Archivio | Special Guests RSS feed for this section

BILLY JOEL E LA ALLEGRA COMPAGNIA – di Massimo Bonelli

10 Mag
 In passato abbiamo pubblicato le storie di Rock del nostro amico Massimo Bonelli, questa su Billy Joel ci era evidentemente sfuggita altrimenti la avremmo passata a suo tempo, dato che veneriamo BILLY JOEL ormai dal 1977. E’ un doppio piacere dunque ospitare di nuovo sul blog MB.
“I’ve seen all the movie stars, In their fancy cars and their limousines …  And I don’t want to waste more time … I’m in a New York state of mind” … L’uomo del Bronx sapeva suonare il piano talmente bene, che lo poteva fare per mestiere e girare il mondo in limousine, senza mai dimenticare Broadway, Chinatown, il Riverside  e le mille luci della sua New York.
Billy Joel è l’uomo del piano;  i newyorkers gli sono grati per l’autentica poesia  “New York  State of Mind”, una delle più belle cartoline musicali della grande mela. Just The Way You are, Honesty, Uptown Girl sono le colonne sonore delle nostre docce o delle code in autostrada.
billy joel 3
A Milano, qualche anno fa, presentai una sua “Lesson” al pianoforte in un teatro stracolmo di artisti, musicisti e aspiranti tali. Con l’amico e collaboratore Chuck Rolando, ottimo musicista a sua volta, introducemmo Billy Joel che, dopo i saluti rituali, si accomodò al pianoforte e, prima di iniziare la sua lezione musicale, rivolto all’attentissimo pubblico disse:”Lo so che come prima cosa vorreste sapere cosa si prova ogni notte coricandosi al fianco di Christie Brinkley (la supermodella che era sua moglie all’epoca)… è semplicemente fantastico. Forse è questo il motivo per il quale ogni giorno, quando mi sveglio, scrivo le mie canzoni migliori. Ora parliamo di musica, della mia musica”.
billy & christie 2
L’apice dei vari episodi con Billy Joel avvenne  in una trattoria romana. Quella sera, dopo un suo spettacolo nella città eterna, andammo a cena in uno dei tipici ristoranti del centro di Roma. Uno di quei posti dove, più che la qualità del cibo o del vino, paghi l’atmosfera. Per una serie di coincidenze, ci trovammo intorno allo stesso tavolo, oltre che con Billy Joel, con la splendida e spiritosa Liza Minnelli, il palestrato Sylvester Stallone, il già citato Chuck Rolando, la mia amica e collaboratrice, un po’ inglese ed un po’ romana, Susan D. Smith ed ovviamente il sottoscritto.
Il clima della cena fu estremamente divertente e ricco di argomenti. Verso la fine, quando sul tavolo restarono da ripulire  principalmente bicchieri e bottiglie, fecero ingresso nel ristorante due stornellatori, ovvero quei musicisti che rendono omaggio alla propria città cantando sempre le stesse canzoni per la felicità dei turisti. In grado di riconoscere al primo sguardo Lando Fiorini o i Vianella, i due non si avvidero della presenza di Billy Joel e tantomeno di Liza Minnelli. Sicuramente ebbero il sospetto di riconoscere quello a capotavola: il pugile sì, quel Rocky.
Liza 2
Fu proprio Chuck che, con gentile ed educata  disinvoltura, sottrasse le due chitarre ai nuovi arrivati, una la consegnò a Billy Joel e l’altra la trattenne lui. A quel punto, partì una straordinaria sequenza di canzoni, magistralmente suonate da Chuck e Billy ed interpretate, oltre che da loro, anche da Liza Minnelli e noi a fare il coretto. I curiosi, con estrema difficoltà, cercavano di entrare nella piccola saletta dove ci trovavamo, altri ci seguivano dalla finestra. Tutti battevano il ritmo con le mani, inclusi  i camerieri ed il proprietario.
Dopo aver esordito con Arrivederci Roma, si susseguirono Uptown Girl, Love the one you’re with, Helter Skelter, We didn’t start the fire, Suite Judy Blue Eyes, New York New York e ovviamente New York State of Mind e Billy Joel diede dimostrazione di essere anche un ottimo chitarrista.
I due stornellatori erano felici, non avevano capito chi cantava, ma erano certi che se tutta questa gente avesse cantato in italiano sarebbe stata quasi quasi come i Ricchi e Poveri, la brunetta era naturalmente Liza Minnelli.
Nonostante tutta l’allegria e l’allegra compagnia, il proprietario e il conto salato arrivarono lo stesso:- ” Capo, l’atmosfera la devi pagare, anche se te la sei creata. Con la mente puoi stare a New York, ma i soldi li lasci qui”. Io timidamente risposi:-“Ma non sono un turista, non arrivo da New York”. Billy passò cantando:
“I’m just taking a Greyhound
on the Hudson River Line
‘Cause I’m in a New York state of mind.”

billy joel 2

Massimo Bonelli

Ex Direttore Generale della Sony Music, ha trascorso 35 anni nel mondo del marketing e della promozione discografica, sempre accompagnato da una grande passione per la musica. Lavorava alla EMI quando, in un periodo di grande creatività musicale, John Lennon, Paul McCartney e George Harrison hanno iniziato produzioni proprie di alto livello e i Pink Floyd hanno fatto i loro album più importanti. Sino a quando, con i Duran Duran da una parte ed il punk dall’altra, è arrivato il decennio più controverso della musica.In CBS (più tardi Sony), ha contribuito alla ricerca e al lancio di un numero considerevole di artisti, alcuni “mordi e fuggi” come Spandau Ballet o Europe, altri storici come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Cindy Lauper, Franco Battiato, George Michael, Claudio Baglioni, Jovanotti, Pearl Jam, Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e tanti altri…Si fatica davvero a individuare un artista con il quale non abbia mai lavorato, nel corso della sua lunga vita tra pop e rock.

Incontrare il signor Baldwin all’areoporto – di Claudio Cerutti

23 Mar

Il nostro lettore Claudio Cerutti mi manda questo veloce report sull’incontro di qualche giorno fa avuto col vecchio John Paul Jones.

Città del Messico qualche sera fa, imbarco del volo BA per London Heatrow Mi sto aggirando stancamente in cerca della fila per l’imbarco prioritario quando il mio sguardo è attirato da un signore piuttosto anziano con consorte, entrambi vestiti in modo dimesso, che si sta avvicinando al gate. Sul trolley un mandolino, nella sua custodia. Il cuore è stato più veloce del cervello, dà un colpo di pedale poderoso e nel giro di un secondo ho cominciato a sentire la sudorazione aumentare.

Quante volte ho pensato quale sarebbe potuta essere la mia reazione se avessi incontrato uno di loro, quale atteggiamento avrei dovuto tenere, quali domande pertinenti avrei dovuto fare e invece niente, mi sono fiondato verso quell’uomo con il cuore in gola senza pensare a niente

“John Paul? John Paul Jones?” gli faccio, e inizio a pensare in inglese.

He looks at me, I guess trying to remember if he knows me.

“Yes, who are you?’”

“I’m a great LZ fan, it is a profound honor for me to meet you! I think I just want to thank you for the music you delivered to us. It has been so important for me, you guys have influenced my entire life. Thank you!”

He smiles, “Thank you, where you from?”

“I’m from Milan”

Strange smile, I speculate memories of Vigorelli 71 surfaced. Then, after a few seconds of silence, pointing at the mandolin case

“Were you here for playing?”

“No no, not at all, I always travel with an instrument

“And you madam, you don’t have a clue how many times I have been watching you cutting that tomato”

Smile. Right after, my big mistake, looking at JPJ “Do you mind if I take a picture with you?”

“I would prefer not, with all this people around”

“Ok I understand, I’m sorry”

That was it, they turn their back on me, and we slowly enter the plane. I recall his real name as the stewart said “ welcome on board Mr Baldwin”

As they were to seat in business class and I had to come across them to reach my seat, I said “ Have a good flight, John Paul”

“ Thank you”

Tutto qui, avevo bisogno di raccontarlo subito a qualcuno. Ho pensato a te. Sono felice come un bambino.

©Claudio Cerutti 2017

Laura Marling “Semper femina” [Kobalt 2017] di Bodhran

22 Mar

Il nostro Bodhran oggi ci parla del nuovo album della cantautrice Laura Marling.

Laura Marling pare instancabile: debutta su disco a 18 anni nel 2008, e dal 2011 pubblica con regolarità un album ogni due anni senza il minimo accenno ad alcun calo di ispirazione; piuttosto, ad ogni nuova uscita, pare aggiungere qualche ingrediente che ravviva una ricetta tutto sommato semplice: canzoni folk che oscillano tra la tradizione d’Inghilterra e la California hippie del Laurel Canyon. Jimmy Page nel 2013 l’ha annoverata tra gli artisti dell’anno, spendendo parole di elogio per voce, scrittura e tecnica chitarristica dell’album dell’epoca “Once I was an eagle” (per chi scrive, ad oggi, il suo disco più bello).

L’album pubblicato da pochi giorni, il sesto in carriera, si intitola “Semper Femina” ed è un concept sul mondo femminile e le sue vulnerabilità e segue il progetto “Reversal of the Muse – an exploration of femininity in creativity”, una serie di podcast in cui la Marling ha intervistato produttrici musicali, ingegnere del suono, giovani cantautrici come Marika Hackman e leggende quali Dolly Parton e Emmylou Harris. Non bastasse, questa ragazza di nobile famiglia dell’Hampshire (figlia del quinto baronetto in casa Marling) ha trovato tra i due album anche il tempo di scrivere le musiche per la messa in scena all’Almeida Theatre di Londra di “Mary Stuart” di Schiller.

A proposito di Semper Femina ha dichiarato: “Ho cominciato a scriverlo come se un uomo stesse scrivendo a una donna. Poi ho pensato che non ci fosse bisogno di fingere. Non avevo bisogno di pensarmi uomo per giustificare l’intimità con cui stavo osservando e riflettendo sulle donne”

E così, con queste premesse, l’album si compone di 9 canzoni che starebbero bene in piedi anche solo nella versione chitarra e voce e che invece, grazie alla produzione molto ariosa di Blake Mills (sarà la stagione ma mi sembra un disco molto arioso e “primaverile” nei suoni) si colorano grazie al resto della strumentazione.

Da una parte la dimensione acustica resta quella a cui la Marling ci ha abituato anche nei dischi precedenti: The Valley, Next Time, Wild Once, Nouel sono brani delicatissimi, in cui la magia è spesso rafforzata dagli archi, che in questo disco si prendono il loro spazio, ben arrangiati da tal Rob Moose: provare The valley e Next Time per credere.

Dall’altra ci sono canzoni più folk-rock in cui la band si fa sentire come ad esempio la quasi Dylaniana “Wild Fire”.

Le novità invece sono nelle atmosfere ancora non sentite del brano di apertura, “Soothing”, in cui, su di un groove molto morbido di percussioni, la fanno da padrone linee di basso acustico ed elettrico che si intrecciano e sciolgono di continuo e “Don’t pass me by” in cui la ritmica è affidata ad una linea di drum machine (molte recensioni rimandano a “Babe I’m gonna leave you”, ma questo mi sembra un paragone che sta poco in piedi, a parte la ben nota e comune scala di basso discendente).

La chiusura poi è affidata al pezzo più elettrico e più americano dell’album, “Nothing, not nearly”.

L’edizione deluxe del disco vede anche un secondo album in cui l’intera tracklist viene proposta live con la band in formazione classica – chitarra, basso e batteria – non senza nuovi arrangiamenti.

Facile fare il paragone con nomi del passato (Joni Mitchell su tutti) ma Laura Marling, oltre a possedere una voce di rara bellezza, ha personalità e scrittura tutte sue ed è difficilmente liquidabile come l’ennesima nostalgica riproposizione di musica già sentita.

Detto questo, spero ci scappi finalmente una data del tour in Italia, paese in cui la Marling non ha mai suonato.

Per chi vuole farsi un’idea dei pezzi su Youtube ci sono tre video realizzati per l’album, diretti dalla stessa Marling: Soothing, Next Time e The valley

Breve riflessione su ZEIT dei TANGERINE DREAM – di Paolo Barone

27 Feb

Io e Polbi, benché spesso ci separi un intero oceano o un intero stivale di terra, siamo sempre in contatto: telefono, messaggeria facebook, sms (whatsapp no perché Barone è uno dei due o tre esseri umani ancora senza smartphone). Ci scambiamo impressioni, timori, riflessioni su questa porca vita, sulla musa par excellence (la musica insomma, lo dice la parola stessa),  sul mistero in cui – in quanto particelle dell’umanità – siamo immersi (di calcio no, al Michigan Boy non interessa purtroppo). Siamo amici insomma, in senso stretto.

Led Zeppelin III, side one, track 2

Led Zeppelin III, side one, track 2

L’altra sera, perso nei miei blues più feroci, ricevo un messaggio dove mi dice che anche lui è rimasto molto colpito dalla scoperta dei sette esoplaneti del sistema TRAPPIST-1

http://www.repubblica.it/scienze/2017/02/23/news/spitzer_il_telescopio_che_ha_scoperto_i_sette_esopianeti-159039871/?ref=HRLV-23

Me lo scrive perché in un mio post a tal proposito, su facebook, mi dicevo allibito nel leggere commenti di amici a cui questa scoperta frega meno di niente. Ci mettiamo a commentare brevemente questa cosa, poi io includo il link a STAIRWAY TO THE STARS dei BLUE ÖYSTER CULT:

◊ ◊ ◊

◊ ◊ ◊

Lui mi risponde con “Io mi perdo a pensare ad oceani sconosciuti persi nel vento delle stelle….Giuro, mi sono ascoltato 20 minuti da Zeit dei Tangerine Dream pensando a questa meravigliosa scoperta. Che roba. Si, apre futuri totalmente diversi.” e poco dopo, mi manda la riflessione che trovate qui sotto. Sì, lo so, è una space oddity questo post, ma io e Polbi oltre ad essere uomini di blues siamo anche due starmen, e quindi…

zeitfront

Per una volta scordatevi tutto. Lasciate perdere la musica, le canzoni, la vita su questo pianeta e partite in un viaggio astrale con Zeit dei Tangerine Dream. Zeit vuol dire Tempo ed e’ il disco, o per meglio dire il “mezzo”, piu’ cosmico che esseriumani abbiano mai fatto. Un immersione totale nelle profondita’ piu’ remote dello spazio profondo, un esperienza ultraterrena.

Prendete una copia in cd per ascoltarlo senza dover fare cambio di astronave fra una facciata e l’altra, e poi magari procuratevi anche il vinile per godervi la splendiada copertina fatta dallo stesso Forese. Ascoltatelo come vi pare, sullo stereo ad alto volume sprofondati nel suono, oppure in macchina o mentre fate le faccende per casa, non ha nessuna importanza il come, sara’ sempre un esperienza pazzesca.

Preparatevi a 70 e passa minuti di paesaggio interstellare, costellazioni oscure e minacciose, lande desolate e tramonti in galassie inesplorate. Zero musica, nessuna melodia, ma i suoni dello spazio profondo registrati con l’ecoscandaglio astronomico dei Tangerine con synth, organi e archi. Nell’equipaggio all’inizio e’ imbarcato anche Florian Fricke dei Popol Vuh con il suo gigantesco Moog preistorico. Ci spalanca le porte di un buco nero nel brano iniziale, e poi sparisce per sempre insieme a un misterioso quartetto d’archi extraterrestre, per lasciarci proseguire da soli con i tre Forese, Baumann e Franke ormai fuori da ogni mappa cosmica.

Nei momenti giusti i piu’ coraggiosi psiconauti hanno affrontato Zeit in un unico lungo viaggio senza soste, ma potete anche fermarvi fra i quattro lunghi brani che lo compongono e riprendere il volo in un altro momento. Potete leggere mentre guardate pianeti giganteschi passarvi accanto dal finestrino, oppure dormire un po’ cullati dalle pulsazioni soniche. O restare incollati ai comandi dell’astronave che ormai viaggia senza controllo, sospinta dal vento delle stelle verso un naufragio omerico.

Potete fare quello che volete con Zeit, tanto e’ un disco che non si riuscira’ mai ad esplorarlo davvero, nemmeno dopo anni. E poi i titoli dei brani: Birth of Liquid Plejades; Nebulous Dawn; Origin of Supernatural Probabilities; Zeit…Non c’e’ un cazzo da fare, questo non e’ un disco ma un universo a se’ che solo Dieter Dierks poteva registrare nel suo leggendario studio di Colonia.

Probabilmente il disco(?) piu’ singolare e misterioso che ho ascoltato e posseduto in tutti questi anni.

Paolo Barone©2017

◊ ◊ ◊

◊ ◊ ◊

Blue note blues: gli effetti che certe canzoni hanno sugli uomini di blues di una (in)certa età – di GC

23 Feb

Il nostro GC riflette sugli effetti che certi canzoni, certi testi, certi assolo hanno su di noi, e mentre lo fa non può che riconoscere che as time goes by il nostro animo tende spesso sempre più alla tenerezza. Sì, questo un il blog per l’uomo di blues, avevate qualche dubbio?

 

Con una frase tanto scontata quanto banale, potrei dire che… “il rock and roll mi ha salvato la vita”. Una passione bruciante, un deliquio giovanile, trasformato negli anni in una parvenza di lavoro professionale. Un modo come un altro di vivere. Un lavoro improvvisato, che non ha avuto maestri, che mi sono inventato da solo, con tanta faccia tosta e una notevole dose di culo. Perché le sliding doors, i casi della vita, esistono. Sono quelli che fanno sì che uno studente universitario abbia la possibilità di lavorare in strutture dove solo i qualificati, o i raccomandati, riescono ad arrivare. Ed io non ero, non sono, né l’uno, né l’altro. Un uomo fortunato, un abile truffatore, un mestierante astuto in mezzo a una pletora di capre ignoranti, cascate lì per velleità o desiderio di fama. O presunzione, millantatori sfacciati dalla doppia vita : una reale ed una cui aggrapparsi per credere di essere ciò che non si sarà mai. E in mezzo alle capre, anche un pollo può fare la sua figura. Non importa esattamente quale sia l’ambiente, non è di questo che vorrei parlare. Penso solo, molto spesso, che fine avrei fatto se non avessi amato quelle note, se non mi fossi inventato un modo di sopravvivere…chissà. Ma neppure questo è importante. Vorrei riflettere d’altro. Come se davvero fossi da solo, come sono davvero in questo momento.

alone

Non sto effettivamente scrivendo, sto solo cercando di fissare i miei pensieri su uno schermo con la speranza di capire cosa mi stia succedendo, per realizzare se sia l’unico ad avere certe…reazioni. Forse mi accade perché parlo sempre meno. Anche di musica. Perché trovo sempre più superfluo scriverne. Perché non ho contraddittorio o perché ho sempre avuto difficoltà a esprimere i miei sentimenti, qualunque essi fossero. O perché con il tempo le reazioni cambiano, si raffinano, diventano come piccoli bisturi che sezionano i tuoi pensieri, specialmente quando provi a raccontarli, a voce, a qualcuno. Chiunque esso sia. La verità è che mi riesce sempre più arduo, raccontare anche i miei più banali perché al mio interlocutore. Non riesco più a dire quel che provo senza scivolare, perdere equilibrio, senza trovarmi un nodo alla gola che imbarazza me e chi mi ascolta.

C’è stato un tempo in cui mi succedeva quando ero solo. Ascoltavo un brano che amavo in modo particolare e ad occhi chiusi, muovendo le mani, inventando assolo immaginari con le mie mani, sentivo letteralmente alzarsi i peli delle braccia, un brivido lungo la schiena, una frazione di secondo mi scuoteva mentre davanti agli occhi mi passavano dozzine di frame, di frasi dette e dimenticate, di episodi quasi non vissuti. Ma reali. Ma ero solo, potevo. Certamente, mi domandavo se quei micro-orgasmi acustici fossero comuni ad altri, se tanti, come me, vivessero certe sonorità come una esperienza letteralmente fisica. E per assecondarmi mi dicevo sempre di sì. Sono sempre stato rassicurante con me stesso. Era sempre e solo il potere della Musica.

potere-della-musica

Adesso, però, l’asticella si è alzata. Posso solo dire che non mi accada sempre, ma la frequenza con cui mi trovo a combattere con il Mostro Cattivo che mi vuole veder balbettare è sempre più ravvicinata. No, non riesco più a spiegare, a raccontare, a descrivere certe cose senza trovarmi a lottare con un groppo alla gola. La voce si spezza, tossisco per camuffare, sento le lacrime negli occhi, sono costretto a evitare le parole che sarebbero adatte e a ricorrere invece a futili banalità, asciocche perifrasi per descrivere quello che, al contrario, vorrei far risaltare. Quello che per me, merita di essere compreso, assimilato in tutta la sua bellezza. Mi commuovo, insomma. Vengo assalito da una avvolgente nostalgia, dalla paura di esprimermi, fatico ad andare avanti…come descrive Gaber nel suo “L’anarchico”… “A un certo punto ho sentito una sporca dolcezza, una schifosa pietà prendermi alla nuca e anche alle gambe”…ma mentre lui, l’Anarchico, sviene, io resto in piedi, con il mio imbarazzo.

 

La prima volta fu alcuni anni fa, quando, ascoltando “Wish you were here” e sentendola descrivere come la canzone della mancanza, tentai di spiegare che, per me, era invece il brano del disastro esistenziale, del fallimento assoluto, della rovina psicologica, del racconto di chi non aveva saputo dire le parole giuste e le cercava quando era ormai troppo tardi. E ricordo perfettamente che la mia emozione venne scambiata per uno specifico ricordo personale. Comodo, ma forse non era proprio così.

Mi accadde ancora, e ancora, con testi e musiche più disparate… Mina, Dylan, Young. Cento altri. Ricordo ancora che un giorno, qualche anno fa, attraversando il cimitero dove riposano i miei, capitai per caso davanti alla tomba di un poeta e chansonnier locale, uno bravo. Non mi angosciano i cimiteri, anzi, a volte, quando ho tempo, li attraverso, cercando qualche amico, qualche volto che ho incontrato negli anni. Ma quando lessi l’iscrizione sulla lapide, una frase checon mio padre avevo ascoltato cento volte, in viaggio in auto, scappai via per non perdere l’equilibrio. Ma c’è di peggio. Pochi giorni or sono, traducendo per caso la introduzione di “Got to give it up” dei Lizzy fui costretto a chiudermi in bagno, per pochi secondi, prima di tornare a raccontare che, sì, quella canzone era l’ammissione della resa, la speranza di una sopravvivenza che non ci sarebbe stata, la sfida alla propria guerra personale. Persa. Avevo somatizzato una battaglia non mia.

Ma è durissimo. E difficile sapere di potersi trovare, in un attimo, con quel rospo in gola che ti assale e ti lascia lucidissimo, ma altrettanto debole. Indifeso e trasparente. Come se in quel momento i ricordi e le memorie di una vita, senza manifestarsi, decidessero, tutte insieme, di venir fuori lasciandoti nudo come un verme davanti al giudizio altrui. No, non riesco più, in certi giorni, ad ascoltare l’assolo di Watermelon e spiegarne l’essenza del contenuto a chi ho davanti,

o ad affrontare quello di Confortably Numb; non ce la faccio a sentire Page che schiaccia il pedale o ascoltare Rory che dipinge il suo bar vuoto, con la chitarra. Sono diventato… “un caruso debole”, come direbbe un mio amico siciliano e non è sempre possibile mostrarsi per ciò che si è. O si è divenuti.

Cerco di giustificarmi, di dare una spiegazione razionale a tutto questo. La razionalità è sempre nemica delle emozioni. E mi dico che è il trascorrere del tempo, l’invecchiare, che ci fa venire a galla quei ricordi che non aspettano altro di aggredirti non appena mostri il fianco. Ma in questi ultimi tempi mi accorgo di emozionarmi anche per…un film, una frase, una fotografia, un oggetto che riemerge da un cassetto, un brandello di vita che, chissà perché e chissà come, sbuca dalla fossa del nulla dei ricordi e ti si aggrappa alla gola.

Mi sforzo di capire perché, ad esempio, parlando con una amica del rapporto che legava Dylan alla Baez e poi alla moglie Sara, scivolo sul testo di “Diamonds and rust” e mi blocco, non riesco a spiegare come e perché per me quei ricordi della Baez siano la cristallizzazione del dolore assoluto, della perdita della persona più amata, quella per cui “moriresti lì ed in quel momento”…semplicemente ricordando una passeggiata al freddo. Così deglutisco e faccio uno sforzo immane per non chiudere gli occhi, pieni di lacrime che mi sembrano sempre più incomprensibili.

O forse no. Forse sono scampoli di vita che chissà come e perché si sono legati a note, parole emozioni aliene e che sono divenute, per qualche scherzo inconsapevole del destino, elementi scatenanti di ricordi che credevi di aver rimosso : la musica come archivio subliminale della tua stessa vita. Forse è solo perché ti rendi conto che ti sta volando via sotto il sedere anche se ti senti ancora un ragazzino. Così scelgo di non provare più a commentare quello che ascolto, di non spiegare più a nessun estraneo il come ed il perché di una storia che per me ha avuto, ed ha sempre più, un ruolo importante in quel mosaico casuale che è la mia esistenza. Tengo tutto per me, nascondo, fingo di dimenticare, mi sforzo di non riflettere. Ed esattamente come “l’Anarchico” di Gaber gioco con la mia finta cattiveria, divenuta infine una tenera pietà, truffando ancora una volta me stesso. Ed ancor più precisamente, proprio come il personaggio di “If you see her say hello” di Dylan, rivivo il mio passato, attraverso la musica, avendone nel cuore ogni immagine, che è volata via troppo velocemente. Ha ragione il Bob : “Non mi sono mai abituato, ho solo imparato a nasconderlo… al tempo stesso sono troppo sensibile o sto diventando tenero”…ecco…un’altra canzone di cui sarà bene non trovarmi mai a parlare in pubblico… Cercherò di convivere con questa piccola maledizione, con questa schifosa tenerezza che sta diventando la mia compagna di ogni giorno e, lo giuro, ascolterò e farò ascoltare ai miei ospiti occasionali solo dozzinali ritmiche, toste e prive di qualsiasi appiglio alla vita che purtroppo ci rende così stupidamente trasparenti e aggredibili con il suo profumo di nostalgia irripetibile. Continuerò a commuovermi da solo, davanti a quella inevitabile consapevolezza della semplicità delle nostre vite che la stupidità della gioventù mi aveva nascosto. Senza sapere se tutto questo accada anche ad altri. Non importa. O forse sì.

GC©2017

The Lunatics: storie, bizzarrie e fasi lunari dei PINK FLOYD di Paolo Barone

20 Feb

Una riflessione del nostro Polbi sul lavoro dei THE LUNATICS a proposito dei PINK FLOYD.

Tutti i paesaggi pongono la stessa domanda con lo stesso sussurro: Io sto guardando te – tu ti riconosci in me? ( Laurence Durrell)

Ho incontrato i Lunatics per la prima volta a Roma, all’Auditorium della Conciliazione, in una serata che loro e Guido Bellachioma avevano organizzato per celebrare Atom Heart Mother. Ero rimasto molto colpito dalla mostra che avevano allestito nel salone dell’Auditorium e in particolar modo ancora ricordo una copia originale del poster di 14th Hours Technicolor Dream, una meraviglia che non avevo visto mai, nemmeno nella esibizione ufficiale dei Pink Floyd a Parigi. Scambiai poche parole complimentandomi con loro e acquistai il loro primo libro, Storie e Segreti.

The Lunatics Pink Floyd Storie e Segreti

The Lunatics Pink Floyd Storie e Segreti

Leggerlo fu una sorpresa,  per certi versi il libro piu’ interessante che avessi mai letto sulla Band. Ricchissimo di approfondimenti sulle molte vicende Italiane dei Pink Floyd, ma anche in grado di seguire una cronologia fatta di piccole scoperte e storie poco note, il tutto corredato da foto e interviste mai banali, capaci a loro volta di aprire altrettante strade e riflessioni nel mondo Floydiano. Insomma, un inaspettato capolavoro, che per quanto ne so e’ anche il frutto di un anomalia nel panorama dell’editoria Rock. Non mi viene in mente nessun lavoro collettivo portato avanti da un gruppo di appassionati, che abbia prodotto risultati di questo livello e spessore.

Non un classico fanclub, ma un piccolo gruppo di collezionisti, esperti e studiosi del Fluido Rosa i Lunatics sono Nino Gatti, Stefano Girolami, Danilo Steffanina, Stefano Tarquini e Riccardo Verani. Ormai una vera autorita’ internazionale nel campo, hanno realizzato molte mostre, convegni, interviste, trasmissioni radio e concerti, ma soprattutto hanno pubblicato per Giunti tre volumi fondamentali. Lo splendido Storie e Segreti di cui sopra, Il Fiume Infinito – un analisi accurata di ogni brano prodotto dai Pink Floyd dalla nascita ad oggi, e ora il loro ultimo lavoro: Pink Floyd a Pompei – Una Storia fuori dal Tempo.

The Lunatics Pink Floyd A Pompei

E’ un libro riuscitissimo che ogni appassionato di musica Rock e/o Arte contemporanea dovrebbe leggere.

Perche’ il film Pink Floyd at Pompeii e’ a tutti gli effetti uno splendido lavoro di arte contemporanea piu’ di ogni altra cosa. Pensato, realizzato e fortemente voluto dal regista Adrian Maben, si colloca molto piu’ logicamente fra le opere di Christo o le pellicole piu’ anomale di Herzog che nell’ambito dei film Rock.

I Lunatics riescono a raccontare insieme allo stesso Maben di quest’opera senza tempo, attraverso quasi duecento pagine che ci accompagnano nei momenti piu’ famosi e negli angoli piu’ nascosti e affascinanti di questa storia. Si viaggia nel tempo, il principale protagonista di questo lavoro, e ci si sposta fra Italia, Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti, seguendo le avventurose vicende di questa pellicola che pur essendo un opera di Maben, non sarebbe mai potuta nascere senza il determinante contributo di moltissime persone sparse per il mondo. Il libro ce le racconta in prima persona, con interviste e schede biografiche, ci racconta delle loro storie e di come Live at Pompeii abbia attraversato e cambiato le loro vite professionali e umane.

Un opera in continuo mutamento ed evoluzione Live at Pompeii, che per ammissione dello stesso Maben non sappiamo ancora se abbia raggiunto uno stato definitivo con il Director’s Cut, o se verra’ ancora ritoccata nel prossimo futuro, rivendicando da parte del regista il diritto di ogni artista a tornare a lavorare sulle sue cose, in ogni modo e tutte le volte che ne senta il bisogno.

Ma questa oltre che una vicenda di umani e’ anche e molto una storia di un luogo sospeso nel tempo, Pompei. “ Tutti i paesaggi pongono la stessa domanda con lo stesso sussurro ‘ io sto guardando te – tu ti riconosci in me?’ .

Seguendo il senso di questa frase di Lawrence Durrell, catturata in un appunto del regista Adrian Maben nella sua casa nel cuore di Parigi, i Lunatics ci aiutano a vedere come Pompei stessa oltre ad essere la naturale protagonista del film, abbia accolto i suoni dei Pink Floyd e ne sia stata poi a sua volta in parte cambiata, e proiettata in una dimensione differente che ancora oggi risuona nelle pietre del suo anfiteatro.

C’e’ molto amore in queste pagine, e lo si percepisce in ogni frase. Non ci sono elenchi noiosi, schede tecniche e riflessioni distaccate. E’ un lavoro emotivo dall’inizio alla fine, e forse questo oltre al gigantesco lavoro di ricerca e’ il suo vero punto di forza.

Ci si riconosce in questo libro, forse diventato un paesaggio anche lui; si segue un percorso con dei passaggi e delle sensazioni nostre, e ci si ritrova davanti a molte suggestioni che tutti abbiamo provato vedendo questo film, visitando Pompei, o anche soltanto, a volte, ascoltando il silenzio, il suono del vento in qualche posto particolare.

E’ bello leggerlo e poi guardare il Dvd che avevamo a casa, con uno sguardo ora inevitabilmente diverso.

I Lunatics hanno un sito internet thelunatics.it e una pagina Facebook molto attiva.

I loro libri pubblicati da Giunti sono facilmente reperibili in tutte le librerie e su Amazon.

NB: mercoledì sera 22 febbraio 2017 i LUNATICS saranno ospiti del nostro amico DONATO ZOPPO su RADIO CITTA’ BENEVENTO. Qui sotto il link con i dettagli.

http://www.donatozoppo.it/news/rock-city-nights-n-27-wednesday-rock-on-air-mer-222/

 

The Lunatics Pink Floyd Il Fiume Infinito

The Lunatics Pink Floyd Il Fiume Infinito

GREG LAKE EPITAPH di Beppe Riva

11 Dic

Due parole sulla dipartita di Greg Lake dal nostro special guest.

Ricordo bene la prima volta che vidi il film “Pictures At An Exhibition” degli ELP, appena uscito in Italia, dove erano già popolarissimi. Mi trovavo in gita scolastica a Roma e letteralmente scappai per assistere alla prima visione in un cinema della capitale…Rimasi colpito dalla sequenza dove Greg Lake, interrompendo per qualche attimo la maestosa reinvenzione di Mussorgsky, incastonava la sua gemma acustica “The Sage”, interpretata da quella meravigliosa voce da “choirboy” (come diceva il venerabile critico Chris Welch) ed arricchita da altrettanto preziosi arpeggi barocchi: Greg e la sua chitarra acustica…Subito dopo la telecamera indugiava sul pubblico, inquadrando i ragazzi immobili che lo osservavano, come ipnotizzati dal magnetismo del grande artista. Questa era anche l’immagine di un’epoca dove il rock non era solo legittimo scuotimento fisico, ma apertura verso nuovi orizzonti creativi, che inducevano alla meditazione, all’ascolto in mistico silenzio.

◊ ◊ ◊

◊ ◊ ◊

E Greg Lake ha sempre costituito il perfetto contraltare dell’incontenibile furore espressivo di Keith Emerson che aggrediva le tastiere, incalzato dal drumming tornado di Palmer. Le sue leggendarie canzoni folkeggianti, dall’epocale “Lucky Man” a “From The Beginning”, hanno contribuito in modo davvero determinante all’unicità del supergruppo per eccellenza, rendendolo più accessibile al grande pubblico, laddove non giungevano le acrobazie virtuosistiche di Keith.  Il taglio melodico di Lake era straordinariamente rappresentativo anche quando non si “isolava” in una dimensione acustica. “Take A Pebble”, con quella superlativa, lirica punteggiatura di basso a rincorrere le divagazioni pianistiche di Emo, è un leggiadro concentrato di arte pura che qualsiasi “studente” di storia del rock dovrebbe conoscere;

Elp first album - courtesy of the Beppe Riva Collection

Elp first album – courtesy of the Beppe Riva Collection

“Battlefield”, cesellata dalla sua turgida chitarra elettrica, è l’epico vertice di “Tarkus”, la suite più ambiziosa e diversificata a livello compositivo mai scritta.

◊ ◊ ◊

◊ ◊ ◊

Tim, caro amico, si preoccupa che il talento di Lake sia più riconosciuto per la sua militanza nei primi Crimson che negli ELP…Vorrei rassicurarlo, per me non è cosi. Comunque ci conforti sapere che un gruppo imprescindibile come i King Crimson, ha si realizzato grandi album dopo che Greg se ne era andato, ma mai nessuno con l’affascinante e seminale afflato sinfonico del classicissimo “In The Court” o di “In The Wake Of Poseidon”: certamente perché Fripp era un artista che aspirava a nuove sfide espressive, altrettanto certamente perché Lake ha contribuito in modo fondamentale, anche in qualità non riconosciuta di produttore, all’esordio dei Crimson.

Greg Lake

Greg Lake

Inutile aggiungere che le sue peculiarità di produttore sono emerse in modo eclatante con gli ELP (ascoltate la forza tuttora immacolata del loro sound) e che il personaggio ha fatto la sua parte trasformando soprattutto la PFM, ed anche Il Banco, in un fenomeno d’esportazione del prog italiano, sotto l’egida Manticore.

Concludo ricordando che Greg ha elargito momenti significativi anche negli anni ’80, certo molto più di nicchia, ad esempio  il sodalizio con un chitarrista del calibro di Gary Moore, la fugace apparizione live negli Asia, un album dai seducenti tratti AOR (“Manoeuvres”).

Tutti noi che abbiamo adorato il suo talento ci saremmo accontentati di qualche episodico exploit, come “Songs Of The Lifetime” di pochi anni fa. Tristemente, è invece giunto il momento di scrivere l’Epitaffio di una grande figura del rock.

elp-fading-away

ON THE ROCK AGAIN di Massimo Bonelli

23 Nov
 Massimo Bonelli ci parla del suo recente viaggio negli Stati Uniti.

“But I ain’t going down, That long old lonesome road,
All by myself … On the road again”.

La colonna sonora di un viaggio non la trasmette la radio, è tutta nella tua testa, nel tuo spirito.

Il viaggio inizia a Las Vegas, la città del peccato. Sin City è un enorme Luna Park di luci sfavillanti che incantano gli incauti turisti del vizio, quello del gioco ovviamente, ma non solo. In questa metropoli dove i tempi raccontano le melodie di Frank Sinatra o il rock’n’roll di Elvis Presley, ora, i giganteschi cartelloni luminosi, promuovono musical dedicati ai Beatles e a Michael Jackson. Las Vegas è un immenso e lussuoso lampadario in mezzo al deserto. Chi, come me, non è attratto dal gioco o da questo genere di divertimenti, si dirige verso ovest.

img_7405

Death Valley, Devil’s Golf, Zabriskie Point, Joshua Tree distano poche ore da Las Vegas. Deserti incuneati tra aride colline sotto un sole cocente, tra la California ed il Nevada. Nel mio cuore e nella mente c’è un susseguirsi di emozioni tradotte in immagini e note: un esplosione ripetuta all’infinito, caratterizzata dal suono dei Pink Floyd. Una dodici corde che corre ansimando sulla terra bruciata, accarezzata dai lunghi capelli di Shawn Phillips. La costruzione di un amore dolcemente rotolante tra dura sabbia e ipnotiche note della chitarra di Jerry Garcia e, li accanto, non ho più trovato  ciò che stavo cercando (But I still haven’t found what I’m looking for – U2), il Joshua Tree non c’era più, sradicato dalla stessa arida natura. Gli indiani Soshone, nativi della zona, sono stati gli ultimi amici di Michael Jackson che a Pahrump, tra la Death Valley e Las Vegas, voleva vivere, ma non ne ha avuto il tempo.

Zabriskie Point
Zabriskie Point

La Route 66 si lascia alle spalle il deserto del Mojave e, andando nella stessa direzione di Billy e Wyatt (il Captain America di Easy Rider) mi conduce, con le note di “Born to be Wild” degli Steppenwolf, verso Falgstaff. Io che non ero destinato a seguire le aquile (Wasn’t Born to follow /Byrds) mi fermo a Williams, su quell’unica strada, tra saloon e drugstore, dove senti il rombo delle Harley e la sirena dei camion (Convoy) che ti salutano, attraversando con spavalderia le vicinanze della main street. Dalla veranda del motel, sento le tristi note di John Fahey dedicate ad una luna brillante che illumina l’immensità rocciosa del Grand Canyon. Il mio sguardo si perde tra i diversi colori della terra. Mi sento una formica, un piccolo essere fragile di fronte a tale maestosità. Sai di essere ospite dei Navajo, loro questa meraviglia della natura la chiamano “Casa”.

Grand Canyon
Grand Canyon

“Down by to the river” (Neil Young) – Il Colorado scorre tra lo Utah e l’Arizona, qui lo hanno defluito in piccoli canali per poter costruire un mare, il Lake Powell, dominato dalla grande diga. I mormoni vigilano le proprie mogli e le costruzioni, i Navajo, la natura e l’Antelope Canyon. Su una sgangherata camionetta, meno comoda dei cavalli senza sella, sollevando nuvole di polvere, raggiungo questa insenatura di sabbia stretta tra le rocce. Il sole che l’attraversa dipinge il suo interno di ombre e magici colori (“dategli sole. non legarlo, vuole correre …” cantava Grace Slick in Manhole). Anche il crotalo si è disinteressato del mio silenzioso passaggio.

Antelope Canyon
Antelope Canyon

La radio trasmette musica che non segue i miei pensieri. Banjo e violini a ritmo di quadriglia, non fa per me, ma siamo in Arizona. Ennio Morricone descriverebbe meglio le emozioni che sto per vivere. Il sole è ancora alto, illumina i saliscendi della lunga strada dritta di fronte a me per oltre quaranta miglia. Il camion che avvisto nello specchietto retrovisore minaccia di speronarmi (Duel) ma poi mi supera sbuffando. Il banjo gareggia con la chitarra (Dueling banjo), io lotto con il sonno. L’aria danza con il calore formando nuvole di gas che rendono credibili i miraggi. In fondo alla interminabile strada, affiorano punte di roccia dirette verso il cielo. Dita di giganti con le mani nel rosso terreno. Pinnacoli, attori involontari di mille film, da Ombre Rosse a Thelma e Luoise, da Easy Rider a Forrest Gump. Il capo Navajo osserva con orgoglio la sua terra da un pronunciato sperone di roccia, in attesa di segnali di fumo. Nel piccolo chalet all’interno della Monument Valley, con infantili lacrime di gioia, non riesco a dormire e seguo affascinato la parabola del sole dal tramonto all’alba. Nel colore rosa della luce che nasce, sento Grace Slick cantare  “Sunrise start a brand new day …”.

Monument Valley
Monument Valley

Lascio i Mormoni nello Utah e i Navajo nell’Arizona per dirigermi a Durango, in Colorado. Antica ed elegante. “Quel treno per Durango”, lungo il River Soul, verso Silverston, racconta la storia di Butch Cassidy e dell’amico Sundance Kid. Siamo nel leggendario Far West. Poco distante, nella Mesa Verde, vi sono le rovine della civiltà degli Anasazi. Abitazioni scavate nella roccia della montagna. Sam Peckinpah e Sergio Leone mi suggeriscono di ascoltare “Giù la testa”, atmosfera Morricone. Lungo il percorso c’è Cortes, nella contea di Montezuma. Nella piccola stanza del motel, un ritratto di Janis Joplin sembra implorare “Oh come on, come on, come on …” ma io proseguo verso la capitale della riserva indiana, Gallup. Qui inizia il New Mexico, qui, al mercato, si incontrano Navajo, Apache, Hopi ed altre tribù minori mentre vendono la loro arte. Nell’unico negozio sulla main street si possono acquistare pistole, fucili, selle, speroni e cappelli da cow boy. Il proprietario non è un nativo, è un austero bianco che mette in mostra la bandiera dell’Unione.  Gli Eagles direbbero: “Desperado, perché non torni in te? Ohhh, sei un duro. Queste cose che ti soddisfano possono farti del male in un modo o nell’altro”.

img_8134

Il New Mexico è grande e profondo. Mi rimetto in viaggio verso sud. Socorro mi attende con tutti i suoi misteri. Se esistono gli alieni, devono essere tutti lì. Strade deserte per centinaia di miglia. Qualche cespuglio rotola sull’asfalto. Non incroci una macchina e neppure un distributore. Uomini e cose si riparano da un sole crudele. I Pearl Jam urlano: “Even Flow thoughts arrive like butterflies”. Mi chiedo perchè gli esseri dello spazio avrebbero deciso di venire qui. Socorro, come tanti paesi disseminati in queste zone desertiche, è composta da un paio di motel, un distributore (finalmente) e qualche fast food. Nessuno si aggira per l’unica strada. Sento un canto giungere dalla vecchia chiesa di San Miguel. Forse gli unici sopravvissuti da un attacco dal cielo. Senza alcun timore, percorro ancora un centinaio di miglia nel deserto. Eccola. La fabbrica dello spazio. Centinaia di gigantesche parabole captano ogni suono proveniente dagli abissi stellari. Contact. Loro lo sanno se non siamo soli nell’Universo. John Lennon lo sapeva : “Mi chiamano attraverso l’Universo – Jai Guru Deva Om -Niente cambierà il mio Mondo”.

Socorro
Socorro

Giro la macchina e torno indietro, verso sud. Un cartello mi indica che sto dirigendomi verso quella città che i gringo chiamano “El Paso” ed i messicani “Ciudad Juarez”, divisa da un confine. Lo scrittore Don Wislow (Il potere del cane – Il cartello) sa che in quel luogo non servono gli alieni a farti sparire. Mi assale la paura. Trafficanti vanno e vengono ogni giorno, pendolari della droga e della morte. Mi fermo ad Alamogordo. Distributore, motel, fast food. Il tramonto è rosso e la notte sarà presto nera (I see a red door and I want painted black . Rolling Stones). Il mattino, quando il caldo non è ancora soffocante, raggiungo le “White Sands”, dune bianchissime di una polvere di gesso. Mad Max sta ancora fuggendo inseguito dal convoglio di camion dei Figli della Guerra. Con lui fuggo anch’io. Questa volta verso nord. Il navigatore sa che voglio arrivare a Santa Fe ed io ho fiducia in lui. Ma mi sbaglio. Quando, dopo sei ore di guida, vedo un cartello che mi indica “Amarillo” nel Texas, mi preoccupo. E’ terra di Mescalero. Per lui, Santa Fe era un quartiere di Clovis, città di confine, per me è la capitale del New Mexico ad altre sei ore di distanza, in tutt’altra direzione. Riattraverso il fiume Pecos mentre Ry Cooder canta “… sapete che è troppo tardi per cambiare idea … si paga il prezzo per venire così lontano … e tu sei ancora oltre il confine”. Billy the Kid mi saluta dalla veranda di un saloon di Fort Summer. La palla infuocata del sole scende dietro le colline, mentre intravedo Santa Fe, la città diversa. Quella vera.

Alamogordo White Sands
Alamogordo White Sands

Santa Fe vale il viaggio. La città più ricca d’arte di tutti gli Stati Uniti. Una Disneyland di gallerie che espongono artigianato,  sculture e quadri originalissimi. Una piccola cittadina che vive nel rispetto delle tradizioni del suo popolo, i Pueblo. Tutte le case sono color ocra, realizzate in adobe, sabbia e fango, con forti pali di legno a renderne più sicura la stabilità. Nella piccola piazza, musicisti di strada con violino, chitarra e washboard intrattengono i clienti del vicino mercato dei nativi che, giornalmente, vendono i loro manufatti. L’atmosfera è tranquilla e gentile. L’aria è ancora calda, ma stiamo salendo e la notte si fa fredda. Seguendo le tracce di Dennis Hopper e della sua motocicletta, attraverso il Rio Grande e proseguo verso Red River, tra accampamenti di roulotte e piccole case sulle ruote, villaggi di famiglie in movimento, arrivando a Taos Pueblo. Si sentono i tamburi che con un ritmo ipnotico tengono lontani gli spiriti malvagi. Questa è casa loro, ovviamente dei Pueblo, dei nativi. Un piccolo paese di case di fango con lunghe scale di bamboo che salgono verso il cielo. I vecchi saggi ti raccontano che Kit Carson era un infame, aveva trucidato una tribù rifugiatasi in un canyon, dopo averli fatti soffrire la fame. Loro non sorridono e non guardano più le aquile che volano alte. Sono tristi ma fieri. La vicina Taos ospita la tomba di Buffalo Bill. In quelle valli i bisonti muschiati hanno ripreso coraggio.

Santa Fe
Santa Fe

Anch’io riprendo coraggio e mi dirigo verso le montagne, di nuovo in Colorado e più precisamente a Colorado Springs. Meta turistica dei benestanti che amano la cime montuose. La cittadina ne è circondata. Denver mi accoglie in maschera, è il mese di Halloween e tutti si riversano lungo la strada principale trasformati in zombie, mostri di vario genere e supereroi. Il giorno dopo sono tutti vestiti con la maglia della squadra preferita, ci sono i Colorado Rockies e i Denver Broncos. Mile High City, come è chiamata Denver, è sempre in maschera. Nel passato, la città  accoglieva i cercatori d’oro che andavano nelle vicine Montagne Rocciose a cercare fortuna. Il South Platte River che le attraversa era insediamento di Chayanne ed Arraphao. Denver è una bella e ricca città, la prima che incontro da quando ho lasciato Las Vegas. A fianco del mio lussuoso ostello c’è un rivenditore ufficiale di cannabis, la coda per entrare è pari a quella di un centro commerciale. Li seguo con lo sguardo dal terrazzino dell’ostello, ascoltando “Heart of gold” di Neil Young, all’interno gli studenti guardano una partita dal grande schermo nella mensa. L’indomani mi solleverò sopra Miles High per raggiungere la meta finale, New York City.

Denver
Denver

Ogni volta che vengo a Manhattan cerco di trovare alloggio in zone diverse per poter entrare maggiormente nella loro atmosfera. Questa volta mi sono stabilito nel suo cuore culturale, nell’area che più amo, il Greenwich Village. Un piccolissimo appartamento con le tipiche scale esterne che danno su una strada colma di alberi e botteghe. Il fiorista, quello sull’angolo che vende anche verdure fresche, l’enoteca. Ristoranti cinesi, giapponesi, spagnoli e italiani. Sono a breve distanza da Washington Square, da Bleecker street, da MacDougal street, dal Bitter End,dove si muovono ancora le ombre di Lenny Bruce e Pete Seeger. Dal Wha? dove Dylan esordì ed anche Hendrix fece musica. Passeggiando ti aspetti di incontrare Peter, Paul & Mary, Woody Allen con Diane Keaton. Vedi Phil Ochs e Dave Van Ronk suonare seduti sulla panchina di fronte alla fontana. Gallerie d’arte e di fotografia in Prince street. Adoro questi luoghi e tutto ciò che evocano. In questa visita alla “Grande Mela” non mi accontento e mi spingo oltre, ad Harlem, nel cuore nero di NYC. Non è più un quartiere pericoloso. Gli afro-americani che vi risiedono sono come i personaggi dei video rap. Altri sono artisti. Alcuni si radunano in comizi di protesta in stile Black Power, ma ti accorgi che parlano di religione. Molti sono nelle chiese a cantare gospel. Poi c’è il monumento, l’Apollo Theatre. Qui, prima fu il jazz, poi arrivarono anche Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, il signor dinamite, James Brown. Anche il giovanissimo Michael Jackson esordì in questo teatro. Rientro percorrendo Malcolm X Boulevard.

NYC Greenwich Village
NYC Greenwich Village

Come mi sento lontano da Zabrieski Point, dalla Monument Valley, dalla Route 66, dai deserti del New Mexico, eppure sono passati pochi giorni. Il JFK Airport mette in sottofondo “Expecting to fly” dei Buffalo Springfield e mi saluta, Ciao America, ciao Southwest, ciao Wild West. Tornerò ancora su altre strade del Rock.

img_7695

 Da http://www.spettakolo.it/ 22/11/2016

Massimo Bonelli

Ex Direttore Generale della Sony Music, ha trascorso 35 anni nel mondo del marketing e della promozione discografica, sempre accompagnato da una grande passione per la musica. Lavorava alla EMI quando, in un periodo di grande creatività musicale, John Lennon, Paul McCartney e George Harrison hanno iniziato produzioni proprie di alto livello e i Pink Floyd hanno fatto i loro album più importanti. Sino a quando, con i Duran Duran da una parte ed il punk dall’altra, è arrivato il decennio più controverso della musica.In CBS (più tardi Sony), ha contribuito alla ricerca e al lancio di un numero considerevole di artisti, alcuni “mordi e fuggi” come Spandau Ballet o Europe, altri storici come Bob Dylan, Bruce Springsteen, Cindy Lauper, Franco Battiato, George Michael, Claudio Baglioni, Jovanotti, Pearl Jam, Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e tanti altri…Si fatica davvero a individuare un artista con il quale non abbia mai lavorato, nel corso della sua lunga vita tra pop e rock.

PINK FLOYD “Early Years 1967-1972” di Paolo Barone

21 Nov

Due riflessioni del nostro Polbi sull’ultimo cofanetto dei PF.

Quando qualche tempo fa i Pink Floyd diedero il via alla riedizione del loro catalogo in versioni “Immersion” allegando agli album originali materiali live ed inediti, fummo in molti ad essere delusi dal fatto che avessero puntato solo ai tre album piu’ internazionalpopolari, lasciando fuori tutto il magico resto.

Ora arriva sul mercato l’operazione Early Years 1967-1972 a completare ed estendere a dismisura il lavoro finora riservato solo ai tre (bellissimi) mastodonti ipercommerciali.

62ba315df2f74f80a0bbf4f45f6dc570_orig

A quanto pare le cose dovrebbero andare in questo modo: Un cofanetto enorme di materiale audio, video e riproduzioni di memorabilia al costo senza precedenti di oltre 400 euro, un doppio cd con estratti, e poi da gennaio i singoli album che compongono il box set con i materiali extra relativi.

A vedere la lista dei contenuti c’e’ da fare girare la testa a chiunque.

Fermo restando che sara’ sempre impossibile far contenti i fan terminali di una band, i quali sono ormai in possesso di piu’ roba dei membri stessi delle band in questione, Early Years esplora ogni possibile angolo del periodo di grande creativita’ e magia, prima della esplosione/implosione di Dark Side. E’ veramente un lavoro enorme, ore e ore di musica e immagini. Io ne ho vista una copia in un negozio di dischi a Reggio Calabria che ne aveva due ordinati su prenotazione, e mi e’ sembrato veramente bello…

Bellissimo anzi, ma mai e poi mai da poter giustificare il prezzo.

Qui stiamo veramente perdendo il senso delle cose, un terzo di uno stipendio di molti fan della band per una manciata di cd, qualche vinile e qualche ristampa di poster. Sarebbe tranquillamente potuto costare la meta’, e sarebbe comunque stata una bella somma; certo nessuno obbliga nessuno all’acquisto, ma da Waters e co. mi sarei aspettato una maggiore attenzione in questo senso…mah, sono sempre il solito illuso che si rifiuta di mettere la pietra tombale sul senso del Rock…

Detto questo, mi sono preso la mia bella copia in cd doppio in vendita nel negozietto prima che su Amazon e a un prezzo praticamente uguale.

Complice una serata libera da impegni e in beata solitudine, sono sprofonadato in ascolto di Early Years versione per poveri e ci sono rimasto incollato per tutta la durata dei due cd, con un attenzione e un godimento assoluti come non mi capitava da tantissimo tempo.

Ad aprire le danze l’accoppiata Arnold & Emily, riproposte in versione classica e quindi del tutto inutile in questo contesto, mentre si sarebbero potute mettere alcune delle tracce inedite del periodo Barrett presenti nel box e fare contenti gran parte dei fan. A seguire Matilda Mother e Jugband Blues nelle versioni remix del 2010, e essendo questi brani disponibilissimi nelle versioni originali sia mono che stereo, i remix risulatno sorprendentemente piacevoli senza dover gridare al sacrilegio. Flaming dalle BBC session fa salire i brividi per poi passare all’unico vero inedito era Syd inserito in questa raccolta, lo strumentale In the Beechwoods, di per se nulla di che ma capace per l’effetto di suggestione legato alla presenza del nostro a rendere felici la maggior parte dei fan della band sparsi per il mondo. Point me at the Sky e Paintbox sono messe li’ nelle loro versioni arcinote come irritanti riempitivi, ma poi arriva una bellissima e oscura Careful in versione singolo e una malinconica e misteriosa Embryo prodotta da Norman Smith negli studi di Abbey Road. Una goduria totale.

La pubblicita’ per la radio americana di Ummagumma e’ una simpatica parentesi prima di sprofondare nelle acque cosmiche di Grantchester Meadows, Cymbaline, Green is the Colour e Careful da una BBC radio session del ’69, con inclusa una meravigliosa e diversissima dall’originale Interstellar Overdrive live dal Paradiso di Amsterdam lo stesso anno.

Guardo fuori dalla finestra; il vento spazza le foglie nella luce dei lampioni, per strada non passa nessuno, tutto e’ sospeso, irreale. Mi perdo nei vortici spazio temporali di questa musica, per qualche minuto mi dimentico di me…

Il secondo cd si apre con cinque brevi tracce da Zabriskie Point fra cui The Riot Scene che poi diventera’ l’epica Us and Them, e Take Off a meta’ fra i suoni di The Wall e Dark Side. E’ una sensazione strana pensare che questa musica sia stata realizzata nella mia citta’, a Roma, in via Urbana. Ancora Embryo, BBC 1970, in bilico fra la mucca e Echoes, ma diversa, nitida e al tempo stesso piu’ potente e grezza, con le risate dei bambini e la voce distorta di Waters a dare un ulteriore tocco inquietante. Atom Earth Mother arriva in versione live senza orchestra, e sono diciotto bellissimi minuti da Montreaux sempre nel ’70. Mentre il bip martellante dell’ecoscandaglio insieme alle tastiere di Wright ci portano dentro Nothing Part 14 (work in progress di Echoes), piu’ vicina ai viaggi stellari degli Ash Ra Temple che alle profondita’ marine della versione definitiva di Meddle.

Chiudono il secondo cd tre brani da Obscured by Clouds versione remix, pieni delle sonorita’ dei lavori a venire, cosi legati alla forma canzone.

Che dire…oltre ad essere quasi due ore di pura goduria Pinkfloydiana, questo doppio cd raggiunge pienamente lo scopo di essere un assaggio dal costosissimo box delle meraviglie, e far venire a tutti noi la voglia di comprarlo.

Sono sicuro che purtroppo ne venderanno a iosa, o perlomeno tutti quelli che avevano previsto, credo ne abbiano stampate qualche migliaio di copie, spingendo ancora un po’ piu’ in la’ la speculazione sulle spalle dei fan, in maniera del tutto ingiustificata.

Resta la meraviglia di poter ascoltare molti inediti del periodo magico dei Pink Floyd, e personalmente non vedo l’ora che arrivi gennaio per poter valutare l’acquisto dei singoli “volumi” di Early Years.

Paolo Barone ©2016

PJ Harvey Obihall Firenze 24 Ottobre 2016 di Bodhràn

10 Nov

Sono uscito felice dal concerto di PJ Harvey (il primo per me) in mezzo ad un pubblico complessivamente soddisfatto ma in cui risuonavano molte frasi come “certo, non ha mai preso la chitarra”, “peccato pochi pezzi vecchi…”. Eh si, perché dopo 20 anni PJ Harvey ha deciso di mollare la chitarra e il suo mondo fatto di blues e punk rock e dedicarsi, almeno negli ultimi due dischi “Let England Shake” e “Six Hope Demolition Project”, a delle ballate più tradizionali per raccontare la sua visione del mondo con un certosino lavoro sui testi. L’ultimo disco racconta le sue esperienze di viaggio tra Kosovo, Afghanistan, Stati Uniti, una serie di fotografie su miseria rurale e metropolitana, sulle devastazioni operate da guerra politica ed economia sui poveri e gli indifesi della terra. Questo è quanto. Il live che propone dalla scorsa primavera ha la sobrietà e l’eleganza più dello spettacolo teatrale che della performance rock (e sarebbe stato sicuramente più godibile seduti in teatro): scena spoglia, luci al minimo indispensabile, band di 9 elementi: due percussionisti, con due grancasse da banda, rullanti e poco più, 2 fiati, chitarre, basso, tastiere. Tra i nomi dei musicisti, John Parish, Mick Harvey, Alain Johannes ed Enrico Gabrielli.

La scaletta varia pochissimo da concerto a concerto, credo proprio perché non è stata pensata come set ma come spettacolo, uno spettacolo minimale: a parte i cambi di strumenti da parte dei musicisti è “tutto fermo”, tutti stanno dove devono stare, concentrati sulla musica da suonare.

pj-harvey-1998-992x520-620x330

La serata è iniziata con i 10 i musicisti, vestiti di nero, presentarsi in fila indiana sulla scena come una funeral marching band al ritmo di una marcetta, dopo di che, prese le posizioni sul palco siamo lentamente scivolati nel mondo sonoro dei primi due dischi. Siamo rimasti tutti lì (un pubblico dai 30 anni in su), in silenzio per la maggior parte dei brani, a goderci l’intensità dei brani, la bravura dei musicisti e un audio impeccabile. Tutto ciò A PARTE gli immancabili e per me incomprensibili fenomeni che trascorrono i concerti dando le spalle al palco e chiacchierando incessantemente, spesso di altri concerti (ma chi li scioglie la sera? Perché fanno così? Hanno i biglietti omaggio? O adorano dilapidare euro per chiacchierare in posti affollati e caldi? Mah).

E PJ, come dire, è diventata “una signora”; tiene tutti incollati senza ricorrere a stratagemmi, mosse e mossettine, concentrata e precisa nel canto e completamente immersa in questa veste di cantastorie dei mali della nostra società. Da come scrivo temo passi il racconto di un concerto serioso e palloso, ma le risate che il pubblico ha strappato a PJ quando ha dedicato ad Enrico Gabrielli un’ovazione maggiore che agli altri sono il  segno che lì sul palco non c’era nessuno che se la menava, o chi “sa come vanno le cose e ve lo sta dicendo”, ma chi ha deciso di non giocarsi le solite carte sicure e allestire a quello che considera essere lo spettacolo migliore per quei contenuti.  E si è visto bene quando nella seconda parte sono spuntati i brani del passato, pochi, selezionati da To Bring You My Love e White Chalk per lo più, e che hanno ricevuto adeguato arrangiamento per la band che li eseguiva, compresa una tiratissima 50ft Queenie.

Si può stare ore a discutere giorni se è meglio questa PJ Harvey o la PJ di 20 anni fa, io trovo musicalmente interessanti entrambe. Certo che una bella “schitarrata” mi avrebbe fatto piacere, figuriamoci, ma mi chiedo innanzitutto se lei, a 47 anni, ha ancora voglia di atteggiarsi sul palco irriverente come quando ne aveva 20 o 30. E se è più giusto che a decidere cosa e come isuonare sia lei e non io (o altro pubblico). Di sicuro giù il cappello a chi non ha paura di scrollarsi di dosso l’abito (che non fa il monaco) e decide di sterzare in maniera così decisa, mantenendo integro lo stile e alto il livello della musica.

http://www.setlist.fm/setlist/pj-harvey/2016/obihall-florence-italy-1bfa9998.html

 

Video

The Words That Maketh Murder

https://www.youtube.com/watch?v=q77BHY6ju1M

The Community Of Hope

https://www.youtube.com/watch?v=A88Ax4L-FZ8

To Bring You My Love

https://www.youtube.com/watch?v=UbROdCObPTo

50ft Queenie

2016 © Bodhràn