretless bass, keyboards, synthesizer, backing vocals
  • Chris Slade – drums and percussion[

Additional musicians

  • Steve Dawson – trumpet on “Closer”
  • Paul “Shilts” Weimar – baritone saxophone on “Closer”
  • Willie Garnett – tenor saxophone on “Closer”
  • Don Weller – tenor saxophone solo on “Closer”
  • Sam Brown, Helen Chappelle & Joy Yates – backing vocals on “You’ve Lost That Lovin’ Feeling” & “Midnight Moonlight”

Production personnel

  • Stuart Epps – engineering
  • Gordon Vicary – mastering
  • Steve Maher – cover artwork
  • Steve Privett – tape operation; supplier of tea, gin and tonics

* LA FUSTINELLA:

Fustinella: essere in fustinella): locuzione sempre più rara, quasi del tutto sconosciuta presso le giovani generazioni, che esplica il trovarsi in una peculiare condizione di piacevole agitazione causata da una nuova passioncella o hobby. Ad esempio, appassionarsi ad ameno passatempo da mancanza di attività coitale, tipo la fotografia, e iniziare a fissarsi psichicamente 24/7 sui molteplici aspetti della questione, obiettivi, stampa, bianco&nero, colore, treppiedi eccetera, progettando acquisti scriteriati, leggendo manualistica, recensendo sul web maestri dello scatto e scassando la minchia a chiunque si trovi nel raggio di azione.

Altri ambiti a rischio fustinella: l’audiofilia (progettazione di acquisti di piatti giradischi a valvole in legno norvegese da 4000 euro, cambio continuo con esborso mostruoso di cuffie, insensati ritorni revivalistici a costosi 33 giri in vinile eccetera), pesca sportiva (vendita dei denti d’oro della madre per pagare esose canne al carbonio, o guadini di Hermés, o progettazione di allevamenti casalinghi di begatini), bicicletta (continue visite a negozi di bici per estorcere info su accessori e parti meccaniche di pregio con il conseguente prolasso gonadico del babista del negozio), informatica in genere (soprattutto se si finisce nel baratro Apple Macintosh).

La fustinella viene spesso accostata alla ‘sbrùsia’ anche se quest’ultima è più ansiogena mentre la fustinella ha contorni più sfumati e più meditativi. La fustinella si rivela però molto utile nei casi di depressione fungendo da piacevole diversivo, in grado come è di riempire la scatola cranica di elettrizzanti propositi ludici per il futuro, e da vero toccasana per lenire le stigmate da sopportazione della coniuge. Molte fustinelle infatti vengono vissute da omarini nella segretezza di garage e solai, all’oscuro delle mogli che li credono al bar a giocare a goriziana o a vagabondare per seguire lavori stradali. Nei sempre più diffusi negozi ‘vintage’ di svuotagarage è possibile imbattersi in tristi fustinelle finite malissimo.

di Stefano Piccagliani (da La Gazzetta di Modena ottobre 2016)

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THE FIRM – “The Firm” (Atlantic 1985) – TTT¾

Febbraio 1986, sabato pomeriggio. E’ passato un anno, sono ancora in giro per Modena sempre con la mia tipa di allora. Passo da Fangareggi 2 (il negozio di dischi di fianco a Piazza Grande in cui sono solito servirmi) e acquisto Mean Business, il secondo album dei Firm. Verso sera torniamo a casa della mia morosa, fa freddo, cerco di riscaldarmi mettendo sul suo vecchio giradischi il disco. Sulle prime rimango deluso, Cadillac è quel tipo di pezzo che non mi colpisce e vedere la riproposizione di Live In Peace mi fa incazzare. Il resto non mi dà scosse particolari. Come vedremo, dopo qualche ascolto il disco inizierà a piacermi parecchio.

Fortune Hunter (Page-Rodgers-Chris Squire uncredited) apre l’album con fermezza, brano veloce e degno di attenzione. Buona parte della musica proviene dalle sessions del 1981 che Page fece con Chris Squire e Ala White degli Yes. Rodgers canta alla grande sul riff di chitarra la storia di un giocatore d’azzardo. Ritornello per nulla banale. Assolo suonato con lo stringbender seguendo la prassi di quegli anni. L’intermezzo lento al minuto 03:19 è incantevole: chitarre meravigliosamente suggestive e voce che dà i brividi, il basso senza tasti che per una volta sembra adattarsi bene al momento riflessivo e infine il rientro della batteria che porta di nuovo al ritornello ma col tempo dimezzato. Per quanto mi riguarda pollice in su.

Cadillac (Page-Rodgers) si insinua con insistenza tra i solchi del lato A. Chitarra molto effettata, buona prova di Rodgers … a me ha sempre dato l’impressione di un pezzo “vuoto”, d’accordo l’approccio da “fàmolo strano” ma non risulta un pezzo ben definito, ha le caratteristiche di una traccia di pre-produzione o in versione demo.

All The King’s Horses (Rodgers) si apre con le tastiere, ennesimo pezzo in minore nel collaudatissimo stile Paul Rodgers, questo però ha il suo perché. Niente di travolgente ma il tutto funziona, buona prova d’insieme, Slade e Franklin sono coesi, Jimmy Page aggiunge drappeggi di pregio. Peccato non vi sia l’assolo di chitarra. Ovviamente ottima la prova di Paul Rodgers.

Live In Peace (Rodgers) proviene dall’album Cut Loose di Paul Rodgers del 1983 e dal maxi single Radioactive del 1985 dei Firm, versione live all’Hammersmith Odeon 9/12/1985 con uno degli assoli migliori di Page post Zeppelin. Capisco che fossero gli anni della guerra fredda, ma avrei preferito un brano nuovo; Rodgers evidentemente puntava sul valore della canzone e ad avere una versione da studio suonata dai vari musicisti (l’originale del 1983 è incluso in un album dove Paul suona ogni strumento). L’assolo in Mi minore di Jimmy Page è ottimo anche nella versione da studio.

Tear Down The Walls (Page-Rodgers) vive di un riffo

di Page eseguito con una chitarra molto effettata (ma ricordiamoci che erano gli anni ottanta); per certi versi la formula Led Zeppelin fa capolino: anticipi, ritardi, stacchi tipici del modo di scrivere del Dark Lord. Nonostante Rodgers sia un cantante più soul la sua voce ben si adatta a questo hard rock grintoso e colorato. Assolo di chitarra suonato con l’onnipresente stringbender che a questo punto tende a farli sembrare tutti uguali. Qui un assolo come Page comanda ci sarebbe stato bene. Sul finale il momento batteria-basso-voce funziona assai bene.

Dreaming (Franklin) – ricalca quasi fedelmente il demo tape inizio anni 80 di Tony Franlkin. Brano che si discosta dai precedenti ma che porta freschezza all’album. Scrittura convincente, arrangiamento felice, prova d’insieme ottima. Rodgers si rivela il grandissimo cantante che è sempre stato. Chitarre stupende e assolo all’altezza.

Free To Live (Page-Rodgers) riff basato sull’intermezzo di chitarra di Live For The Music (Mick Ralphs) dei Bad Company (1976) e mi chiedo come sia stato possibile per Rodgers non vergognarsi. La sua chitarra ritmica viene rinforzata da quella di Jimmy. Strofe mediocri, salvate dal lavoro di chitarra di Page sempre pronto a metterci del suo. Testo risibile … ma quando entra finalmente in scena il Dark Lord (minuto 02:02) con un intermezzo strumentale su cui ricama un assolino risolve la giornata a tutti.

Spirit Of love (Rodgers) chiude in maniera perfetta il disco, un tocco di grandeur, un testo un po’ hippie, sviluppo articolato, canzone di ampio respiro; l’assolo di Page raggiunge livelli alti, avesse suonato la Gibson Les Paul senza stringbender avrebbe toccato i suoi standard solitamente divini. Nella parte finale entra in scena anche la chitarra sintetizzatore, peccato il coro femminile altrimenti sarebbe stato un finale epico. Bravi Slade e Franklin, bravissimo Rodgers, ispirato Page. Degna chiusura di un album ben al di sopra della sufficienza.

Registrato nel 1985 uscì nel febbraio del 1986. 22esimo nella classica americana (disco d’oro), 46esimo in quella inglese. Il titolo intendeva far capire come i Firm facessero sul serio, sebbene non fosse del tutto vero (sin dall’inizio si intuiva fosse un progetto a termine). Copertina mediocre che rincorre lo stile americano di quegli anni.

  • Paul Rodgers – vocals, acoustic and electric guitars, piano, producer
  • Jimmy Page – acoustic and electric guitars, producer
  • Tony Franklin – fretless bass, keyboards, synthesizer, rhythm guitar on Dreaming, back vocals
  • Chris Slade – drums and percussion
  • Julian Mendelsohn – producer
  • Aubrey Powell Productions – cover design
  • Barry Diament – mastering

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Non capirò mai come fecero gli amici che si dichiaravano fan dei LZ a non aver nessun interesse per questi dischi, che ascoltati oggi, nella mediocrità musicale degli ultimi tre decenni, hanno di sicuro qualcosa da dire, soprattutto ai fan di Page e Rodgers.

Benché abbia cercato di mantenere un profilo critico nel parlare di questi due album è bene chiarire che sì, sono album obliqui, ma sono dischi che ho amato moltissimo … non avranno valore in senso stretto per la storia della musica Rock ma rimangono capitoli importanti della mia vita.

Ittod direbbe: “The Firm, best band ever”!

THE FIRM 1986

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i FIRM sul blog:

I Firm, i loro fratelli e il depotenziamento del rock – di Paolo Barone

BOOTLEGS: The Firm – Kongreßhalle, Frankfurt, Germany, December 3rd 1984

RITAGLI DAL PASSATO:Recensione dell’epoca (1985) di Giancarlo Trombetti del primo album dei FIRM

TT’s SCHOOL OF ROCK V: Eric Clapton

2 Lug

Come scrivo ogni volta che affronto questo tipo di articoli, lavorando in un’azienda come quella per cui lavoro uno dei miei compiti è anche quello di tenere alcune lectio magistralis (e sia chiaro, lo scrivo con tutta l’autoironia possibile) sulla musica Rock. D’altro canto il presidente me lo disse già durante il colloquio due anni e mezzo fa: “In caso scegliessimo te, sappi che ti chiederò di tenere lezioni sul Rock per i colleghi”. Eccomi dunque qui per la nuova “school of Rock”. Siamo ormai arrivati al quinto episodio, da tenersi come sempre dalle 18:15 alle 19:30 nella – a me tanto cara – Sala Blues, la sala riunioni informale,  la sala “where the dreams come blue”, capacità: 25 posti a sedere.

Sala Blues – foto Tim Tirelli 2021

Un pubblico dunque selezionato che si prende la briga di fermarsi in azienda dopo l’orario di lavoro per ascoltare storielle e brani musicali di gruppi del bel tempo che fu. In questo solstizio d’estate viro verso il Rock in senso stretto, ci affranchiamo dal prog rock delle ultime puntate (Genesis e ELP) e ci buttiamo sul primo eroe della chitarra, Eric Clapton.

Alle 17:30 sono già sul posto, sistemo gli ellepì, i CD, controllo gli appunti e mi siedo su di una poltroncina in attesa dei colleghi. La prima ad arrivare è Lady J, una che fa parte del Team Tirelli, il giro di colleghe e colleghi che tendono ad avere affinità elettive con l’uomo di blues che sono. Lady J è una giovane donna a cui credo di aver fatto scoprire Ten Years Gone dei LZ, da allora gironzola con interesse intorno a quel tipo di Rock, cerca ci carpirne l’essenza e di collocare quella musica stellare nel tempo e nello spazio. Non è un “lavoro” (come diciamo qui in Emilia) da tutti.

Lady in The Belly Of the Whale – TT’s School Od Rock – giugno 2023- foto TT

Poco dopo le 18:15 faccio l’appello, ringrazio il gentile pubblico presente e inizio con l’introduzione.

TT School Of Rock – E. Clapton – 22/06-23 – Foto Lady In the Belly

Da dove viene la musica che tanto amiamo, come si trasforma e che cavolo di impatto riesce ad avere sulle nuove generazioni giovanili. Entriamo poi nel vivo parlando di Eric Clapton, analizzando persino il significato del nome: Eric, dal norvegese antico “Re” o “Unico Re”, e Clapton dall’inglese antico “Collina Rocciosa”. Azzardo una traduzione italiana foneticamente efficace: Re Collepietra, tra l’ilarità dei miei giovani colleghi. Un po’ di storia, la madre che ha una relazione con un militare canadese che finita la guerra tornerà nel suo paese d’origine, lui che cresce con i nonni materni, lui che a 13 anni prende in mano la chitarra ma la abbandonerà quasi subito per poi innamorarsene qualche anno dopo, la scoperta del blues, i primi gruppi e poi i “Gallinacci”. Un veloce accenno anche all’uomo oltre che al musicista, uomo tutto sommato mediocre che tra l’altro nel 1976 e nell’era Covid se ne uscì con dichiarazioni imbarazzanti. 

spezzoni Intro & Yardbirds 

Quindi l’avventura con John Mayall & The Bluesbreakers il cui l’album omonimo del 1966 inaugura la stagione dei chitarristi, saranno questi per alcuni anni a diventare le figure principali di molti gruppi Rock.

TT School Of Rock – E. Clapton – 22/06-23 – Foto Lady In the Belly

Il suono di chitarra dell’album con Mayall è, per l’epoca, sensazionale: è la prima volte che un sound del genere viene registrato grazie alla combinazione della chitarra Gibson Les Paul e dell’amplificatore Marshall 1962 (rinominato Bluesbreaker). Grazie al sound rotondo, distorto e al contempo cremoso che Clapton riesce a creare e alla perizia chitarristica, appare su un muro a Londra la citatissima scritta “Clapton is god.” L’album non fa nemmeno in tempo ad uscire che Clapton è già pronto per un nuovo capitolo della sua carriera; insieme a Ginger Baker e Jack Bruce forma infatti i Cream grazie ai quali comincia la stagione dei grandi gruppi Rock

TT School Of Rock – E. Clapton – 22/06-23 – Foto Lady In the Belly

Blues progressivo, Hard Rock, psichedelia e spazi per lunghe improvvisazioni si mischiano fino a deflagrare in una sorta di Rock Blues cosmico.

TT’s School Of Rock V – Eric Clapton – Giugno 2023 – Foto Stremmy Girl.

Tre album da studio (il terzo, doppio, è per metà dal vivo) e un paio di live che fanno sobbalzare il mondo del Rock che sta delineandosi.

Spezzoni Video John Mayall’s Bluesbreakers & Cream 

Terminata l’esperienza Cream, Clapton inizia a distanziare sé stesso dal buraccione del guitar god, si getta  capofitto nel genere “americana” che inizia a definirsi con “Music From The Big Pink” (1968) della Band. Tra il 1969 e il 1970 forma i Blind Faith con Stevie Winwood, i Derek & The Dominos, collabora con Delaney & Bonnie, registra un buon primo album solista che rimane comunque interlocutorio per poi precipitare in un biennio buio. 

Riemerge nel 1974 con l’album solista 461 Ocean Boulevard grazie al quale compie la singolare trasformazione da chitarrista a rockstar a tutto tondo. Se ci pensiamo è l’unico che è stato in grado di reinventarsi così.

TT School Of Rock – E. Clapton – 22/06-23 – Foto Lady In the Belly

Da lì in poi il Clapton solista torna ad avere un grande successo, oltre all’album del 1974 vi è quello del 1977, Slowhand, ad essere uno dei più venduti. Nel 1980 esce il doppio live Just One Night registrato al Budokan di Tokyo nel dicembre 1979, disco dal vivo assai importante per quelli della mia generazione.

TT School Of Rock – E. Clapton – 22/06-23 – Foto Lady In the Belly

Fino al 1983 fa buoni album, poi incontra Phil Collins ed è la fine, arrivano i dischi di plastica (per quanto ascoltabili), i completi di Armani e la musichetta anni ottanta. All’inizio degli anni novantail suo “Unplugged” (fortunata serie di dischi dal vivo voluta da MTV) spopola e solo in USA vende più di 10 mln di copie … è un disco gradevole, le versioni di Layla e di Tears In Heaven sono ben fatte, ma il blues che riempie tutto il resto è troppo perfettino, pulito, quadrato, per quanto ben suonato. Quel tipo di blues che in quegli anni avrebbero potuto ascoltare anche le nostre zie e i supermanager dell’epoca dentro alle loro costose BMW con solo due o tre cd, Brothers In Arms dei Dire Straits, il primo solista di Sting e l’Unplugged di Clapton appunto. Nulla di male, per carità, ma il blues e il Rock forse erano un’altra cosa.

E qui vi rimando ad un articolo del 2021 che scrissi qui sul blog …evidentemente questo è un tema a me molto caro:

https://timtirelli.com/2021/03/06/quel-maledetto-adesivo-dei-grateful-dead-attaccato-alla-cadillac/

Dopo l’unplugged Clapton pubblica altri dischi, alcuni più che dignitosi ma in sostanza si trascina sino ai giorni nostri.

Spezzoni SOLISTA

Termina più o meno così la mia miserella School Of Rock su Eric Clapton. I colleghi e le colleghe sono come sempre generosi/e nel regalarmi un applauso convinto …

Spezzoni – THE CLAP

e qualche battuta gentile:

Gabri: “La mia prima lezione e l’ho adorata!”

Chris: ” Grazie tante Tim! Cazzo…non conoscevo la storia dei Cream …li ascolterò”

Lady J: ” In un paio di momenti ho sentito i brivido e mi sono proprio emozionata”

Il prossimo appuntamento si dovrebbe tenere vicino all’equinozio di settembre. Thank you boys & girls.

Foto di Lady J & Stremmyy Girl / Video di Lady J.

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la School Of Rock sul blog:

TT’s Schol Of Rock Episodio 3 è contenuta all’interno di:

Il terrore del sabato mattina e altri blues assortiti.

Flashes from the Archives of Oblivion: ROBERT JOHNSON “IL RE DEL DELTA BLUES”

30 Ago

Così come nelle edicole delle località di mare compaiono in estate vecchi numeri di fumetti riconfezionati e in offerta speciale, così Il blog ad agosto ripropone vecchi articoli apparsi anni fa nella speranza di non annoiare troppo chi ci segue da sempre e magari di intrattenere i nuovi lettori con scritti pieni di polvere. Buona lettura.

(Robert Johnson)

Il ‘Re del delta blues’ non è una frase né particolarmente originale, perché è già stata usata centinaia di volte, né troppo felice perché il sostantivo ‘Re’ sa, almeno in superficie, di privilegi e nobiltà, quando qui si racconteranno storie di miseria, discriminazione e vita dura.

Ma in che altro modo si può descrivere Robert Johnson, l’uomo che ha la posizione preminente nel blues?

Uno che con 29 canzoni, un paio di foto ed una storia misteriosa che sprofonda nei pantani del Mississippi, è diventato il nome di riferimento del blues, folgorando le giovani anime di migliaia di musicisti tra cui decine di future rockstar quali Clapton, Ry Cooder, Keith Richards e i Led Zeppelin. Questa,senza ombra di dubbio, è la storia del blues.

(Tim Tirelli 2004 – pubblicato originariamente su CLASSIX! n.4)

(Hazlehurst, Mississippi)

L’enigmatica e tuttora piuttosto nebulosa storia di Robert Johnson è l’essenza del blues, la musica che più di ogni altra racchiude in sé il senso della ricerca, destinata ad essere infruttuosa, del proprio nido di stelle da parte dell’uomo. L’uomo di blues sa che non lo troverà mai, eppure continua a cercarlo, per tuttala vita. Questaricerca sa di frustrazione, povertà e malinconia, ma al contempo può assumere saltuariamente i colori di una tiepida felicità che in un batter d’occhio può ridiventare una infernale disposizione d’animo. Puoi essere stato un uomo nero che se ne andava per i fatti suoi sulla costa occidentale dell’Africa trecento anni fa, rapito e venduto come schiavo in un continente sconosciuto, oppure un negro obbligato a raccogliere cotone cento anni fa nel sud degli Stati Uniti, o puoi essere persino un bianco del primo decennio degli anni duemila alle prese con una vita e con domande a cui non sai e non puoi dare risposte, puoi essere quello che vuoi, ma una cosa la devi sapere: non c’è pace per l’uomo di blues.

Charles Dodds jr, un ometto di colore piuttosto intraprendente, e Julia Ann Major, una donna di colore dallo sguardo fiero, si sposarono a Hazlehurst (Mississippi) nel febbraio del 1889. Nel corso degli anni Charles riuscì a diventare un piccolo possidente terriero, un carpentiere e un fabbricante di mobili in vimini, guadagnandosi rispetto ed una certa agiatezza. Con Julia ebbe sei figlie (due delle quali morirono in tenera età) e un figlio, con Serena (la sua mantenuta) ebbe altri due figli maschi. Nel 1907 fu costretto a fuggire (sembra travestito da donna) a Memphis a causa di un forte litigi con i potenti proprietari terrieri della sua zona (i fratelli Marchetti). Lì assunse il cognome Spencer e cercò di rifarsi una vita insieme a Serena, ai suoi due figli e ad alcuni figli avuti con Julia, la quale rimase a Hazlehurst con le figlie Bessie e Carrie. Julia, donna dal carattere indipendente, durante la lontananza da suo marito ebbe una relazione con un lavoratore di una piantagione, tal Noah Johnson. Da questa avventura l’otto maggio del 1911 nacque Robert Johnson.

Poco dopo la nascita di Robert i F.lli Marchetti strapparono la casa e la terra a Julia, costringendola a peregrinare di piantagione in piantagione lavorando duro, mentrela figlia Carridi otto anni si occupava del piccolo Robert. Questa vita durò un paio d’anni fino a quando Julia non decise di ricongiungersi col marito a Memphis. A quel punto (il 1914)la famiglia Spencer, ex Dodds, consisteva nel capofamiglia Charles, sua moglie Julia, la sua convivente Serena, i figli di entrambe ed in più Robert, il figlio illegittimo che Charles almeno all’inizio faticò ad accettare.

Non pare vi furono particolari tensioni all’interno della famiglia allargata, tuttavia Julia decise di andarsene per la sua strada, stabilendosi a Robinsonville, nel Mississippi, a circa sessanta km a sud di Memphis.

Robert rimase a Memphis conla famiglia Spencer. Unamattina di buon ora si appartò nei campi dietro casa in completa solitudine e cercò di decifrare con i suoi occhi da bambino, il mondo che lo circondava: il padre (ancora non sapeva che in realtà era il patrigno), la sua convivente, i fratelli, la madre scappata a sud, le comunità nere relegate ai margini delle città e dei villaggi. Tutto ciò gli apparve naturale vista la sua giovane età e il fatto che non conosceva che quello, ma ad un tratto in mezzo alla bruma scorse una allodola che emise un canto lamentoso.

L’allodola è un uccello originario di Europa, Asia e Africa settentrionale che successivamente fu introdotto in America; in quel momento l’allodola stava lanciando il suo nostalgico lamento all’indirizzo delle proprie terre d’origine. La similitudine con la condizioni dei neri americani può risultare forzata, ma resta il fatto che Robert ebbe un sussulto e capì, seppur bambino, che nella vita doveva esserci dell’altro. Nei mesi seguenti imparò i primi rudimenti di chitarra dal fratellastro Charles Leroy e mise in evidenza un caratterino per niente facile. Il patrigno finì per averne abbastanza, Robert non ubbidiva e faceva spesso di testa sua, così lo rispedì dalla madre a Robinsonville. Julia nel frattempo si era risposata (nel 1916) con Willie “Dusty” Willies, infaticabile lavoratore. Nei primissimi anni venti Robert prese ad interessarsi alla musica, ed iniziò a suonare l’armonica; insieme al suo amico RL Windum impararono alcune canzoni accompagnadosi l’un l’altro allo strumento.Ancora adolescente Robert fu informato del suo vero padre e sebbene fino al 1925 circa mantenne il cognome Spencer, assunse poi definitivamente quello con cui è universalmente conosciuto. Per noi ora è semplice identificarlo come Robert Johnson, ma la sciarada del nome portò parecchia confusione tra i suoi conoscenti: era infatti conosciuto come Robert Leroy Spencer, R.Spencer, Robert Dodds e naturalmente Robert Johnson, anche se nessuno lo chiamava così. Robert frequentò per breve tempola Indian Creek Schooldi Commerce, un paesino del Mississippi dove sua madre ed il nuovo patrigno lavoravano nella piantagione Abbay&Leatherman. La scuola però non faceva per lui e, con la scusa di avere una vista non buona (sembra fosse afflitto da una lieve cataratta che poi sparì), abbandonò il suo percorso di istruzione. Continuava ad essere attratto dalla musica così passò dall’armonica alla chitarra assorbendo gli umori musicali che pervadevano la zona dove viveva. In quel tempo l’area intorno a Robinsonville era visitata regolarmente dai più grandi musicisti blues: Charlie Patton, Willie Brown e Son House etc etc. Robert non perdeva occasione di seguire e di osservare questi ‘maestri’ mentre suonavano, a tal punto che divenne la mascotte, per tutti ‘il piccolo Robert’. Ricordò molti anni più tardi Son House: ‘Tutti noi suonavamo ai balli del sabato sera e questo ragazzino non se ne perdeva uno. Ricordo che suonava discretamente l’armonica ma la sua passione erala chitarra. Sene stava tutte le sere di fronte a me e a Willie Brown con gli occhi incollati alle nostre dita. Negli intervalli prendeva una delle nostre chitarre ma i risultati erano assai scarsi e tutta la gente gli diceva di smettere’.

(Cabins e Cabinets a Tallahatchie Mississippi – tipiche “abitazioni” del tempo di Robert Johnson).

Il ragazzino di cui parla Son House in realtà aveva circa vent’anni ed era già vedovo. Robert infatti si era sposato nel febbraio del 1929 conla sedicenne Virginia Travise i due si erano stabiliti a Prenton, appena fuori Robinsonville, nella casa della sorella Bessie e di suo marito. Virgina rimase incinta subito dopo ma morì di parto insieme al bambino nell’aprile del1930. Aquel punto Robert, che per mantenersi lavorava saltuariamente nelle piantagioni, capì che se voleva combinare qualcosa con la musica doveva fare sul serio; decise così di ritornare a sud nella natia Hazlehurst con l’intenzione di trovare suo padre. Erano gli anni della grande depressione economica ma Hazlehurst e buona parte del Mississippi centrale godevano di una certa prosperità grazie alle autostrade che venivano costruite in quei territori, garantendo lavoro a tutti. Non sappiamo se RJ abbia incontrato il padre, in compenso conobbe Ike Zinnerman, noto bluesman del posto che presto divenne il suo maestro. Robert conobbe anche Calletta Craft, una donna di dieci anni più vecchia di lui, con due matrimoni alle spalle e già tre figli piccoli; si sposarono nel maggio del 1931 mantenendo il loro matrimonio segreto. Per Calletta Robert era tutto, prese a riverirlo e a servirlo come fosse un re. Era lei che lavorava, lei che gli portava la colazione a letto, lei che credeva in lui anche quando stava lontano da casa o passava tutta la notte da Ike Zinnerman a imparare tutto il possibile sulla musica. Ogni qualvolta Robert aveva un momento libero si appartava nei boschi circostanti dove nessuno poteva sentirlo, a provare e riprovare le canzoni e i trucchetti che Ike gli aveva insegnato. Ogni tanto posava la chitarra, guardava le fronde degli alberi capendo ad ogni formarsi di pensiero che stava diventando un uomo che voleva qualcosa di più dalla vita. La sera del 6 giugno si sentiva più irrequieto del solito, prese la chitarra e si incamminò lungola strada.

Chieseun passaggio e dopo circa sei miglia chiese di scendere, ancora qualche passo ed arrivò ad un incrocio. L’oscurità della notte era già quasi scesa eppure a ovest gli ultimi bagliori di un tramonto tardivo infiammavano l’orizzonte ricurvo. Si mise a sedere, si accese una sigaretta e si abbandonò a quel silenzio fermo, schiarito dalla potente luce lunare. Imbracciò la chitarra quasi senza intenzione e un blues intenso iniziò a debordare dalla sua anima; dapprima fu una cosa quasi percussiva che poi si arricchì di un felice gioco di dita della mano destra e di slide. Quando lo scheletro della canzone fu terminato provò a cantarci sopra qualche cosa: ‘ Sono stato all’incrocio, sono caduto in ginocchio e ho chiesto al Signore di avere pietà e di salvare il povero Bob. Stando all’incrocio baby, il sole che sale e che scende, credo che il povero Bob stia affondando’. Sapeva che avrebbe dovuto risistemare quei versi, ma capì che aveva per le mani qualcosa di grosso. Come decise di intitolarla “Cross Road Blues” provò all’improvviso un forte bisogno di diventare un grande chitarrista e sentiva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per essere qualcuno. D’un tratto un forte vento si alzò, Robert si guardò intorno: i rami piegati degli alberi coprivano a tratti il tondo teschio lunare. Un paio di bagliori rossastri apparvero non troppo lontano da lui, proprio in mezzo al bosco come un paio di grandi occhi indagatori.

L’oscurità della notte cancellava i contrasti spazio-temporali, Robert non si vedeva più ma sentiva la propria presenza e aveva l’impressione di essere solo un pensiero, un filo di consapevolezza. Sentì l’anima liquefarsi e poi ricomporsi e finalmente capì che era giunto il momento di andarsene. I giorni seguenti Robert  sentì che si era trasformato in un uomo di Blues, quel tipo di uomo che ha la capacità di vedere e, a differenza di tanti altri, il coraggio di guardare. Iniziarono così le sue prime esibizioni pubbliche, alla domenica mattina agli angoli delle strade in paese e poi al sabato sera nei Jook Joints locali. Si spostò occasionalmente verso est a Georgetown o verso nord a Jackson, ma di regola se ne stava nei dintorni di Hazlehurst dove come musicista iniziava a farsi conoscere. A volte si presentava come R.L.Johnson dichiarando ai curiosi che R.L. stava per Robert Lonnie; questa era un piccola bugia, infatti il suo nome completo era Robert Leroy, ma Robert Lonnie Johnson era un musicista già molto noto che Robert stesso stimava e quindi giocava a confondere le acque. Il lungo soggiorno nel sud del Mississippi fu di grande importanza per Robert:nella contea di Copiah i tratti della sua personalità presero forma, il suo talento musicale sbocciò e la consapevolezza di essere pronto per altri orizzonti diventò un feroce desiderio di viaggiare. RJ prese così sua moglie e i ragazzi e partì diretto a nord, stabilendosi a Clarksdale. Lì le cose per un po’ andarono bene ma Callie, nonostante fosse una donna in carne e all’apparenza forte, non aveva una salute di ferro e crollò in modo definitivo quando Robert la lasciò, tornando disperata dai suoi genitori a Hazlehurst. Callie morì qualche anno più tardi e sebbene Robert tornò più volte dalle quelle parti, né lei né la sua famiglia lo rividero più. Robert aveva iniziato a viaggiare, dapprima cercando di imparare a viaggiare e poi viaggiando per imparare. Capì l’importanza dell’affidarsi alla strada e del fascino dell’imprevisto che di solito si abbatte sul viaggiatore. Già, la fecondità dell’ignoto era il faro che guidava il suo peregrinare, la scintilla che permetteva alla sua musica di esprimersi libera. Robert decise di fare una puntata giù a Robinsonville, un po’ per rivedere la sua famiglia e un po’ per mostrare a Son House e a Willie Brown i suoi progressi.

‘Un sabato sera stavo suonando in un paese chiamato Banks’ ricordò anni dopo Son House ‘insieme a Willie Brown e ad un tratto nel locale entrò qualcuno. Io e Willie riconoscemmo il piccolo Robert, aveva una chitarra con sé e per questo ci fece ridere; ci chiese di lasciargli qualche minuto e noi lo accontentammo. Si mise così a suonare e noi non credevamo alle nostre orecchie: era diventato molto bravo nel giro di poco tempo’.

Fu probabilmente da questo episodio che a Robert Johnson fu appiccicata la leggenda secondo la quale avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di diventare un gran chitarrista.

Per quanto suggestiva, va precisato che questa teoria è parte integrante della iconografia blues e dunque messa in relazione a tanti altri musicisti blues: chiunque mostrasse improvvisi miglioramenti allo strumento era coinvolto in queste voci. Si diceva infatti che se si vuole imparare a suonare uno strumento e a scrivere canzoni occorre recarsi ad un incrocio verso la mezzanotte, iniziare a suonare, attendere che un grande uomo nero appaia, prenda la chitarra, la accordi, suoni una canzone e che infine tela restituisca. Daquel momento si è in grado di suonare tutto quello che si vuole, unica controindicazione: da quel momento la anima del musicista appartiene al diavolo.

Robinsonville comunque non faceva più per Robert, egli cercava infatti un posto dove avere maggior visibilità e questo posto aveva il nome di Helena, città sul confine tra il Mississippi del nord e Arkansas. A Helena c’erano molti locali dove suonare, che all’epoca erano teatro di bollenti esibizioni dei bluesmen più in voga: Sonny Boy Williamson 2°, Elmore James, Memphis Slim, Howlin’ Wolf e decine di altri. Robert scelse quel posto come base per gli anni rimanenti della sua vita, il che gli permise di suonare e confrontarsi con i musicisti di cui sopra e di aggiungere lustro alla sua già brillante nomea. A Helena conobbe Estella Coleman, una donna che sin da subito lo amò molto e che lui ricambiò diventando guida spirituale per il figlio che Estella aveva avuto da una precedente relazione. Il giovane Robert Lockwood Jr aveva già mostrato una certa attitudine per la musica e avendo Johnson come maestro non poté che definire nel modo migliore il suo talento. RJ era molto geloso del suo modo di suonare e cercava di non mostrarlo a nessuno, solo Lockwood Jr ebbe la possibilità di penetrare i suoi segreti. La fama di RJ intanto continuava a propagarsi, non appena si spargeva la voce che avrebbe suonato in un dato locale, la gente si precipitava a vederlo. Viaggiare ormai era per lui la cosa principale, di notte, di giorno, non importava quando, egli era sempre pronto a mettersi in moto. A contatto con tante genti e posti differenti, la sua anima musicale si dilatò in modo impressionante; dovendo accontentare un po’ tutti arricchì il proprio repertorio, dai blues più sofferti o pieni di doppi sensi alle canzonette che si sentivano per radio in quel periodo. Diversi testimoni affermano che Robert era in grado di suonare una canzone a lui sconosciuta dopo averla sentita una volta sola, impressionando molti grandi musicisti del suo tempo. E’ quindi necessario iniziare a pensare che fosse un genio o comunque una persona con una intelligenza musicale fuori dal comune. Il suo fascino e la sua personalità poi fecero il resto: in ogni città in cui arrivava riusciva sempre a trovare una donna pronta ad accoglierlo. Il suo aspetto minuto e curato, le sue belle mani, i suoi lineamenti e il suo saper sussurrare dolci parole lo rendeva irresistibile tra le donne, che in genere erano più grandi di lui,  perché così potevano provvedere al suo sostentamento. Robert comunque poteva anche trasformarsi in un tipo assai duro a cui stare alla larga quando si dava al bere, al fumo e al gioco, ma a differenza di tanti altri colleghi non divenne mai schiavo di queste cose ( ma aveva una discreta propensione per il bere e le donne).

(battello a vapore a Greenwood Mississippi)

Professionista già molto conosciuto con un seguito di pubblico consistente, a metà degli anni trenta Robert capì che era giunto il momento di incidere dischi, si mise così in contatto con H.C.Speir,un bianco che aveva un negozio di articoli musicali a Jackson, dove si era costruito un piccolo studio di registrazione. Speir aveva fama d’essere un buon talent scout presso le case discografiche, le quali si affidavano al suo fiuto per capire in che artisti la gente di colore poteva essere interessata. Quando Johson lo contattò Speir era tuttavia disilluso: aveva appena siglato un contratto con la ARC secondo cui sarebbe stato pagato a seconda del numero di tracce registrate. Dei 178 ‘lati’ registrati la ARC scelse di pubblicarne solo 40. Speir piuttosto di ‘bruciare’ il nome di Johnson lo indicò a Ernie Oerte, un rappresentante e talent scout della ARC stessa. Dopo una veloce audizione Oerte decise di portare RJ a San Antonio per registrare. Arrivarono nella cittadina del Texas a fine novembre e lunedì 23 Robert entrò per la prima volta in studio. La stanzetta era semplice: una sedia, un microfono, le primitive apparecchiature per registrare dischi e Don Law, responsabile artistico delle sessions, pronto a partire. Robert prese una sorsata di whisky, si mise in un angolo e, rivolto al muro, iniziò a suonare quello che sarebbe diventata una parte fondamentale della musica americana. ‘Kindhearted Woman Blues’ fu la prima canzone in assoluto ad essere incisa da Robert e l’unica a contenere un assolo vero e proprio.

(Robert Johnson)

‘Ho una donna dal cuore gentile…ma queste donne diaboliche mi tormentano…è una donna dal cuore gentile che studia continuamente il maligno…potresti avere in mente di uccidermi’. Blues strascicato e reso stralunato dalla voce a tratti ironica, indifferente ed in falsetto.

(78 giri di Sweet Home Chicago)

Proseguì con ‘I Believe I’ll Dust My Broom’, ‘Sweet Home Chicago’, Rambling On My Mind’, ‘When You Got A Good Friend’, ‘Come On In My Kitchen’, ‘Terraplane Blues’ e ‘Phonograph Blues’. Ad un primo ascolto le canzoni possono sembrare simili tra loro, ma è bene soffermarsi sul fatto che siamo negli anni trenta , nelle comunità nere nel sud degli Stati Uniti e che ciò che realmente colpiva la gente erano i testi. Storie di tutti i giorni che i neri vivevano sulla loro pelle e che Robert scriveva con molta originalità. Di tutti i pezzi Robert ne registrò due versioni ma per alcuni titoli le ‘alternate takes’ non furono mai trovate. ‘Terraplane Blues’ gioca sui doppi sensi che posso scaturire paragonando una donna ad una automobile (la ‘Terraplane’ era infatti una berlina piuttosto comune tra il 1933 e il 1938).

(78 giri di Terraplane Blues)

‘Adesso ti alzo il cofano piccola e ti controllo l’olio…sto entrando nei tuoi contatti e quando avrò finito col tuo avviamento il cappuccio della tua candela mi darà fuoco’.

Con questa canzone Robert era già conosciuto e fu quindi logico farla uscire come primo singolo a suo nome, singolo che risultò poi essere il più venduto della sua carriera mentre era ancora in vita: circa 5000 copie. Nei due giorni successivi Robert fu arrestato per vagabondaggio e Don Law dovette pagare la cauzione per farlo uscire. Su richiesta del nostro bluesman, Law fu costretto inoltre a dargli dei soldi affinché Robert potesse pagarsi compagnie femminili.

(78 giri di Cross Road Blues)

Giovedì 26 novembre, tornato in studio, Robert registrò due versioni di ’32-20’, un pezzo dal ritmo sostenuto che si discosta non poco dall’andamento delle sessioni del lunedì precedente. Venerdì 27 novembre di nuovo in studio, Johnson sembra spiritato: ‘They’re Red Hot’ (dove si parla di ‘tamalas’ bollenti) la voce non pare nemmeno la sua e gli accordi e le progressioni che usa si discostano da quelli tipici del blues canonico. Col suo ritmo indiavolato ‘They’re red Hot’ doveva essere uno dei suoi pezzi forti quando voleva far scatenarela gente. Seguironole registrazioni di ‘ Dead Shrimp Blues’, ‘Cross Road Blues’, Walking Blues’, Last Fair Deal Gone Down’, ‘Preaching Blues’ e ‘If I Had Possession Over Judgement Day’. Finite le registrazioni Robert tornò verso casa con pressappoco cento dollari in tasca e sì, si sentiva un re. Non tutte le canzoni furono pubblicate, alcune vennero ritenute troppo licenziose, ma resta il fatto che oramai Robert Johnson era una star.

Portò con sé qualche copia dei dischi che regalò a parenti ed amici. Dopo un breve soggiorno a Helena ripartì insieme a Johnny Shines e a Calvin Frazier (quest’ultimo aveva ucciso un paio di uomini in Arkansas e doveva davvero andarsene) verso nuovi posti e quindi con nuove possibilità di viaggiare. I juke box avevano preso piede e la fama di RJ nei circuiti neri era al culmine. Sembra che si fece addirittura vivo suo padre Noah, sorpreso di avere un figlio così famoso; Robert poi alimentava la leggenda presentandosi sempre ben vestito e in ordine e scomparendo all’improvviso tanto da lasciare interdetti i suoi compagni di viaggio. Il suo senso del blues, la sua irrequietezza non lo lasciavano in pace e anche in piena notte, grondante di sonno, si sentiva costretto a mollare tutto e tutti e partire. I suoi itinerari non toccavano più soltanto le cittadine del Mississippi, del Tennesse e dell’Arkansas ma seguivano il vento del blues. St Louis, Memphis, il Canada, Detroit e New York videro il passaggio del re del blues. Il suo modo di suonare fu in parte influenzato da queste grandi città, ma in definitiva la vita urbana non sorprese questo venticinquenne ormai pieno di esperienza. In queste città si esibì con una band (batterista e pianista) e sembra che abbia provato l’emozione di suonare con una chitarra elettrica.

Nel giugno del 1937 venne di nuovo chiamato in studio per altre registrazioni, questa volta a Dallas. Lo studio era un vecchio magazzino e nelle parole di Don Law ‘dovevamo registrare al sabato e alla domenica, quando i rumori esterni dovuti al traffico diminuivano, e con le finestre chiuse. Il caldo era soffocante, lavoravamo a torso nudo con ventilatori sistemati in mezzo a blocchi di ghiaccio’. Come era accaduto nelle sessioni precedenti, tutti i pezzi vennero registrati due volte nel caso qualche master si rovinasse, ma anche in questo caso non tutte le ‘alternate takes’ sopravvissero. Rispetto alle registrazioni effettuate a San Antonio quelle di Dallas sono un tantino superiori per qualità  di registrazione e anche Johnson sembra, se possibile, più a suo agio, più professionale e con il completo controllo dello strumento. Sabato 19 giugno registrò ‘Stones In My Passway’, ‘I’m A Steady Rollin’ Man’ e ‘From Four Till Late’.

(78 giri di Hell Hound On My Trail)

Domenica 20 giugno fu la volta di ‘Hellhound On My Trail’, ‘Little Queen Of Spades’, ‘Malted Milk’, ‘Drunk Hearted Man’, ‘Me And The Devil Blues’, ‘Stop Breaking Down’, ‘Traveling Riverside Blues’, ‘Honeymoon Blues’, ‘Love In Vain’ e ‘Milcow’s Calf Blues’.

(78 giri di Love In Vain Blues)

Alcune di queste canzoni si basavano su motivi blues già esistenti, ovvero una sorta di traditional nati dai canti atavici degli schiavi neri, ma Johnson sapeva trasformarli in modo piuttosto originale tanto da farli suoi. I temi affrontati sono di quelli che ti torcono le budella e ti fanno capire come Robert Johnson era una cosa a parte: un uomo di colore illetterato, seduto in riva al mondo a contemplare e a discutere con se stesso i grandi quesiti esistenziali. Gli arguti intrecci tematici tra sacro e profano, tra felicità e sofferenza con il senso del tradimento e di assenza di via d’uscita nascosto in ogni piega delle parole. In ‘Me And The Devil Blues’ ricalca in modo esplicito quello che abbozzò in ‘Cross Road Blues’, ovverossia il disagio dell’inevitabile condizione dovuta al patto faustiano, coi riferimenti ai debiti che vanno pagati all’arte: ‘di prima mattina quando hai bussato alla mia porta ho detto salve satana, credo sia ora di andare…io e il diavolo camminiamo fianco a fianco e ora picchierò la mia donna fino a che non sarò soddisfatto’.

In ‘Hellhound On My Trail’ canta: ‘devo continuare ad andare, i blues cadono come grandine, i giorni mi tormentano, ho i cani dell’inferno sulle mie tracce’.

‘Traveling Riverside Blues’ non fu mai pubblicata per il testo dissoluto: ‘…adesso puoi spremermi il limone fino a che il succo non mi scenda lungo la gamba…’, c’è di che imbarazzarsi ancora oggi.

Lasciato lo studio di registrazione, Robert girò, insieme a Johnny Shines, il Texas e l’Arkansas. Difficile ricostruire l’ultimo anno di vita di RJ, ma d’altronde tutta la sua vita sfugge ad una ricostruzione decente. Il suo essere sfuggente e malinconico ma al contempo presente e determinato non lascia punti di riferimento precisi, tuttavia possiamo dire che Robert passò un po’ di tempo a Memphis, a Helena (dove tornò dalla madre di Robert Lockwood jr) e continuò a viaggiare tra il Mississippi e l’Arkansas. Johnny Shine, Robert Lockwood jr, Howlin’ Wolf e Son House lo accompagnarono per un po’ ma poi, per una cosa o per l’altra smisero di seguirlo come presagissero qualcosa. In agosto del 1938 Robert lasciò Helena per fare una capatina giù a Robinsonville per vedere i suoi parenti. Insieme a Honeyboy Edwards stazionò nei pressi di Greenwood, visto che a Three Forks (poco fuori il paese) un tizio proprietario di una Roadhouse aveva organizzato un ballo per un venerdì e sabato sera.

Il tizio andò in città per cercare musicisti e così vennero coinvolti tra gli altri RJ, H.Edwards e Sonny Boy Williamson 2°. Robert fece amicizia, per così dire, con la moglie del padrone del locale e pare che in quei giorni iniziarono a vedersi di nascosto. Essere un musicista a quel tempo significava anche dover affrontare difficoltà legate a gelosie e invidie. Gli altri musicisti ti odiavano se suonavi meglio di loro, le donne ti odiavano se ti davi da fare con qualcun’altra e gli uomini ti odiavano se ti vedevano parlare con le loro donne. Per uno come RJ, a cui non importava se la donna con cui parlava fosse sposata o no, la situazione era sempre sul punto di esplodere. La serata del 13 agosto del 1938 fu davvero un gran successo nel locale di Three Forks, molti musicisti si alternavano a suonare e per una volta la rivalità fu messa da parte e tutti si stavano divertendo. Robert continuò a prestare attenzione alla moglie del proprietario e questo causò forti tensioni. Sonny Boy Willamson se ne accorse e tentò di tenere la situazione sotto controllo. Durante una pausa qualcuno portò una bottiglia di whisky aperta a Robert, Sonny Boy pregò Robert di non bere ma Johnson non volle sentir ragioni. RJ tornò a suonare ma dopo poco dovette smettere perché non si sentì bene. Il marito geloso mise della stricnina nella bottiglia di whisky che Robert si scolò. Robert fu portato a casa di un amico e, essendo giovane e in buona salute, riuscì a passare la notte seppur tra dolori atroci.

Sembrava resistere ma sopraggiunse la polmonite (ricordiamo la cura per questa malattia fu trovata solo nel 1946). Robert Johnson aprì gli occhi e comprese ciò che gli stava capitando. Cercò di farsi forza ma si trovava impantanato tra le paludi della sua anima. Vide prendere forma lo spirito ribelle che gli permise di sfuggire alle odiose catene della tradizione, vide il senso di tormento e di disperazione tanto presente nei suoi testi, vide la sua visione del mondo e delle cose sospesa tra peccati e redenzioni. Robert forse vide anche un grande uomo nero venuto a reclamare ciò che avevano pattuito anni prima nei pressi di un incrocio. Con molta fatica volse lo sguardo alla finestra: uno scarabocchio di strada era l’unico ed ultimo orizzonte. Spostò lo sguardo su di un prato e vide un mare di tenebre violette. Guardò il soffitto, pensò alla canzone che stava scrivendo, cercò di intonarla. La immaginò finita e registrata con tanto di batteria, pianoforte e chitarra elettrica e sorrise al pensiero di come sarebbe stata accolta: era forse troppo strana, slegata come era dai blues fino ad allora conosciuti. Ricostruì a mente il giro armonico, gli accordi strani e l’assolo che aveva in mente di fare, mentre il piano teneva la ritmica. ‘potrei chiamarla Blues n.30’ pensò tra sé e sé, oppure ‘Greenwood Lady’ aggiunse sorridendo amaramente. ‘No meglio chiamarla Searching For’ e ironizzando con se stesso sogghignò ‘già, Searchin’ For Robert Johnson, The King Of Delta Blues’.

(Greenwood Mississippi)

Robert si spense martedì 16 agosto 1938. Sua madre fu presente al funerale e il corpo fu seppellito vicino alla vecchia Zion Church di Morgan City, Mississippi, ad un tiro di schioppo dalla ‘sua’ Mississppi Highway 7.

(La  Zion Church di Morgan City, Mississippi)

Non sapeva che in Inghilterra il Melody Maker aveva recensito l’anno prima uno dei suoi singoli giudicandolo molto positivamente. Non sapeva che  John Hammond a  fine 1938 lo avrebbe cercato per portarlo alla Carnegie Hall di New York per il Spiritual Swing Concert che stava organizzando. Non sapeva che se fosse vissuto almeno un altro po’ avrebbe avuto un successo enorme. Non sapeva infine, che anche così, con quei 29 pezzi sarebbe diventato il più grande, il Re incontrastato del Blues.

Postilla:

Studiosi di blues rintracciarono decenni dopo l’uomo che avvelenò Robert. Riuscirono ad entrare in casa sua e a parlargli e questi, prima di ricevere domande precise, prese a giustificarsi e a crearsi alibi, il che lascia intendere molto. Questi studiosi non poterono rivelarne il nome per non avere noie legali, dato che non fu mai avviata una inchiesta. Chissà se quello sciagurato ebbe mai crisi di coscienza, ma pensandoci direi che è altamente probabile dato il successo postumo di Robert Johnson.

Immaginiamo che lo sciagurato in questione passò anni tormentato dall’idea non solo di avere ucciso un uomo, ma di avere ucciso il Re del Blues.

Caroline Thompson, la sorella di Johnson, morì nel 1983 e fino ad allora fu lei ad avere la eredità (essendo l’unica ad essere rimasta in vita sino a quegli anni) di Robert Johnson.

Caroline a sua volta nominò suoi eredi i nipoti Robert M. Harris e Annye C. Anderson (certo, Robert morì senza avere possedimenti, ma avendo lasciato registrazioni così importanti, essere sue eredi legali significava avere entrate non indifferenti,).La “Estateof Robert Johnson” prese corpo nel 1989 e nel 1991 arrivarono agli eredi le prime royalty.

Ai due nipoti di Carrie si contrappose Claud L.Johnson, sostenendo d’essere figlio di Robert Johnson.

La Suprema Corte DelMississippi in data 15 ottobre 1998 si pronunciò a favore di Claud.

Sembra infatti che la madre di Claud, Virgie Mae Cain, intrattenne una relazione intima con Johnson nel 1931, da cui il 16 dicembre dello stesso anno nacque Claud.

Non essendo stato possibile effettuare test del dna (il corpo di Johnson riposa in un posto non ben precisato, sebbene molti sostengano che con ogni probabilità fu seppellito vicino alla chiesa di Zion) il giudice si è basato sui racconti di vari testimoni.

Sembra così che molti ricordino la relazione tra Robert e Virgie Mae e che Robert sapesse della gravidanza, tanto che, una volta nato il bambino, fece in un paio di occasioni una salto per vedere suo figlio. Una testimone, all’epoca dei fatti amica di Virgie Mae, durante la deposizione ha addirittura raccontato che un giorno durante la primavera del 1931, lei e il suo ragazzo andarono insieme a Virgie e Robert a fare una passeggiata nei boschi e che le due ragazze iniziarono poi a fare l’amore con i propri fidanzati. Con dignità e senza eccessivi imbarazzi raccontò alla corte che vide Virgie e Robert accoppiarsi.

L’atto del tribunale è consultabile in internet.

DISCOGRAFIA:

A parte i singoli pubblicati all’epoca, la Columbia pubblicò alcuni decenni dopo i due album leggendari ‘King Of Delta Blues Volume I e II’ contenenti tutti i suoi 29 pezzi di cui tre in doppia versione. Oltre a questi, numerose compilation sono state realizzate nel corso degli anni, alcune della quali contengono le otto alternate takes rimanenti. Il cofanetto di cui parliamo qui sotto è comunque quello che serve. La leggenda dice che esiste anche una ulteriore canzone, registrata durante una delle due sessioni del 1936 e 1937, che Johnson suonò più che altro per divertire i tecnici dello studio, visto che si tratterebbe di un pezzo dai contenuti molto sconci.

Robert Johnson

The Complete Recordings

(Columbia CBS 1990).

Come detto in  questo cofanetto di due cd, accompagnato da un gran bel booklet interno, ci sono tutte le 41 registrazioni sopravvissute. Da queste, oltre che per la tecnica – per l’epoca davvero apprezzabile- e per il significato dei testi, si può dedurre facilmente che la grandezza di Robert Johnson si deve anche al richiamo emotivo. ‘Come On In My Kitchen’ e ‘Love In Vain’ possono commuovere fino alle lacrime, ‘From Four Till Late’ può incantare per la sua spiccata melodia. ‘Stones In My Passway’, ‘Hellhound On My Trail’ e ‘Me And The Devil’ possono far sprofondare chiunque in una cupezza soffocante. Ogni canzone comunque è una vetrina per chi voglia osservare l’animo umano e per i musicisti che sentono il bisogno di capire da dove è nato tutto e che non si sentono appagati nel suonare il blues come fosse un esercizietto. Il blues per suonarlo  ( e non importa se bene o male) occorre averlo dentro.

Materiale in relazione con Robert Johnson:

Peter Guralnich

Robert Johnson: In Cerca Del re Del Blues

(Arcana 1991)

Libro che tratta i frutti di una ricerca storica ben fatta; peccato che le traduzioni in italiano dei testi lascino a desiderare.

The Search For Robert Johnson

(Sony 1992)

VHS da capogiro. Documentario girato intorno a John Hammond jr il quale come suggerisce il titolo, è alla ricerca di RJ. Immagini del Mississippi, dei posti dove Robert è stato (Robinsonville e Greenwood inclusi), interviste a ex donne di Robert ( una di queste, ormai anziana, si commuove con una dignità senza pari mentre ascolta ‘Love In Vain’, che Robert probabilmente scrisse per lei), interviste a Honeyboy Edwards e Johnny Shines e a quello che sembra essere il figlio del nostro Re del blues, tal Claud L. Johnson .72 minuti di puro fascino blues, malgrado l’assenza di sottotitoli renda spesso indecifrabile l’inglese sbiascicato dei vecchi bluesmen.

Mississippi Adventure

Film del 1986 che imbastisce una storia secondo la quale un ragazzino bianco di Long Island trova Willie Brown ricoverato in un ospizio e gli promette di farlo fuggire se questi gli insegna il trentesimo pezzo mai edito di RJ. Segue viaggio nel Mississippi. Il film è piuttosto leggerino, ma quando il flashback iniziale ricrea Robert Johnson nello studio di registrazione, beh…è roba da palpitazioni. La colonna sonora è deliziosa ed è opera del grandissimo Ry Cooder. Nel finale (nella scena del duello di chitarra) cameo di Steve Vai.

Varie

La musica di Robert Johnson è stata reinterpretata da migliaia di artisti ed è quindi impossibile stilarne un elenco degno di nota, basti citare (lo so, scelta assai banale) i due esempi forse più eclatanti, ovvero la versione live di ‘Crossroads’ dei Cream e ‘Love In Vain’ dei Rolling Stones.

Poi naturalmente Ry Cooder, Muddy Waters, Elmore James, Johnny Winter, Led Zeppelin (oltre a ‘Traveling Riverside Blues’ dalle loro BBC sessions, e a ‘The Lemon Song’ dal secondo album dove il testo cita la famosa frase di RJ, Trampled Underfoot da Physical Graffiti non è altro che una rilettura del testo di Terraplane Blues), White Stripes (‘Stop Breakin’ Down’ dal 1° album) e tanti, tanti, tanti altri.

(Tim Tirelli 2004 © – pubblicato originariamente su CLASSIX! n.4)

https://timtirelli.com/2015/06/05/classix-5-gennaio-2005-robert-johnson/

Flashes from the Archives of Oblivion: JOHN CAMPBELL “BLUES BELIEVER”

10 Ago

Così come nelle edicole delle località di mare compaiono in estate vecchi numeri di fumetti riconfezionati e in offerta speciale, così Il blog ad agosto ripropone vecchi articoli apparsi anni fa nella speranza di non annoiare troppo chi ci segue da sempre e magari di intrattenere i nuovi lettori con scritti pieni di polvere. Buona lettura.

Artista americano dallo spirito zingaresco, come si conviene ai musicisti blues puri d’animo, John Campbell incarna la figura asciutta del chitarrista-cantante blues un po’ defilato che osserva, ascolta, elabora e racconta vecchie e nuove storie di vita…storie di blues

(Tim Tirelli 2003 – pubblicato originariamente su CLASSIX n.2)

Di solito quando si pensa a chitarristi di blues bianco ci s’immagina blues fumanti ed elettrici, dove le Gibson e le Fender fanno fischiare gli amplificatori; con John Campbell non è proprio così, o almeno non in senso stretto, poiché il nostro si è sempre appoggiato a chitarre particolari: una splendida Gibson Southern Jumbo acustica del 1952 (elettrificata con pick up) ed un paio di National (del 1934 e del 1940).

Questo non significa che il blues di John Campbell manchi di quel mordente e di quella fisicità così necessari per godere appieno della nostra musica, ma è una forza diversa, più sottile eppure greve, più leggera eppure pesante…sembra un paradosso ma alla fine queste teorie un po’ azzardate prendono corpo nella musica di John Campbell.

Nato a Shreveport (Louisiana) il 20 gennaio 1952 e cresciuto a Center (texas), per la giovane anima di John campbell fu del tutto naturale assorbire l’umido spirito blues del sud degli Stati Uniti e trovarsi in armonia con la disarmonia degli altri, di se stesso e del mondo: in altre parole si scoprì uomo di blues.

(Shreveport, Louisiana)

Ebbe la sua prima chitarra nel 1960 tuttavia fu nel 1967 che decise di fare sul serio con la musica e con il blues. In seguito ad un serio incidente avvenuto quando aveva 15 anni (si dilettava nelle corse dei dragster) che gli costò un occhio, il collasso di un polmone e diverse costole rotte, John fu costretto ad una lunga convalescenza.

“Ero così malridotto dopo l’incidente e le plastiche facciali relative che sembravo una mummia. Non ho potuto camminare per un bel po’, così iniziai ad ascoltare la musica…John Lee Hooker, Howlin’ Wolf , Muddy Waters, e a suonare seguendo i loro dischi. Non potevo esprimermi verbalmente a causa delle ferite, così il blues diventò uno sfogo. In quei momenti compresi che nella vita non avrei fatto altro”. Parole di John Campbell che l’anno seguente lasciò la scuola, la famiglia, salì su di un bus con la chitarra e con dieci dollari in tasca e andò incontro alla vita.

Da bravo musicista blues capì ben presto che il meglio che poteva aspettarsi era di evitare il peggio.

E il meglio significava suonare il più possibile, dove possibile: 14/15 ore al giorno con la chitarra in mano a vergare vecchi e nuovi blues nei campus universitari, nelle stazioni di servizio, agli angoli delle strade.

Fu in quegli istanti che per John Campbell il tempo cambiò forma e le notti diventarono un’unica notte dilatata, fu allora che comprese definitivamente che pur non esistendo il destino era destinato a spendere la sua vita sotto i colpi del blues.

In questo evitò il peggio, sebbene gli toccò lavorare saltuariamente in una fabbrica chimica e vendere il sangue per potersi comprare una chitarra, le corde per suonarla e qualche panino.

Un giorno ricevette una lettera da un amico che viveva a New York: “Dovresti fare un salto quassù, c’è una scena blues di tutto rispetto e potresti inserirti anche tu”.

Questo il consiglio dell’amico che Campbell prontamente seguì.

Gli scenari di New York infettarono la musica di JC come ricordò in seguito lo stesso musicista:

“Ero abituato a suonare la chitarra acustica ma dove vivevo (a Willamsburg, Brooklyn) i treni della metropolitana passavano in superficie a pochi metri dalla mia finestra, così fui costretto a procurarmi un pick up ed un amplificatore per potermi sentire mentre mi esercitavo a casa. Era come se la città volesse ingoiare una semplice chitarra solitaria.”

In una notte come tante, John stava suonando in un club come tanti quando Ronnie Earl (chitarrista con già una certa carriera alle spalle) entrò nel locale. I due si erano già conosciuti anni addietro in Louisiana e finirono per passare tutta la notte nel retro del locale a parlare e a suonare i loro blues preferiti. Ronnie Earl decise così di portare Campbell in studio e di produrgli un album.

Il 18 e il 19 aprile del 1988 si ritrovarono negli Splice Of Life Studios di Brighton (Massachussets) con un pugno di musicisti a registrare quello che diventerà A Man And His Blues, disco uscito nel 1988 per l’etichetta tedesca Crosscut Records.

Sin dalla prima canzone, Going To Dallas (di Lightning Hopkins) è possibile carpire l’alto lignaggio del blues proposto da JC. Voce profonda, animo scosso da rivelazioni continue e il completo controllo dello strumento. Sugli stessi binari si muovono Bluebird e Deep River Rag, prove esemplari di come una chitarra possa da sola riempire tutti gli spazi necessari.

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Gli episodi migliori di A Man And His Blues sono infatti quelli dove Campbell si esibisce da solo o insieme alla chitarra di Ronnie Earl.

La piccola etichetta tedesca poté far ben poco per promuovere il disco così JC piano piano scivolò verso situazioni difficili. Dovette vendere la sua amata National (appartenuta a Lightning Hopkins, storico bluesman americano) e lavorare in un guitar shop per poter vivere.

In quei tempi John Campbell cercò di lasciarsi trasportare dalla  continuità di una vita apparentemente normale; mentre serve i clienti gli passano per mano tante chitarre ma può dire che le suona? Che le sente sue? Non è certo questo che lui chiama “avere a che fare con la musica”.

Dentro di sé sente che sta attraversando un ponte sul vuoto, che sta andando incontro al peggio, quando il fato gli riserva una sorpresa facendogli ritornare per le mani la sua vecchia chitarra National.

Questo genere di “segnali” sono patrimonio della tradizione blues a cui occorre sempre prestare la massima attenzione. Riscattata la chitarra, John torna alla vita che gli compete, se possibile con impeto maggiore. Si unisce ai musicisti che abitualmente suonano blues in un ristorante vietnamita e le cose iniziano ad aggiustarsi. Sempre più gente accorre a vedere questo ensemble che ha nelle sue fila un chitarrista davvero speciale. La voce si sparge in fretta e in poco tempo si ritrovano ad esibirsi al Lone Star Cafè, locale piuttosto “in” di New York.

John Campbell suona, chiude gli occhi e sogna: il fischio ed il getto di vapore che si levano dalla macchina del caffè simulano quelli di una locomotiva, il fumo ed i vetri appannati richiamano le nebbie calde del Mississippi. L’animo di John Campbell fiuta lo spirito del blues, lo segue, lo cattura e ne rafforza i significati…

L’uomo della Elektra presente nel locale rimane rapito dalla forza musicale di JC, ne capisce il potenziale e prende la decisione di metterlo sotto contratto.

One Believer, il primo disco di Campbell per una major, esce nel 1991 e l’immagine del volto del chitarrista ritratto in copertina lascia già intuire il calibro dei blues in esso contenuti.

“L’album è un faccia a faccia con quello che stavo provando in quel momento, è un album lento ed ombroso, dentro ci sono tutti i miei fantasmi, gli scheletri che avevo nell’armadio danzavano nel mio appartamento; l’album fu un esorcismo.” E’ in questo modo che JC parlò di One Believer, album che descrive con lucidità i contorni del personaggio in questione.

Registrato e missato in California tra marzo e maggio del 1991, One Believer è una raccolta preziosa di blues sofferti ed esoterici; sì, perché solo chi è consapevole della propria coscienza blues può trovare appaganti le oscure metafore che escono dai cantati di JC e tradurli secondo la propria sensibilità. Ci sono un paio di episodi veloci nel disco, ma è il resto a colpire davvero: una catena di blues lenti e profondi dove la band accompagna con discrezione la chitarra e la voce di JC.

Nel brano d’apertura JC canta:

“Ho il diavolo nel mio ripostiglio e il lupo alla porta” ed è il preludio ad un’esplosione di tematiche che turbano ed affascinano.

In Angel Of Sorrow Campbell infierisce ulteriormente:

“Signore che sei lassù, so che è tardi nella vita per dire la mia prima preghiera, non sono qui a chiedere pietà per la mia anima tormentata, perché dopotutto inferno o paradiso per me è lo stesso, ma dammi solo un ultimo respiro per potere dire addio alla mia piccola.”

Mischiare sacro e profano, tirare in ballo demoni, cani dell’inferno e voodoo non è certo una novità nel blues, ma il modo in cui lo fa JC rende a questi temi una nuova freschezza. Sarà anche solo una sensazione, ma sembra che John Campbell contribuisca realmente a rimodellare in maniera seria la più nobile tradizione blues. Lontano dall’approccio ormai patinato e buono per tutti di chitarristi bianchi come Eric Clapton, lontano dal blues cabaret di musicisti neri come BB King, John Campbell sembra essere partorito dal pulviscolo blues originato dal big bang primordiale, quello che generò i padri putativi della “musica del diavolo”: Robert Johnson, Son House e compagnia bella.

(Foto di nozze: John e sua moglie Dolly)

Il suo lavoro alla chitarra poi si avvicina al sublime, scansando le facilonerie dei trucchetti rock blues fini a se stessi, privilegiando invece gli aspetti più tenebrosi ed emotivi, ricamando trame e fraseggi con tecnica cristallina.

“Alberi nudi d’inverno, ormai è buio, un uomo cammina lentamente da solo nel parco, la sua mente è piena di visioni che solo lui vede e Signore, egli assomiglia molto a me.”.

Stralcio tratto dal testo di One Believer, canzone che chiude e che forse meglio rappresenta il disco.

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I versi delle strofe affondano in una stesura in minore, cupa e malinconica, mentre il ritornello tenta una esplosione in maggiore che rischiara, almeno in parte, le tenebre iniziali. Per One Believer non si può parlare di vero e proprio successo commerciale, ma l’album andò in ogni caso bene e il nome di JC iniziò finalmente a circolare.

Il resto del 1991 JC lo passò in tour accompagnato da una band tutta sua, e aprì per più di sei mesi ogni data del tour di Buddy Guy, arrivando anche in Europa.

La stessa cosa successe per la prima metà del 1992: tour americano ed europeo si susseguirono, aprendo concerti per Johnny Winter e Albert Collins, partecipando a festival importanti (tra cui il Montreux Jazz Festival) e suonando molte date come artista principale.

Fu quindi tempo di registrare il secondo album per la Elektra. Howlin’ Mercy prese corpo grazie a recording sessions avvenute nell’agosto del 1992 agli studi  Power Station e missate  agli Ardebt Studios di Memphis nel settembre dello stesso anno.

“Per Howlin’ Mercy il mio approccio fu differente. La mia vita improvvisamente divenne piena d’energia: avevo una band con cui vissi on the road per molti mesi insieme a Buddy Guy, così le canzoni di Howlin’ Mercy risultano più muscolose, allo stesso tempo sono frutto delle mie vecchie radici e della nuova direzione in cui stavo andando.”. (John Campbell)

Howlin’ Mercy si differenzia da One Believer prima di tutto per i mezzi a disposizione: la produzione è curata e ricercata, frutto senza dubbio di un budget sostanzioso e di una impostazione quasi mainstream; la band poi è più presente, in generale si sente un approccio più rock e anche la voce di JC è cambiata essendosi fatta più roca, perdendo forse un po’ di quella sobria profondità che aveva caratterizzato l’album precedente. L’aspetto naif senza compromessi di One Believer rimane così il punto più alto della produzione di John Campbell, non a caso una delle canzoni migliori di Howlin’ Mercy è Love’s Name, ipnotico slow blues che richiama alla mente i sapori e le atmosfere di One Believer. Howlin’ Mercy comunque si difende bene: Saddle Up My Pony è un vecchissimo traditional rispolverato da JC alla sua maniera; una lunga introduzione di chitarra slide penetra segreti atavici, poi con una decisa sciabolata entra la band e, liberata la slide dai suoi torpori più tristi, trasforma tutto in una furiosa cavalcata elettrica. Nell’album sono riproposte Down In The Hole di Tom Waits e a sorpresa When The Levee Breaks dei Led Zeppelin.

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Howlin’ Mercy impose definitivamente la figura di John Campbell che, pur restando artista di culto, iniziò a godere di una discreta popolarità.

Howlin’ Mercy uscì nel 1993, cui fece seguito un’altra lunga tournèe. Marzo JC lo passò in Europa a suonare in Inghilterra, Danimarca, Francia, Germania, Italia e Irlanda, aprile fu speso negli Stati Uniti tra Texas, Louisiana, California, Georgia e Tennessee.

JC era contento di come si stavano mettendo le cose, ma iniziò a sentirsi affaticato e sperduto.

Per la prima volta estraneo gli apparve il mondo e ogni volta che si separava dalla chitarra al termine di un concerto, sentiva una spinta furiosa verso il basso. Fatica? Vecchi Demoni? Le sue antiche ferite? JC non era in grado di stabilirlo. Una sera, coricandosi, ebbe l’impressione di avere i cani dell’inferno alle calcagna, ne sentiva gli ululati, ne percepiva l’eccitazione. Si rese conto che i suoi blues stavano prendendo forma, li vide saltellare intorno al letto: li scacciò abbozzando un sorriso e si rimise a sognare. Da quel sogno non si svegliò più. Colpito da un infarto, John Campbell morì a New York il 13 giugno 1993…aveva 41 anni.

JOHN CAMPBELL – DISCOGRAFIA

Avendo registrato soltanto tre album durante la sua breve vita, è facile arrivare alla conclusione che non ci sono capitoli scadenti nella discografia di John Campbell. Probabilmente JC se ne è andato portando dentro di sé il suo album definitivo, quello che avrebbe potuto consacrarlo, l’album, come si suole dire, della definitiva maturità.

Queste ad ogni modo, le testimonianze che ha lasciato:

A MAN AND HIS BLUES (Crosscut Records 1988) – JJJ1/2

Registrato  in soli due giorni con la supervisione di Ronnie Earl, l’album è poco più di una autoproduzione: nei duetti di chitarra Campbell/Earl come Sittin’ Here Thinkin’ ci sono piccole sbavature dovute alla fretta e alla registrazione in diretta. Ma d’altra parte il disco risulta fresco e i pezzi dove JC si produce in performance voce/chitarra sono quasi magici: Bluebird e Going To Dallas in primis. Lo strumentale Deep River Rag fa capire che razza di chitarrista magnifico fosse JC. A Man And His Blues è stato ristampato nel 1994 dalla Blue Rock-it Records.

ONE BELIEVER (Elektra 1991) – JJJJ

Il magnetismo di quest’album è inarrivabile: se lo si ascolta in inverno, dalla chitarra e dalla voce di JC si alzano nuvole calde di vapore nell’aria gelida di vetro, se lo si ascolta in estate si alzano folate di vento freddo nell’aria afosa e liquefatta. La disperazione di Angel of Sorrow, gli avvertimenti di World Of Trouble, la folle corsa in macchina di Take Me Down dove “ gli insetti si spiaccicano contro il parabrezza e diventano piccole esplosioni rosse di sangue…l’acceleratore è al massimo, ho un istinto suicida e i cani dell’inferno ululano e presto mi raggiungeranno…”. Il lavoro di chitarra poi è complementare a queste visioni e ne rende più nitide le immagini. John Campbell era davvero un gran chitarrista. Il disco si chiude con One Believer, ultimo gioiello di un album che gli amanti della buona musica dovrebbero avere.

HOWLIN’ MERCY (Elektra 1994) – JJJJ

Registrato dopo mesi passati on the road con una band stabile, Howlin’ Mercy è un disco più levigato e impreziosito da una produzione curata e piccante. Il gruppo acquista importanza e si fa sentire con convinzione. I blues di Campbell si fanno più duri e a volte tendono a scappare verso territori tipici del rock americano d’autore. I temi comunque restano ancorati al blues sincero di JC, quello che ti penetra dal basso e come fosse una lama ti taglia l’animo.

Blues per puristi in Saddle Up My Pony , blues rock americano in Ain’t Afraid Of Midnight, Look What Love Can Do e Firin’ Lane e piombo Zeppelin in When The Levee Breaks qui riproposta in una versione assai convincente.

TYLER, TEXAS SESSION (Sphere Sound Records 2000)

Album postumo contenente alcune registrazioni fatte da JC prima che la Elektra entrasse in scena. John insieme alla sua chitarra alle prese con alcuni dei blues più classici: Can’t Be Satisfies, Rollin’ Stone, Terraplane Blues, Mojo Hand.

 

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QUESTA LA VERSIONE APPARSA SULLA RIVISTA CLASSIX NEL 2004.

https://timtirelli.com/2015/06/26/classix-2-febbraio-2004-john-campbell/

GRETA VAN FLEET “Anthem of the Peaceful Army” (Republic Records – 2018)

22 Ott

Introduzione

Qui sul blog abbiamo iniziato a parlare dei GVF più di un anno fa. Ci piaceva il fatto che, pur facendo indubbiamente il verso al nostro gruppo preferito, la band sembrasse vera e animata dal giusto senso del rock; di solito non amiamo particolarmente chi scimmiotta i LZ, sia che si tratti di gruppi famosi che di semplici tribute band, chi diventa una macchietta, chi imita la gestualità e il modo di cantare di Plant trasformandosi il più delle volte in un comico e inguardabile clone. Apprezzammo dunque i due EP pubblicati ad inizio e a fine 2017 anche perché tenemmo conto della giovanissima età del membri del gruppo.

Lo scorso luglio poi uscì il nuovo singolo (“When the Curtain Falls“) e le nostre simpatie iniziarono a stemperarsi. I riferimenti ai Led Zeppelin erano ancora molto evidenti e la cosa spense un po’ il nostro interesse. Il gruppo era ancora molto giovane ma un anno e mezzo passato costantemente on the road aiuta a maturare in fretta, dunque ci si aspettava anche dal punto di vista del songwriting un passo in avanti. Scrivemmo due considerazioni personali su facebook e quindi decidemmo così di non interessarci più di tanto del gruppo. La cosa divenne però più ardua del previsto.

◊ ◊ ◊

Due sabati fa son li che scarico, dal camion del rivenditore, la prima parte di pellet per il nostro fabbisogno invernale. Il tipo inizia a parlare di rock. Io taccio, non ho voglia di infilarmi in discorsi superficiali circa la musica che preferisco, la pollastrella invece non perde l’occasione per tornare su uno dei suoi interessi principali. Faccio avanti indietro tra il cortile e il lato più oscuro del garage con dei sacchi da 15 kg sulle spalle mentre sento parlare di Deep Purple e di AC/DC e quindi dei Greta Van Fleet. Mi dico, ma guarda un po’ questi ragazzini, sono riusciti ad arrivare anche qui tra i sentieri dell’Emilia più profonda.

Mercoledì scorso vado alla Bottega dei Briganti a vedere una (discutibile) tribute band dei Clash. La Bottega è uno dei locali che di solito frequento. Ci ho suonato più volte col mio gruppo e con Valerio, il titolare, ho un ottimo rapporto. E’ sempre molto occupato, ma mentre ceniamo viene a fare due chiacchiere e, tra le altre cose ci dice: “voglio prendere i biglietti per andare a vedere i Greta Van Fleet a Milano”.

Sabato scorso. Torna il tipo a portarci la seconda parte del pellet. Il primo argomento è “possibile che i biglietti per il concerto dei Greta Van Fleet siano andati esauriti in due minuti”.

Va beh, mi prendo il nuovo album, appena uscito, lo metto sulla chiavetta e me lo ascolto una prima volta. Mi faccio un’idea, ma poi mi dico: “ne devo scrivere sul blog?“, ormai i GVF sono diventati un argomento che genera qualche tensione. Rifletto su quanto carissimi amici hanno scritto e mi hanno detto.

Amico P (musicista: cantante/chitarrista e genio a tutto tondo): “guarda, io li prendo per quello che sono senza farmi tanti problemi sul paragone con i LZ. Jacob Kiszka io lo vivo come chitarrista americano, più che come adepto di Page. Se proprio vogliamo magari mancano i due o tre pezzi di valore superiore”

Amico U (musicista: chitarrista): scrive un concetto che si può riassumere con queste parole: “ma come si fa a criticarli? Sono una delle vere poche nuove rock band venute fuori in questi ultimi tempi. Criticarli significa contribuire a far sparire il Rock”

Amico G (giornalista musicale):  “Lo so molti di voi contestano i GVF perchè “copiano”… Fatti vostri. Dico solo che facendo i saccenti e i criticoni con tutto, abbiamo fatto scomparire le chitarre e ci siamo meritati il trap/rap/rutt/scorregg che ci sta sovrastando. Poi voi fate come volete. “

Amico R (musicista/chitarrista): “Mi piacciono, gran chitarrista, li sto ascoltando compulsivamente da ieri. Datemi retta questi (a parte il batterista) hanno le palle quadre a 20 anni”

Amico B (giornalista musicale): “Ieri ascoltavo i GVF e mi domandavo come facessero a piacere a te che sei molto caustico nei confronti degli imitatori dei LZ. Io non riesco a  trovarci un tratto distintivo”.

Amico P (star della subacquea / scrittore e filoso alternativo di rock): “Bah…”

E ora cosa scrivo? Come li affronto? Mi atteggio a “saccente e criticone” come scrive il mio amico G o li vivo di pancia rallegrandomi delle loro influenze? Mi interrogo sullo stato del Rock (diciamo così, classico) che sembra non andare oltre ai riferimenti dei bei tempi andati o devo felicitarmi perché se non altro una nuova band Rock (voce, chitarra, basso e batteria) sta assurgendo agli onori delle cronache?

E se li critico, con che faccia tosta mi presento? Io che se vado a riascoltare i miei demo del passato non posso che trovare nelle mie canzoni richiami ai Led Zeppelin, io che suono in una tribute band (seppur obliqua) del gruppo di Page?

E poi, anche i LZ presero a man bassa dal blues per i primi due album… certo, mi si obietterà, loro però trasformarono il tutto in una proposta decisamente nuova contribuendo in maniera definitiva a scrivere la storia del Rock, mentre i GVF sembrano semplicemente riproporla; d’altra parte siamo nel 2018, gli alfabeti musicali sono consunti, il terreno del songwriting ormai non è più fertile, non ci si può più aspettare granché, a dispetto di chi pensa che il rock non morirà mai.

Medito un po’ sul da farsi, poi decido: I don’t give a damn! Scrivo in modo schietto e sincero senza curarmi di nulla, questo è un misero blog personale, mica la rivista Mojo. I miei amici mi perdoneranno, il dio del Rock anche, se non li difendo a spada tratta.

Greta Van Fleet “Anthem of the Peaceful Army” (2018 Republic) – TTT½

1. Age of Man – 2. The Cold Wind – 3. When The Curtain Falls – 4. Watching Over – 5. Lover Leaver (Taker Believer) – 6. You’re The One – 7.  The New Day – 8. Mountain of the Sun – 9. Brave New World -10. Anthem

  • Joshua Kiszka – vocals
  • Jacob Kiszka – guitar, backing vocals
  • Samuel Kiszka – bass guitar, keyboards, backing vocals
  • Daniel Wagner – drums, backing vocal

Age Of Man apre l’album in modo positivo. Il sound si arricchisce delle tastiere (suonate dal bassista … altra similarità). La voce di Joshua Kiszka è penetrante, e ancora non so decidere se mi piace o mi infastidisce un po’. Di certo il ragazzo è dotato. Magari esagera un po’ usandola spesso a tutta potenza, come d’altra parte nei primi due album era solito fare Plant. Il pezzo è valido, un buon tempo medio articolato e non privo di fascino. Vuoi vedere che hanno trovato una loro strada?

 ◊

The Cold Wind invece si inserisce sul già tracciato. Parte come un rockaccio alla Led Zeppelin (quelle cose un po’ alla Custard Pie) ma si distingue con un bello sviluppo subito dopo la strofa (sviluppo che si conclude citando un passaggio di Over The Hills And Far Away) e per un ponte strumentale potente e scatenato. Delizioso l’assolo di chitarra. Buona prova d’insieme, detto per inciso a me il batterista piace.

When The Curtain Falls è il singolo (o meglio il video dell’album) ed è uno dei momenti che meno apprezzo. Non è male ma è di nuovo un rock generico alla led Zeppelin. Il controcanto della chitarra nel ritornello non è niente altro che il lick che Jimmy Page ripete più volte in In The Evening. Personalmente trovo questo richiamo un po’ imbarazzante.

Watching Over inizia con un sapore anni sessanta poi tenta di darsi alla psichedelia prima di trasformarsi in un riff ostinato. L’effetto sitar della chitarra a me non piace, ma ci sarà chi lo apprezzerà. Anche in questo caso l’assolo termina in modo brusco. Al minuto 3:20 il cantante cita il Robert Plant di Four Sticks mentre al minuto 3:33 il chitarrista cita pari pari il Jimmy Page di No Quarter dal live The Song Remains The Same. (Mi riferisco a quella magnifica frase ripetuta più volte dal minuto 7:22 in poi del pezzo del 1973).

Lover, Leaver (Taker, Believer) è il secondo singolo, un hard rock senza particolarità e che probabilmente risente della influenza di Whole Lotta Love. Il chitarrista cita di nuovo Jimmy Page al minuto 1:40 (assolo di Black Dog da studio e di Stairway To Heaven live 1973) e al minuto 1:45 (riff di Nobody’s Fault But Mine). Dal minuto 2:40 poi i GVF ripropongono il riff di chiusura di Out On The Tiles sempre dei LZ. Poi la gente si infastidisce se vengono accostati costantemente al gruppo del dirigibile.

Con You’re The One le cose non migliorano.  Il pezzo è molto simile a Your Time Is Gonna Come dei LZ. Andamento acustico su tempo medio con tanto di organo. Il ritornello mette in imbarazzo.

Con The New Day mi trovo in uno stato in cui li ascolto solo per scoprire che riferimento zeppeliniano metteranno in campo stavolta. Magari esagero, ma anche qui mi sembra di sentire i Led Zep elettro-acustici di Over The Hills And Far Away.

Mountain Of The Sun è costruito su un buon giro rock blues disegnato con la slide guitar. In un primo momento mi ci ritrovo bene, sento qualcosa di famigliare ma mi godo il bel rock del pezzo. Poi mi sovviene la amara verità: il pezzo discende dall’inedito di LZII La La. Lo riascolto per capire se sono io che mi sto facendo suggestionare o cosa, ma la influenza di quella oscura outtake dei Led Zeppelin mi pare evidente.

Brave New World è un tempo medio che viaggia su coordinate epiche velate da contrappunti pieni di mistero. Verso la fine c’è un intermezzo dipinto di blues.

Il disco è chiuso da Anthem, ballata acustica. L’uso della steel guitar anche qui è sospetto, ma mi impongo di non cercare più tracce di piombo e cerco di godermi questo ultimo bel quadretto

Nell’album è compresa anche la versione più lunga di Lover, Leaver (Taker, Believer).


La copertina non è male e la produzione è discreta.

Riassumendo, non riesco a giungere ad un conclusione precisa. Il mio giudizio rimane interlocutorio. Mi piace come suonano, come si pongono, la baldanza che hanno, mi piace la musica che fanno (seppur rimanga convinto che manchi qualche pezzo di livello superiore), ma mi chiedo se questo mi sia sufficiente. Temo sembrino dei giganti vista la pochezza musicale dei nostri tempi e perché siamo disperatamente alla ricerca di qualcosa che ci faccia credere che il Rock sia ancora vivo. Intendiamoci, è un bel sentire, ma le analogie con i Led Zeppelin sono troppe perché un super fan del gruppo di Page come me non le noti.

Si capisce comunque benissimo che sono un gruppo americano (io ci sento anche il sound degli Allman Brothers, benché il gruppo provenga dal Michigan) e questo è un aspetto da non sottovalutare. Suonano hard rock ma hanno sfumature amabili e non troppo aspre, sono piacevoli da ascoltare anche quando non si è dell’umore adatto per darsi al rock duro. Hanno anche un bel nome, poi sono in quattro … la formazione che prediligo, e adorano il mio gruppo preferito. Avrebbero tutto per essere amati dal sottoscritto. In attesa di vedere se le nebbie si diradano, continuo a tenerli d’occhio.

 

I GVF sul blog:

hthttps://timtirelli.com/2017/08/13/greta-van-fleet/

LED ZEPPELIN MUST HAVE BOOTLEGS: “Going To California”, Berkeley 14/09/1971 (dadgad remaster)

2 Feb

ITALIANO /  ENGLISH

Dal 7 settembre 1968 (anche se abbiamo ne abbiamo le prove solo dal 30/12/1968) al 29 luglio 1973 i concerti dei Led Zeppelin sono, in un modo o nell’altro, quasi tutti spettacolari. Il gruppo era in palla, unito, tecnicamente al massimo, creativamente allo zenit, carico, risoluto,un’iradiddio insomma. All’interno di questi cinque anni favolosi ci sono periodi o date ancora più speciali e cosmiche che sono diventate famosissime tra gli appassionati. Il tour del 1971 in Giappone, il tour tedesco del 1973, il tour americano dell’estate del 1972, la data di Blueberry Hill (LA Forum 4/9/1970), la data di Three Days After (LA Forum 03/06/1973) e appunto la seconda data di Berkley del 1971.

Sta per uscire il IV, album che proietterà il gruppo ad altezze siderali, per una volta enorme successo e qualità della proposta vanno di pari passo. Bonham e Jones sono la miglior sezione ritmica rock in circolazione (sfido chiunque a dire il contrario), Plant canta come nessun’altro nel campo del rock di derivazione blues e Page suona da dio. Non ha ancora arricchito il suo chitarrismo con quei colori e con quel lessico tipici del periodo fine 1972/1973 (con  quell’uso ancora oggi ineguagliato della scala blues interpolata con la scala minore) ma il 1971 è probabilmente l’anno perfetto del Page chitarrista in senso stretto. Completo controllo dello strumento, tecnica straordinaria, originalità, attacco da paura, sperimentazione.

Il bootleg “Going To California” è un must, se si è fan dei Led Zeppelin lo si deve avere, punto. Il bootleg in vinile uscì la prima volta 45 anni fa e oggi ne parliamo grazie alla rimasterizzazione di dadgad, famoso fan dei Led Zeppelin molto abile nel ripulire e sistemare vecchie registrazioni della band. La registrazione è audience, non è roba per tutti dunque, ma la qualità è piuttosto alta e il tutto dunque è godibile anche per i casual fan (a patto che siano in confidenza con il concetto bootleg).

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

TITLE: Led Zeppelin:  “Going To California”  September 14 1971 Berkeley, CA, Community Theatre

LABEL: dadgad remaster

TYPE: audience

SOUND QUALITY: TTT½

PERFORMANCE: TTTTT+

BAND MOOD: TTTTT

 

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

Led Zep Going To Ca Berkeley 14-9-1971 DADGAD productions

SET LIST:

Immigrant Song, Heartbreaker, Since I’ve Been Loving You, Black Dog, Dazed and Confused, Stairway to Heaven, That’s the Way, Going to California, Whole Lotta Love (medley incl. Let That Boy Boogie, Hello Mary Lou, My Baby Left Me, Mess of Blues, You Shook Me)

Il Berkley Community Theatre tiene 3500 posti, sebbene fossimo solo nel 1971 la capienza era troppo bassa per ospitare un concerto dei LZ, così furono due le date in cui il gruppo suonò ( 13 e 14 settembre).

The Berkeley Community Theatre

The Berkeley Community Theatre

IMMIGRANT SONG irrompe con carica esplosiva, i Led Zeppelin sembrano controllare con grande professionalità la selvaggia irruenza che li contraddistingue nei pezzi di rock duro. Page arricchisce il brano con un assolo finale che fin da subito mette in chiaro che stasera non si scherza. Lo stop sul FA#, Jimmy che tira il sol sulla sesta corda e parte col riff di HEARTBREAKER. Durante le prime battute di questo pezzo la registrazione passa da mono a stereo e l’ascolto si fa subito più gradevole. Ascoltato in cuffia il concerto è una bomba. Bello l’assolo del nostro chitarrista preferito. Dapprima la torrenziale cascata elettrica, poi il siparietto bluesy con il pubblico che accompagna divertito e di nuovo la tempesta elettrica in puro stile Jimmy Page. Prima della parte veloce l’accenno strumentale al ragtime “The 59Th Street Bridge Song (Feelin’ Groovy)” di Simon & Garfunkel e Bourreée di J.S. Bach. L’entrata di Jones e Bonham è spaventosa, una forza d’urto incredibile. Impossibile non usare iperbole. I Led Zeppelin nel 1971 sono irraggiungibili.

RP: ... You came then? You should of come last night. Last night there were, um, several bowler hatted beatniks. Uh, ‘Since I’ve Been Loving You.’ …. You remember the last album? Right.

C’è un breve taglio all’inizio di SIBLY, ma poco importa, la chiarezza del suono si fa avanti, il gruppo suona con una decisione sublime. Di nuovo la batteria di Bonham che travolge, Plant che nel 1971 era quello preciso preciso dell’immaginario collettivo. Jones all’organo e alla pedaliera basso e quel tono di chitarra che tanto ci ammalia. Nell’assolo Page parte piano, sperimenta un po’ e poi rientra nei ranghi del pezzo. Non siamo a livello delle versioni del luglio 1973 come espressività e qualità dell’assolo, ma sentirlo suonare così è una beatitudine. E’ una notte speciale, si sente. Mai udito un’altra band di (hard) rock suonare così.

 RP: Thank you… I think we should call this, uh, ‘Black Dog’

BLACK DOG era allora un pezzo sconosciuto al pubblico, come ho detto LZ IV ancora non era stato pubblicato. La prova dei quattro musicisti è superlativa. Nella registrazione audience tutto è bilanciato. Fa impressione sentire Plant cantare in quel modo.

RP: Good evening. There was a pollution alert today and I’ve lost my voice. This is one from millions and millions of, uh, years ago. Just when the good things started, uh, checking itself out.

Con DAZED AND CONFUSED la stregoneria entra in scena. Il basso e la batteria sono in primo piano mentre Page evoca le energie dei misteri del cosmo con quegli armonici che si dilatano nel wah wah. La qualità delle registrazioni audience non sono forse adatte a tutti, ma è così che ci gode un bootleg, l’atmosfera è catturata in pieno in questa. In cuffia ti sembra di essere nelle prime file e ancora una volta ti sorprendi di cosa fossero i LZ. Il brano non ha ancora la struttura sinfonica completa della DAZED AND CONFUSED del 1973, ma si intuisce che il work in progress sta progredendo benissimo. Page prende in mano l’archetto, inizia a creare l’armageddon sonoro che conosciamo e il pubblico in delirio lo segue passo passo. Uno stregone e le sue migliaia di seguaci. Sentirlo in cuffia ti scombina l’animo, ti trasporta tra gli universi paralleli del rock. Le sonorità che Page riesce a creare spaventano, obnubilano il cervello, ampliano le percezioni della mente. L’intermezzo di violin bow in questo concerto è particolarmente riuscito, una delle prove migliori di tutta la carriera del Page “violinista”. Il botta e risposta con Plant è altrettanto spettacolare. Page invoca demoni e paure primordiali, quelle che gli esseri umani  nel corso di migliaia di anni si sono create nell’animo, e quando accenna Mars, The Bringer Of War di Gustav Holst, beh non ce ne è più per nessuno. Per una volta non bisogna saltare questa parte strumentale, qui a Berkley fu così efficace da irretire qualsiasi anima.

La cosa quasi incredibile di quegli anni è vedere come Page riesca a mantenere altissimo il livello delle improvvisazioni di chitarra anche verso la fine del pezzo, dopo 20 minuti di assoli e parti chitarristiche non dovresti più sapere cosa dire, lui no, anche dopo l’ultima strofa, prima della chiusura, invece di chiudere si mette ad improvvisare ancora con risultati sorprendenti. Purtroppo qui il finale termina bruscamente a causa di un taglio nella registrazione.

Intorno al minuto 15 Plant cerca di cantare BACK IN THE USA di Chuck Berry, il rock and roll classico su quelle intelaiature occulte sembra un ossimoro, l’effetto è curioso.

Led Zeppelin, Berkeley sept 1971

Led Zeppelin, Berkeley sept 1971

Cerco di immaginare cosa significasse per il pubblico ascoltare per la prima volta STAIRWAY TO HEAVEN (il IV album sarebbe uscito in novembre). Ogni tanto durante i primi movimenti si sente qualcuno urlare, deve essere stata una emozione inattesa trovarsi davanti ad un pezzo sconosciuto così bello. Alla fine è comunque un’ovazione. Quando entra Bonham il pezzo acquista quella corposità così magnifica da commuovere. Anche in questo caso l’assolo non è finemente strutturato come quello del 1973, ma rimane ugualmente valido.

RP: John Paul Jones, piano

STAIRWAY TO HEAVEN al momento è un pezzo come un’altro, il gruppo sa che è qualcosa di speciale ma lo posiziona nel mezzo della scaletta, ad esso segue il set acustico che inizia con THAT’S THE WAY.

RP: This is, uh, quite a moving night for me. And, uh, this is also another sitting down song, uh, and we don’t really like people squeaking too much, but it’s cool. This is, uh, this is a thing that got together, um, on a, I was gonna say the Scottish Highlands. I was gonna say the Welsh mountains. But I think it was something like, uh, The Gorham Hotel, West 37th Street, in New York. Here’s to the days when things were really, uh, nice and simple, and everything  was far out all the time. It’s no good clapping, ha ha. And on that theme, it’s not a very good cup of tea you get up here. On that theme, this is, uh, something. Thank you. This is a little thing that goes something like, uh. This is called ‘Going To California,’ which is, uh, somewhere around here. (And the flowers in your hair.) Wish I had. Thank you.

Si prosegue con GOING TO CALIFORNIA. Il pubblico ascolta attento e in silenzio, è l’incanto dato da un concerto dei LED ZEPPELIN: rock durissimo, momenti acustici delicati. Un trionfo anche in questo senso.

RP: Thank you. 

Alla fine arriva il piombo Zeppelin con WHIOLE LOTTA LOVE. Che differenza con il Page del 1977, qui il riff del pezzo è suonato come si deve. Di per sé non è difficile, ma va affrontato con i giusti accenti e convinzioni, qui presenti. Durante la sezione del Theremin si intravede ancora l’armageddon, sebbene qui tutto viri verso l’energia sessuale cosmica. Il medley è una meraviglia. Page e Plant da soli per BOOGIE CHILLUM e quindi raggiunti dalla band per una sfrenata versione di BOOGIE MAMA. L’assolo di Page durante quella sezione è uno dei miei momenti Zeppelin preferiti. Bonham e Jones (e che Jones!) che ci danno di swing e Page che mette in pratica tutto quello imparato da ragazzo. La rock and roll bonanza di HELLO MARY LOU, MY BABY LEFT ME (dovrei citare di nuovo tutti i componenti della band viste le magnifiche prove di ognuno) e MESS O’ BLUES, e quindi il possente blues inglese di YOU SHOOK ME con Page alla slide. La voce di Plant rimane potente, corposa e “altissima” anche alla fine di un concerto come questo. LEMON SONG non è altro che il proseguimento del blues di You Shook Me con parte del testo di TRAVELLING RIVERSIDE BLUES di Robert Johnson, quella dove si chiede ad una lei di spremere il limone sino a che il succo non scenda lungo la gamba. Il pezzo quindi chiude nell’approvazione generale. 24 minuti di rock, funk, sperimentazioni, blues, rock and roll. Fantastico!.

RP: Goodnight. Thank you

Io sono da sempre un fanatico della data del 3 giugno 1973, ma qui forse siamo nel punto più alto della storie dei LED ZEPPELIN. In caso inventino la macchina del tempo due biglietti per Los Angeles 1973 e qui a Berkeley nel 1971 me li compro, a costo di vendere le chitarre. Led Zeppelin, the fucking numer one!

(broken) ENGLISH

From 7 September 1968 (although we do have the evidence only from 30/12/1968) to 29 July 1973 the concerts of Led Zeppelin are, in one way or another, almost all spectacular. The group was fit, united, technically at best, creatively at the zenith, psyched, determined, as we say in Italy an iradiddio, the god’s ire in short. Within these five fabulous years there are periods or single shows even more special and cosmic that have become famous among fans. The tour of 1971 in Japan, the German tour of 1973, the  American tour of  the summer of1972, the date of Blueberry Hill (LA Forum 04.09.1970), the date of Three Days After (LA Forum 03/06/1973) and in fact the second date of Berkley in 1971.

The fourth album is gonna be released soon, it will project the group to starry heights, for once huge success and quality of the proposal go hand in hand. Bonham and Jones are the best rock rhythm section in circulation (I challenge anyone to say otherwise), Plant sings like no other in the field of blues-derived rock and Page played like a god. He has not yet enriched his guitar playing with the colors and the typical vocabulary of the period of late 1972/1973 (with that use of the blues scale interpolated with the minor one still unmatched) but 1971 is probably the perfect year of Page as a guitarist in the strict sense. Complete control of the instrument, extraordinary technique, originality, scary attack, experimentation.

The bootleg “Going To California” is a must, if you are a fan sof Led Zeppelin you must have it, period. The vinyl bootleg came out the first time 45 years ago and today we talk about the remastered version of it by DADGAD, a famous italian fan of Led Zeppelin very skilled in cleaning and remastering the band’s old live recordings. The recording is audience, this is not for everyone then, but the quality is quite high and therefore everything is enjoyable even for the casual fans (provided they are confident with bootleg concept).

The Berkley Community Theatre holds 3500 seats, although we were only in 1971 the capacity was too low to accommodate a concert of LZ, so  the band played two dates (13 and 14 September).

IMMIGRANT SONG bursts with explosive charge, Led Zeppelin seem to control with great professionalism the wild vehemence that distinguishes them in the hard rock songs. Page enriches the piece with a final solo and it immediately makes it clear that tonight they will take no prisoners. The stop on the F # low note, then Jimmy pulling the G note on the sixth string, and he starts the HEARTBREAKER riff. During the first few bars of this piece the recording changes from mono to stereo and the listening experience is immediately more pleasant. Listened through headphones, the concert is a bomb. Beautiful solo courtesy of our favorite guitarist. At first the torrential electric waterfall, then the bluesy entr’acte where the public accompanies amused the guitar player and again the electrical storm in pure Jimmy Page style. Before the fast part the instrumental reference to “The 59th Street Bridge Song (Feelin ‘Groovy)” by Simon & Garfunkel “and J.S. Bach’s Bourreée . The Jones and Bonham entry is frightening, they are an incredible force. I can’t help using hyperboles. Led Zeppelin in 1971 are uncatchable,.

RP: You came … then? You should of like last night. Last night there were, um, several bowler hatted beatniks. Uh, ‘Since I’ve Been Loving You.’ …. You remember the last album? Right.

There is a short cut at the beginning of Sibly, it does not mind sice the sound clarity through the blues is here, the group plays with a sublime decision. Bonham’s drums overwhelm, Plant in 1971 is precisely accurate the one of the collective imagination. Jones on organ and the bass pedal, plus the guitar tone that fascinates us so much. Page starts the solo in a slow way, he tries out a bit ‘and  and then he comes back within the ranks. It’s not the same level of July 1973 versions as expressiveness and quality of the solo, but to hear him play in this way it is a bliss anyway. It’s a special night, you feel it. Never heard another (hard) rock band playing that well.

RP: Thank you … I Think We Should call this, uh, ‘Black Dog’   

BLACK DOG was then an unknown piece to the public, as I said the fourth album had not yet been published. The work of the four musicians is superb. In the audience recording everything is balanced. It is impressive to hear Plant sings like that.

RP: Good evening. There was a pollution alert today and I’ve lost my voice. This is one from millions and millions of, uh, years ago. Just When the good things started, uh, checking itself out.

With DAZED AND CONFUSED the witchcraft comes into the picture. The bass and drums are in the foreground while Page evokes the energies of the mysteries of the cosmos with those harmonics that dilate into the wah wah. The quality of the audience recordings are perhaps not for everyone, but it is with them that we can enjoy a bootleg, the atmosphere is captured in full in this. If you wear the headphone it seems to be in the front row and once again you find yourself measuring what LZ were. The song has not the complete structure of the symphony of 1973 DAZED AND CONFUSED, but one senses that the work in progress is progressing very well. Page picks up the bow and began to create the armageddon sounds we all know and the mesmerized audience follows him step by step. A sorcerer and his thousands of followers. Hearing it with the headphones it messes up your mood and it push you thru’ parallel universes of rock. The sound that Page manages to creat scare, it obnubilatse the brain, it expands the perceptions of the mind. The violin bow interlude in this concert is particularly successful, one of the best of the “Page the violinist” whole career. The repartee with Plant is equally spectacular. Page invokes primal fears and demons, those that human beings have been created over thousands of years in their soul, and when he sketchess “Mars, The Bringer of War” by Gustav Holst well, there is no game. For once you should not skip this instrumental section, here in Berkley it was so effective that it ensnares any soul.

It’s almost incredible in all those years to see how Page manages to maintain a very high level of guitar improvisations even towards the end of the piece, after 20 minutes of solos and guitar parts he should no longer know what to say, instead even after ‘ last verse, before closing, he starts to improvise again with amazing results. Unfortunately, the finale here ends abruptly due to a cut in the recording.

At around 15:00 Plant tries to sing BACK IN THE USA by Chuck Berry, classic rock and roll on those hidden frames seems an oxymoron, the effect is curious.

I try to imagine what it meant for the public to hear for the first time STAIRWAY TO HEAVEN (the fourth album would be released in November). Every so often during the first few movements you hear someone yelling, it must have been an unexpected thrill being in front of an unknown piece so beautiful. In the end it is still an acclamation. When Bonham enters the piece acquires the magnificent fullness. Also in this case the solo is not finely structured like that of 1973, but remains equally valid.

RP: John Paul Jones, piano 

STAIRWAY TO HEAVEN is at this time a piece with a “normal” status, the group knows it is something special but they put it in the middle of the setlist and after it the acoustic set begins with THAT’S THE WAY.

RP: This is, uh, quite a moving night for me. And, uh, this is another Also sitting down song, uh, and we do not really like people squeaking too much, but it’s cool. This is, uh, this is a thing that got together, um, on a, I was gonna say the Scottish Highlands. I was gonna say the Welsh mountains. But I think it was something like, uh, The Gorham Hotel, West 37th Street, in New York. Here’s to the days When things were really, uh, nice and simple, and everything was let out all the time. It’s no good clapping, ha ha. And On That theme, it’s not a very good cup of tea you get up here. On That theme, this is, uh, something. Thank you. This is a Little Thing That goes something like, uh. This is called ‘Going To California,’ which is, uh, somewhere around here. (And the flowers in your hair.) Wish I had. Thank you.

It continues with GOING TO CALIFORNIA. The audience listens carefully and quietly, the charm given by a concert of LED ZEPPELIN is all here: hard rock and gentle and acoustic moments. A triumph also in this sense.

RP: Thank you.

The lead Zeppelin arrives with WHOLE LOTTA LOVE. What difference with the 1977 Page, here the riff is played as it should. It is not difficult, but it must be tackled with the right accents and convictions, both things are present here. During the Theremin section you get another sight of Armageddon, although here all veers toward the cosmic sexual energy. The medley is a marvel. Page and Plant alone for BOOGIE CHILLUM and then joined by the band for a wild version of BOOGIE MAMA. The Page solo during this section is one of my favorite Zeppelin moments. Bonham and Jones punp up the swing whiel Page puts into practice what learned as a boy. The rock and roll bonanza with HELLO MARY LOU, MY BABY LEFT ME (I should mention again all the members of the band after considering the magnificent evidence of each) and MESS O ‘BLUES and then the mighty British blues of  YOU SHOOK ME with Page on slide guitar . The Plant’s voice is powerful, full-bodied and “very high” even at the end of a concert like this. LEMON SONG is just the continuation of You Shook Me with some of the lyrics of Robert Johnson’s TRAVELLING RIVERSIDE BLUES, the part where you ask her to squeeze your lemon until the juice run down your leg. The piece then finally closes . 24 minutes of rock, funk, experimental, blues, rock and roll. Fantastic!.

RP: Goodnight. Thank you

I have always been a super fan of the gig of 3 June 1973, but here we have perhaps the highest point of the LED ZEPPELIN live history. If they invent the time machine I gotta buy myself two tickets: one for Los Angeles in june 1973 and one for Berkeley 14 sept 1971, I’d buy them anyway, at the cost of selling my guitars. Led Zeppelin, the fucking numer one!

 

CLASSIX! N.2 – anno 2003 (JOHNNY & EDGAR WINTER)

13 Gen

Inizio anni duemila, grazie a GIANNI DELLA CIOPPA comincio a scrivere su di una nuova rivista musicale, CLASSIX!, guidata da FRANCESCO PASCOLETTI. Questo il mio articolo su JOHNNY & EDGAR WINTER apparso sul n.2 dell’anno 2003.

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CLASSIX n 2 – anno 2003

Classix n2 anno 2003