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RITORNO ALL’ANALOGICO

4 Mag

Scambio di messaggi (su FB) tra me e l’amico FILIPPO ROSTONI:

PHIL: “ciao Tim, mi è arrivata oggi la vhs americana dei FIRM “Five From Firm”… mannaggia quanto è invisibile in rete, non si trova praticamente da nessuna parte (nessuna copia su ebay, reperita in modo rocambolesco da una terza parte su amazon americano)….ma è possibile? uscì solo negli usa?”

TEAM: “Sì, uscì solo negli Usa. All’epoca diventai matto per averne una copia (non originale). Sono sorpreso che tu ti sia preso la briga di cercare questa vecchia VHS dei FIRM”

PHIL: “….è che ultimamente (forse in rigetto dei download ed mp3) mi piace comprare cose TANGIBILI, che hanno un colore, profumo e sapore. e cosa meglio delle ormai ripudiatissime vhs ? Ho ancora lettore con testine pulite dunque funziona benissimo, e legge i nastri ntsc perfettamente; tra l’altro ci sono davvero tanti titoli hard rock/heavy usciti in vhs mai ristampati in dvd…e…sarà che invecchio ma mi attacco sempre di + a cose materiali, la forma vince…..ciao.” FIRM FIVE FROM FIRM VHS RETRO Firm VHS Firm VHS 3

Filippo che si va a cercare e quindi a comprare, la vecchia (1986) VHS originale dei FIRM! Che mito, ragazzi. Faccio una veloce ricerca: è vero, in internet non si trova. Un’altro di quei misteri che non riesco a capire. Pubblicano deluxe edition, dvd, bluray di album o video mediocri di nomi non proprio di successo, e cose come questa dei FIRM scompaiono dalla faccia della terra. Pur non essendo capitoli essenziali per la storia del Rock, vuoi che non si rientri dalle spese quando hai a che fare con nomi come quelli di PAGE e RODGERS? Ma, lo sappiamo, inutile angustiarsi, quando c’è di mezzo Page i minuti diventano anni, gli anni decenni. E’ in ritardo nel fare uscire le nuove cose dei LZ, figurati cosa può succedere con i FIRM.

Ad ogni modo, ripensavo alla cosa mentre tornavo da BRIAN (a proposito, grazie a tutti quelli che puntualmente mi chiedono notizie del vecchio) anche perché proprio oggi mi è arrivato il vinile di ABBEY ROAD (insieme a qualche altra cosuccia “tangibile) …

ABBEY ROAD in vinile e altri articoletti interessanti - foto di TT

ABBEY ROAD in vinile e altri articoletti interessanti – foto di TT

Così, dopo un buon pranzo e il solito doppio Southern Comfort del sabato, preso dalla bramosia dell’analogico, ho tirato fuori qualche vecchia audiocassetta, ho acceso la vecchia piastra TEAC e mi son lasciato andare…ANALOG RULES!

Vecchie cassette - foto di TT

Vecchie cassette – foto di TT

Vecchie cassette 2 - foto di TT

Vecchie cassette 2 – foto di TT

Non siamo i soli a disquisire sull’accidia musicale di JIMMY PAGE

2 Mag

http://www.stuff.co.nz/entertainment/blogs/blog-on-the-tracks/8607098/The-homily-of-Jimmy-Page

(Grazie a Bill McCue & Tommy Gamard)

JP in metropolitana a NY - foto di Ross Halfin

JP in metropolitana a NY – foto di Ross Halfin

La prima volta: LED ZEPPELIN “The Song Remains The Same”…il film

29 Apr

TSRTS Poster

Picca (come leggerete più sotto) ipotizza fosse il 1977, io credo invece fosse il 1978 (giugno) perché la compagnia di ragazzi amanti della musica rock che ero solito lambire, diceva che mentre andavano a Modena a vedere il film per la prima volta non c’era nessuno per strada, perché stava giocando l’Italia ai mondiali (Argentina ’78). Comunque sia, la prima volta me la persi. Il mio debutto avvenne in un cinemino un po’ sfigato di Castelfranco Emilia nel novembre del 1978. Era un sabato sera, c’era nebbia, ed io Massimo e Lencio ci facemmo accompagnare dal padre di Massimo, nessuno di noi aveva la patente. Mi par di ricordare che Massimo lo avesse già visto, ma era comunque eccitatissimo.

Cinemino di seconda fascia, buio, umidità, odore di muffa, poltroncine scomode, impianto audio scarsino. Chiacchiere in libertà con Massimo e Lencio, poi le flebili luci che si spengono, il fascio di polvere d’oro che va dal proiettore allo schermo… lo spioncino di una cancello che si apre, gangster che si apprestano a colpire….riconosco PETER GRANT e forse RICHARD COLE…mitra che sparano, teste che cadono in modo buffissimo, poi JOHN BONHAM sul trattore, PLANT vicino ad un ruscello con la famiglia, JONES che racconta favole alle figlie, PAGE con gli occhi rossi a bordo del laghetto della sua villa di PLUMPTON mentre suona la ghironda. Poi ecco New York, il gruppo in macchina, il Madison Square Garden; l’eccitato brusio della folle e flash… ecco i LED ZEPPELIN dal vivo. Cazzo. Ripresi da dietro, poi dal davanti. Pubblico in delirio sin da subito, specchi dietro al palco. JIMMY PAGE fighissimo col vestitino con stelle, lustrini, spalline, ROBERT PLANT che incarna a petto scoperto il prototipo del cantante hard rock un po’ hippie, BONHAM e JONES lì dietro.

 

Wow, che inizio. Che botta di vita, di rock sgargiante e  colorato. Rimasi immerso per due ore in quel mondo che finalmente toccavo quasi con mano. Il rock mi entrava in circolo, la vibrazione misteriosa dei LED ZEPPELIN mi attraversava da capo a piedi…rapito, godevo di quella musica che ritenevo (e ritengo) sublime.

Poco dopo stacco su un break chitarristico di PAGE (non sapevo ancora che in origine era il link che collegava MISTY MOUNTAIN HOP al pezzo che preferisco in assoluto), note che fluttuano nello spazio del MADISON SQUARE GARDEN e che sembrano incepparsi mentre si sciolgono sull’entrata di BONHAM e di JONES alla pedaliera basso. SINCE I’VE BEEN LOVING YOU nell’arrangiamento del 1973 mi colpì subito. Da quel momento diventò il mio pezzo musicale favorito. Le note della chitarra, la tensione creata dal gruppo, il sentimento che ci mette PLANT…che spettacolo. Ho ancora i brividi.

 

L’incredibile lavoro sulla 12 corde del pezzo che dava il titolo al film e la sequenza medioevale di PLANT sulle dolci note di RAIN SONG.

Avrei ripetuto quell’esperienza altre 12 volte in cinemini di periferia che inserivano il film nel cartellone del giovedì sera dedicato ai film musicali. Peregrinando tra le province di Ferrara, Modena e Reggio, ci facevamo accompagnare dai genitori di qualcuno, anche con neve e ghiaccio sulle strade, e ogni volta si ripeteva il rito. Cinema strapieni, atteggiamenti da concerto rock, applausi, il perdersi liberamente su quell’aria sonora, la sensazione di far parte di una setta di fortunati.

NO QUARTER, con quelle ombre che lasciavano intravedere mondi misteriosi che l’assolo di JP poi ti faceva vivere veramente…DAZED and CONFUSED con ancora un PAGE sensazionale (per 26 minuti e più), con quell’archetto di violino che sfregava direttamente sulle nostre giovani anime…STAIRWAY TO HEAVEN con ricami aggiuntivi, con quelle frasette live di ROBERT PLANT, con quel magnifico assolo…BOOGIE MAMA, l’intermezzo blues e boogie di WHOLE LOTTA LOVE che mi sembrava una delle cose più irresistibili che avessi mai ascoltato.

Infine i ragazzi che salgono la scaletta che li porta all’aereo, lo “Starship”, con la sua bella scritta LED ZEPPELIN e la versione da studio di STH che funge da sottofondo ai titoli di coda.

Poi arrivarono le VHS, i videoregistratori, i divudi e i bluray, e la nuova discutibile versione con edit diversi dagli originali e con qualche pezzo in più. TSRTS lì a portata di mano, che tiri fuori solo quando i ragazzi vengono a trovarti e insieme a RIFF insceniamo la scenetta per far vedere per l’ennesima volta il film a JAYPEE.

Ma quando ti capita di rivederlo per caso, ti metti lì davanti allo schermo incapace di fare altro.

Per me TSRTS è il più bel live della storia della musica rock. No contest.

 

TSRTS Cover

TSRTS LP back

TSRTS – La prima volta di Paolo Barone:

La notizia che il film dei Led Zeppelin sarebbe stato proiettato per un solo giorno in un cinema di Roma creo’ un gran fermento. Se ne parlava ormai da giorni, complice anche il Messaggero, quotidiano della capitale, che aveva dato l’annuncio nelle sue pagine dedicate a spettacoli e cultura. Tutti, ma dico tutti, stavano facendo piani per andare: Hippies, metallari, rockers di varia natura. Persino qualche punk e i duri dell’Autonomia stavano organizzando macchine, motorini e carovane. Io e i miei amici decidemmo di andare in autobus. Si trattava di un percorso lungo, avremmo praticamente attraversato la citta’, quasi da un capo all’altro, ma la cosa certo non ci scoraggiava, anzi, per loro questo ed altro. Il fatto e’ che i Led Zeppelin si erano ormai sciolti, non esisteva altro  modo quindi per poterli vedere dal vivo e, come tutti sanno, pur avendo un gran seguito nel nostro paese, avevano suonato una sola travagliatissima volta a Milano, nel ’71 notte dei tempi per noi. E cosi, dopo lunga e trepidante attesa arrivo’ finalmente il gran giorno. Il lungo viaggio in autobus, con un paio di cambi di linea ando’ via veloce e giunti alla fermata prossima al cinema ci rendemmo subito conto che qualcosa di straordinario stava accadendo. Da tutte le strade, una folla festosa di persone arrivava verso il cinema. Come a un vero e proprio concerto rock. C’era chi si cercava, chi spingeva, chi raccontava di aver gia’ visto parte del film, chi addirittura diceva di averli visti dal vivo a Zurigo o in qualche altro posto. E tutti cercavano in un modo o nell’altro di entrare nel cinema, dove con decisione saggia e molto romana, ormai i gestori non andavano piu’ tanto per il sottile, si prendevano i soldi del biglietto, e lasciavano che dentro e fuori del cinema la gente si auto organizzasse come meglio credeva.  Io e i miei, complice l’entusiasmo e un po’ di incoscienza, riuscimmo a sgattaiolare veloci in una selva di gambe, braccia, capelli e corpi, urlando i nostri nomi per non perderci nei vortici umani. E poi, superata un ultima tenda, il buio, e i Led Zeppelin sullo schermo! Cazzo, erano proprio loro…

L’audio del cinema era fantastico, una potenza niente male sparata da grosse casse tipo quelle dei concerti posizionate ai lati dello schermo, non c’e’ che dire, avevano fatto le cose alla grande per l’occasione. Eravamo assolutamente affascinati, confusi, non sapevamo dove guardare o dove andarci a piazzare. lo schermo proiettava un caleidoscopio di immagini e suoni, mentre nel cinema succedeva di tutto. Gente ovunque, in piedi, seduta, sdraiata, accampata, chi ballava, chi cantava, chi chiamava i musicisti sullo schermo come se potessero sentirli davvero…Chi beveva, chi fumava, chi rollava canne colossali…insomma era come se fossimo tutti ad un concerto e non nella sala di un cinema! Il film veniva proiettato quattro volte quel giorno, dal primo pomeriggio a notte inoltrata, il che contribuiva a creare una situazione ulteriormente dinamica: C’erano sempre gruppi di persone che entravano, uscivano, rientravano, si spostavano, insomma, per una volta il concetto di visione cinematografica fu completamente stravolto per diventare altro, non era un film, non era un concerto, non era una festa, ma era tutte queste cose allo stesso tempo, mentre il cinema era diventato una zona temporaneamente autonoma dal resto della citta’ e dalle sue regole.  Forse per una volta i Led Zeppelin erano riusciti a catalizzare un esperienza multimediale e interattiva, come Andy Warhol aveva sempre cercato di fare. Io da parte mia, ero al settimo cielo, perso in questa esperienza totalizzante…

Ce ne tornammo a casa con gli ultimi bus, attraversando la citta’ ignara e silenziosa. Era l’inverno 1981-82 e  The Song Remains The Same sarebbe riaffiorato negli anni a venire in mille ricordi e suggestioni. Mi sarei ritrovato innumerevoli volte immerso nell’atmosfera del film, magari mentre meno me lo sarei aspettato: attraversando campagne assolate, guardando rovine, fermandomi sulla riva dell’acqua. Passando in macchina i ponti di NYC nel sole del primo mattino dopo una notte passata insonne a guidare, o solo con me stesso frugando a casaccio nei cassetti della memoria. (Paolo Barone ©2012)

TSRTS Page

TSRTS – La prima volta di Stefano Piccagliani:

Modena, Cinema Olimpia. The Song Remains the Same. Un pomeriggio come tanti (cos’era Tim? Il ’77?) che diventò un pomeriggio unico. Incomprensibili sequenze di gangster nella campagna inglese. Colpi di mitra. Un lupo mannaro. Mi piacevano le cose incomprensibili da ragazzino. Ti costringevano a pensare. Quando cazzo inizia il concerto?

I ragazzi della band scendono da un aereo. Ridacchiano. Appuntarsi sul taccuino: anche io un giorno scenderò dal mio aereo ridacchiando.Limousine. Bron Y Aur, bucolica e antichissima, a sottolineare lo skyline di Manhattan. Mistero.

Luci spente, brusio di folla tesa, flash. Una voce rude vomita un ‘awright…let’s go!’. Rock ‘n Roll. Ecco: l’impatto dell’immagine di Plant, Jones, Bonham e Page ripresi da dietro all’attacco di RnR con il pubblico che si squaglia di eccitazione sullo sfondo rimarrà con me per sempre, si incastonerà nella mia incredula corteccia celebrale, nel mio petto palpitante, nella mia miserabile zona genitale. Il Big Bang insomma.

Le ragazze sono prevedibilmente dalla parte del Golden God e dei suoi riccioli da eroe epico e del suo per nulla miserabile pacco dono, ma noi maschietti ci innamoriamo subito (anche carnalmente, si può dire una buona volta?) del fascino di Jimmy Page e della sua virilità tutta carismatica, magrissimo, glabro ed efebico, con quelle mani prodigiose e bellissime su cui si concentrano i nostri occhi pieni di musica.

Le canzoni si susseguono alle meravigliose  sequenze fantastiche: Plant romantico uscito da Tolkien, Jimmy tenebroso e terribile, Jonesy gotico da film Hammer e Bonzo coi suoi home movies che ci ricorda che in fondo it’s life and life only, come diceva Dylan.

Di lì a poco arriverà il cinismo nichilista punk  coi suoi teppistelli a scaracchiare sulle vanitose e pretenziose manie di grandezza dei dinosauri del rock. Missione fallita, a 35 anni di distanza. A proposito di cinismo, Peter Grant ci dà un assaggio, per nulla richiesto e quindi sincero, di cosa sia in realtà un backstage di concerto rock. Scazzi coi promoters, bootleggers da inseguire, t-shirts farlocche, rapine da cassette di sicurezza, poliziotti in balìa di orde di fans. Altro che sequenze fantastiche: TSRTS è un Report sulla vita on the road.

Rain Song è complicata e bellissima. No Quarter fa deliziosamente paura. Since I’ve Been Loving You è l’incrocio deve si incontra il blues tra Clarksdale, Chicago, Memphis e la Boleskine house. Stairway è già un mostro. La doppio manico che si sdoppia. Moby Dick permette un salto al bar per un’ altra razione di pop corn. Whole lotta Love che rivela che i Led Zep forse sono sempre stati un gruppo funky. L’archetto del violino in Dazed and Confused è un sortilegio che riesce ancora oggi: il boato dell’Arena 02 nel 2007 lo testimonia

Entrai al cinema bambino e uscii rocchettaro. Per sempre.

E’ di queste cose che si nutrono i sogni. Dopo 35 anni, mi devo ancora svegliare. (Stefano Piccagoliani ©2012)

TSRTS Jimmy Page archetto

TSRTS – La prima volta di Giancarlo Trombetti: 

” Ricordo che quando ero ragazzotto le cose, tutto, da noi, arrivava con un colpevole ritardo. I dischi, se non te li beccavi di importazione e non erano distribuiti da quel magico nome che fu Ricordi – che massacrava le copertine per risparmiare ma almeno ti distribuiva oltre la metà del cibo degli Dei – i dischi, dicevo,  li potevi avere quando l’artista pubblicava il successivo o era già morto, i libri se non te li cercavi in qualche rara illuminata libreria li saltavi a piè pari ed i film…mah…quelli di cartellone andavano alla stagione successiva, mentre quelli, pochi, di non primario cartellone o peggio ancora musicali, non li vedevi mai. Internet, ovviamente, non esisteva, i giornali, quelli veri, erano rarissimi e costosi (ho da poco ritrovato alcuni Melody Maker del 1972 e costavano 500 lire quando un 33 ne costava 2700/3000 !), radio e tv erano fonti inattendibili al 90%. Uccellini amari, amarissimi. Così, quando nel 1976 un probabilmente avvinazzato gestore di sale cinematografiche locali propose ben tre film “musicali” in rapida sequenza, mi parve di essere stato catapultato nella San Francisco dei bei tempi dell’uragano di Haight-Ashbury. Verso il dicembre di quell’anno, credo proprio di non sbagliare, vidi per la prima volta “Woodstock, The Movie”, unendo finalmente le immagini al sonoro che mi accompagnava da quando la mia prima, vera fidanzata me ne aveva regalato il triplo album, vidi “Live at Pompei” dei Pink Floyd restandone abbagliato per semplicità e fascino e vidi per la prima volta i miei Led Zeppelin al Madison Square Garden. Devo ammettere che sentir pronunciare quelle mitologiche tre parole finali da Plant (“New York…goodnight…”) mi aveva sempre sconvolto nei miei sogni giovanili : per quanto banali ed inevitabili quelle parole, a mio parere poter dare la buonanotte alla Città “che non dorme mai” era un sogno che non si sarebbe mai realizzato per il 99,9% dei bipedi umani e dunque, meravigliosamente affascinante ma…non ero lì per quello in quella settimana dispendiosissima per le mie finanze: ero lì per vedere Plant muoversi, per vedere Bonham contorcersi sulla batteria, per capire se Paul Jones si commuovesse su quelle linee di basso e per veder prendere vita alle foto di Page con quella chitarra a doppio manico in mano.

Anche senza sonoro, credo, avrei comunque goduto come un riccio. Ma il sonoro c’era. Scadente e mono, distorto e privo di dinamica – ricordo che quelle casse messe ai lati del palco in Woodstock erano riuscite a far meglio delle scatole ai piedi di Hendrix in quanto a distorsione, un paio di giorni prima – ma non solo non c’era di meglio, ai tempi, ma comuque sarebbe servito a poco: nella mia testa avrei potuto suonarmi da solo tutta la colonna sonora senza ascoltarla. Ricordo che mi feci due palle alle immagini di Page e delle sue pippe esoteriche, alla passione per i veicoli di Bonham e alle scalate di vario genere e compresi più tardi come potesse essere realistica la leggenda di Ahmet Ertegun addormentato alla premiere del film; non sapevo ancora tutta la storia dei filmati mancanti e dei momenti di vuoto di immagini riempiti per forza di cose. Ricordo che non mi esaltai – come mi accade talvolta ancor oggi, devo ammetterlo – a vedere “Since I’ve been loving you”, trovandola ancor oggi un esempio scolastico di blues  ( i Led Zep hanno fatto con la decodificazione del blues un milione di volte meglio in altri casi) e ricordo che mi annoiai profondamente all’eccesso di esibizionismo di Page durante “Dazed and confused” che resta, però, uno dei miei pezzi favoriti. Il resto fu pura esaltazione. Non mi sarei mai più domandato, come non me lo domando ancor oggi a dispetto delle splendide teorie di Tim sulla sostituzione di Pagey, se quella fosse la migliore delle esecuzioni possibili: per sarebbe restata “l’esecuzione” ancora per un po’, l’immagine della più grande band di rock blues, l’icona di chi era riuscito a farsi definire come il prototipo di heavy metal band, il Martello degli Dei, avendo propinato blues, folk e suoni acustici a piene mani a giornalisti e seguaci “esperti”  che altro non vogliono che sentir definire qualcuno in qualche modo. Poco importa quale. Spettacolare, anche per questo.”  (Giancarlo Trombetti ©2012)

TSRTS band

CARLO VERDONE UNO DI NOI

28 Apr

Il mio caro amico PIERLUIGI FRACASSO (Pigi, insomma) di Roma mi manda un link assai gustoso:

http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/1-verdone-si-toglie-la-maschera-di-attore-comico-e-mostra-la-sua-anima-54880.htm

Sposiamo in toto il pensiero di VERDONE, soprattutto per questa frasetta:

” Prendiamo atto di questa tua palese invidia competitiva e ti lasciamo, dopo aver ascoltato le ennesime cover di “Old Sock” e del mediocre “Back Home” al tuo pubblico. Che sembra ora essere quello dello Sporting Club di Montecarlo dai 70 in su”.

E’ facile fare i risentiti quando toccano la tua band preferita, ma questo va al di là, quello che non sopportiamo è la “prostitusione intellectuale” (cit.José…sigh), VERDONE  ha esposto il tutto molto bene.

Noi che non siamo saggi, eleganti e prudenti non possiamo altro che – dopo averlo fatto con quella mezza sega di Jack Bruce – dire a manolenta “Eric, ma vaffanculo, va”, ci basta vedere la copertina del tuo ultimo album per capire cosa sei diventato…

oldsock

PS: CARLO…WE LOVE YOU.

Carlo Verdone e i LED ZEPPELIN

RILETTURE: FREE “Fire And Water” (Island Records 1970) – TTTTT

7 Nov

Riletture: un’umile rubrichetta per divertirci nel fare qualche considerazione con le orecchie di oggi su album che hanno fatto la nostra storia (nonché quella del rock). 

Ricordo che era tarda primavera, forse tardissima, fine anni settanta, le scuole erano finite, eravamo a casa…una di quelle belle mattine di fine maggio/inizio giugno, il sole, il rock che era arrivato forte nelle nostre vite, diciotto anni, tutta la vita davanti. Erano gli anni in cui Biccio abitava di fianco a me, due palazzine a due piani (un appartamento per piano) uguali in Grieco street in Ninetyland. Ero in cortile non so a far cosa ma ricordo le vibrazioni positive dovute alla giovinezza e  alla stagione, lo vidi arrivare accompagnato da Màrcel, suo fratello. Noi tre eravamo il fulcro dei THE STRANGERS, misconosciuto gruppetto alle prime armi all’ombra dell’abbazia benedettina.

“Tim, devo assolutamente farti ascoltare questa cassetta. Me l’ ha registrata mio cugino, senti che roba”. Ci sedemmo sul marciapiede e ascoltammo il disco per intero su di un vecchio mangianastri che girava più lento del dovuto, così lento che arrivammo alla conclusione che i Free dovevano essere una band di neri. Il cugino di Biccio registrò prima il lato B del lato A, così la prima cosa che mi arrivò fu MR BIG. Al secondo pezzo, DON’T SAY YOU LOVE ME, era già un fan conclamato. Nessuna discussione. Quel brano mi arrivò addosso con tutta la sua tenera e disperata dolcezza e nel giro di quei sei minuti e poco più i FREE e PAUL RODGERS si fusero per sempre con il mio DNA. Poi arrivò ALL RIGHT NOW, Biccio si mise a ballare, quindi REMEMBER, e a ballare mi misi io e tutto il resto dell’ellepì. Poco dopo comprammo l’album e fu una mezza sorpresa scoprire che erano dei bianchi.

Nel breve volgere di una stagione i dischi dei FREE arricchirono la mia collezione e la mia vita. Come spesso accade, mi lasciai sedurre in particolare da uno dei dischi meno citati dei FREE, FREE AT LAST, ma questa è un’altra storia. Ciò che resta è che i FREE sono da sempre nella mia top five personale, quel loro rock serioso suonato da giovinetti appena maggiorenni, quella loro tensione emotiva che non si scioglie mai, quelle ritmiche semplici e vibranti, quella chitarra così essenziale e piena di pathos, quel cantato sublime capace di scaravoltarti, quei pezzi così maturi eppure pieni di aggressività adolescenziale, quella malinconia struggente che ti si aggrappa all’anima e non ti molla più, quel senso del blues che gronda da ogni loro cosa. I FREE, cazzo che band.

(Free)

I primi due album vendettero circa 20.000 copie ognuno nel Regno Unito, FIRE AND WATER, grazie al singolo ALL RIGHT NOW, fece sì che la band raggiunse in brevissimo tempo lo stardom internazionale. 2° in Inghilterra, 17° un USA. La foto di copertina sembra sia stata scattata da un certo Hiroshi, ma ad oggi nessuno ricorda chi fosse, e nessuna immagine di quella photo – session risulta negli archivi della Island. Tuttavia la foto definisce molto bene la band…imbronciati, forse tristi, ma cazzuti e determinati. Dopo la funerea copertina di TONS OF SOBS (il primo), lo scatto artistico di RON RAFFAELLI per FREE (il secondo)… una ragazza nuda che salta presa dal basso, ecco che per FIRE AND WATER viene scelta una copertina concreta. E’ impressionante la maturità e determinazione che fuoriesce e dalla cover e dalla musica dei FREE, dopotutto PAUL RODGERS (voce) e SIMON KIRKE (batteria) al momento dell’uscita del terzo album non hanno nemmeno 21 anni, PAUL KOSSOFF (chitarra) neanche 20 e ANDY FRASER (basso e piano) deve ancora compiere i 19.

FIRE AND WATER (Fraser/Rodgers) – TTTT L’apertura del disco tocca a questo tempo medio strascicato, blues hard rock vivo e pulsante cucito addosso a quattro giovani anime blues.

OH I WEPT (Kossoff/Rodgers) – TTTTT I take my seat on the train  And let the sun come melt my pain  Come tomorrow I’ll be far away In the sunshine of another day…RODGERS è il rètore (nel significato che davano alla parola gli antichi Greci) della malinconia legata al partire e al lasciarsi tutto dietro, malinconia legata a melodie spesso struggenti il cui preludio è un mugolìo assai familiare ai fan del grande PAUL, quei suoi mmh mmh mmh all’inizio di certi pezzi sono l’essenza dell’anima Rodgersiana. Tenue ricamo chitarristico di KOSSOFF e sublime partecipazione vocale.

REMEMBER (Fraser/Rodgers) – TTTTT In un disco dai toni seri, incazzati e tristi un paio di episodi più solari non possono che essere i benvenuti. REMEMBER è uno di questi, sebbene a guardarci dentro è anch’esso un momento di nostalgia relativo un recente passato spensierato. Riff dondolante su cui batteria e basso ricreano lo stile FREE in modo perfetto. Gran bell’assolo di KOSS, niente scariche veloci, ma un gusto blues rock che in pochi avevano.

HEAVY LOAD (Fraser/Rodgers) – TTTT Un giovane uomo che deve portarsi addosso un grosso peso, che non ce la più a proseguire su quella lunga strada, ma suo malgrado deve continuare a girovagare...il giovane RODGERS di nuovo alle prese con temi a lui cari. Sofferto momento costruito su un piano martellante. I FREE quasi si fermano nella sezione dedicata all’assolo raggiungendo uno stallo momentaneo, quasi per tirare il fiato prima di tornare a rotolare verso il dirupo della tristezza. Di nuovo note dolorosamente dolci nella chitarra di KOSS.

MR BIG (Fraser/Rodgers/Kirke/Kossoff) – TTTTT Qui c’è la descrizione precisa dei FREE, tensione ritmica tenuta altissima, riff di chitarra definito e sexy, cantato ruvido e incazzatura di fondo (“…me ne frego di chi sei, così non spiegarmi nulla, vai solo via da qui e non tornare, non voglio nulla da te, vai via di qui prima che perda la calma, pezzo grosso faresti meglio a fare attenzione nell’avvicinarti a me perché io ti scavo la fossa…”). Bella cavalcata strumentale nel finale con tanto assolo di basso che ha fatto la storia. Il cantato dell’ultimo ritornello è da brividi.

DON’T SAY YOU LOVE ME (Fraser/Rodgers) – TTTTT Ne abbiamo già pubblicato il testo e la traduzione parecchio tempo fa (https://timtirelli.com/2011/05/17/le-canzoni-della-nostra-vita-2/) visto che è una di quelle canzoni della nostra vita. Introduzione caratterizzata da quei due magnifici accordi di MI7+ e RE7+ (col MI al basso) che aprono in maniera soave la disillusione di un amore non sincero e quindi assai doloroso. Al minuto 1,45 entra un pianino minimalista che intenerisce ancora di più il cuore. Durante il pezzo KOSS tiene una ritmica semplice semplice ed è FRASER che col basso arricchisce la texture, KIRKE mantiene in maniera impeccabile l’incedere in 3/4 e RODGERS si esibisce in un’altra delle sue leggendarie performance. Sul finale di nuovo note solitarie piene di sustain e sentimento grazie alla chitarra di KOSS. Io davanti ad una canzone così mi incinocchio.

ALL RIGHT NOW (Fraser/Rodgers) – TTTTT Una sera i FREE fanno un concerto che non va tanto bene, finito il tutto nei camerini tira un’aria pessima allora ANDY FRASER per risollevare il morale agli amici inizia a canticchiare “all right now, baby it’s all right now”. E’ da qui che lo stesso FRASER e RODGERS partono per scrivere il loro successo più conosciuto, uno degli anthem della musica rock. Per la ragazza del testo pare che RODGERS si sia ispirato a CLAUDIA LENNEAR, un cantate di colore del giro di MICK JAGGER. L’apertura del pezzo con i due accordi LA e RE è ormai leggendaria. Brano dal carattere estroverso che ha incorniciato l’estate del 1970. Ora è diventato uno di quei brani che si faticano a reggere, ma ciò non toglie che di diritto è uno dei classici pezzi della storia del rock.

(Claudia Lennear)

Disco dunque imprescindibile per chi ama il rock in senso stretto e probabilmente miglior momento del gruppo. FREE: 6 album da studio, uno dal vivo, scioglimento nel 1971, KOSSOFF che cade preda senza speranza della droga, breve reunion poi definitiva rottura tra RODGERS e FRASER, ultimo album senza Fraser e con un Kossoff a mezzo servizio e scioglimento conclusivo. RODGERS e KIRKE formano la BAD COMPANY con cui raggiungono il grande successo, FRASER non combina più nulla di rilevante, KOSSOFF muore durante un viaggio aereo a 26 anni. Una storia rock dunque, di quelle vere. (Tim Tirelli ©2012)

FIRE AND WATER secondo PAOLO BARONE – BBBBB

Che band i Free. Che disco Fire and Water. Una struggente malinconia attraversa tutta l’opera di questi ragazzi inglesi, capaci di creare un suono che ti entra direttamente nell’anima saltando tutte le anticamere. Non lo so quale sia il segreto, la formula magica di queste registrazioni, ma i primi tre dischi dei Free sono un piccolo mondo a parte, un posto dove e’ bello andarsi a rifugiare quando troviamo sulla nostra strada le inevitabili tempeste della vita. Con loro al nostro fianco, ci sentiamo meno soli, ci sentiamo piu’ forti, sappiamo di potercela fare ancora una volta. Perche’ i Free di Fire and Water dicono la verita’, mettono a nudo le loro e le nostre emozioni, le tirano fuori per quello che sono, in tutta la loro forza e fragilita’.

Che facce che avevano nelle foto di questo disco, specialmente Kossoff, che ti sorride sfuggente dietro il vetro e che ti guarda in copertina come un leone triste. Che suonava la chitarra come nessun altro, riuscendo con poche note a toccare le nostre corde, cosi, come se fosse la cosa piu naturale del mondo.

Chissa’ cosa sarebbe successo se fosse stato capace di affrontare la vita con piu’ distacco, con un po’ di filtri emotivi invece di lasciarsi risucchiare dal lato oscuro.

E’ una storia intensa quella dei Free, fatta di amicizia, successo e difficolta’.

Ma sopratutto fatta di musica bellissima e intensa, come quella che pervade Fire and Water, canzone dopo canzone, una piu’ bella dell’altra.

Che sezione ritmica, che coppia Fraser e Kirke. Quando ascolti la loro musica ti perdi nelle linee di basso quanto nei suoni della chitarra, del piano, o nei colpi della batteria, capace di dilatare il tempo, di dare spazio e respiro.

Peccato che sia andata a finire male per Kossoff, peccato che sia finita cosi l’avventura dei Free. Che ci possiamo fare, la vita e’ una storia vera, nessuno puo’ cambiare il finale. Ci resta una colonna sonora da tenerci ben stretta, da ascoltare tutte le volte che vogliamo, tutte le volte che ne abbiamo bisogno. Ovviamente, 5 stelle… (Paolo Barone ©2012)

 

FIRE AND WATER secondo BEPPE RIVA – RRRRR

Dopo l’esplosione del british blues, finito in apoteosi con il successo dei Cream, formazioni innovative decisero di sconcertare i puristi, trasformando il blues elettrico in hard rock. Fra queste, i Free furono secondi solo ai Led Zeppelin in termini di importanza e la loro influenza non è mai decaduta, inossidabile al trascorrere dei tempi e delle mode.

I Free si sono costituiti a Londra nell’aprile ’68 quando il chitarrista Paul Kossoff ed il drummer Simon Kirke decidono di archiviare in un solo album da collezione su Decca Nova, “Barbed Wire Sandwich”, l’esperienza dei Black Cat Bones.

Scoprono in Paul Rodgers, che esibiva R&B con i Brown Sugar, una delle più grandi voci rock di ogni tempo, e puntano sul precoce talento del quindicenne Andy Fraser, ancora acerbo per i Bluesbreakers di John Mayall, ma raccomandato dall’altro vate del blues inglese, Alexis Corner. Quest’ultimo favorisce i contatti del quartetto con la Island di Chris Blackwell, che li indirizza rapidamente in studio per le registrazioni (ottobre ’68) dell’album d’esordio “Tons Of Sobs”.

Se non tutti convengono sull’elezione del terzo “Fire And Water”, al rango di miglior album dei Free, dipende anche dal confronto con il fermento creativo di quel debutto.

“FAW”, uscito nel giugno ’70, è comunque l’opera che li porta in cima alle classifiche – al secondo posto in Inghilterra – complice l’esplosione dell’hit “All Right Now”. Si tratta di uno dei più contagiosi singoli dei Seventies, che coniuga struttura hard rock e vena funk alla Rolling Stones, anche se la versione da 45 giri rimuove il grande solo di Kossoff: solo il tormentone dei Mungo Jerry, “In The Summertime”, impedisce il primato nella classifica inglese. Non distogliete però l’attenzione dal resto del classico album, a partire dall’iniziale “Fire And Water”, sovrano esempio dell’heavy blues d’atmosfera dei Free; il suo riff sarà verosimilmente plagiato dai Mott The Hoople in “Ready For Love”, e forse anche per quest’affinità Rodgers si unirà a Mick Ralphs, chitarrista dei Mott, nei Bad Company. Anche “Oh I Wept” prelude al versante soft del futuro supergruppo, specchio della raggiunta maturità del cantante in qualità di compositore.

“Heavy Load” è un’altra superba melodia pianistica, e “Mr. Big” un sensuale, ipnotico mid-tempo scandito dallo stile rock-funk della sezione ritmica di Kirke e Fraser, a coronamento di un suono caldo ed avvolgente. Trovo assolutamente favoloso a livello emozionale l’assolo di Koss, la tecnica conta e non conta, il feeling è debordante…E le due riprese televisive del DVD “Free Forever” non fanno che render più leggendario questo brano-capolavoro.

L’impeccabile engineer degli studi Trident è Roy Thomas Baker, destinato alla fama come produttore dei Queen. Sempre nell’anno di gloria 1970, Roy aveva esercitato lo stesso ruolo nell’inimitabile “Sacrifice” dei Black Widow.

Penso che anche la copertina abbia influito sul successo di “FAW”, con la rinuncia alle velleità artistiche delle precedenti (il macabro topolino in una bara di cristallo di “Tons”, poi la silhouette cosmica di Ron Raffaelli sul secondo “Free”), a favore di una tradizionale quanto iconica posa di gruppo.

Per gli incorreggibili indagatori di classifiche, nell’ormai distante 2001 la prestigiosa rivista Classic Rock collocò il Fire dei Free al n.37 fra i migliori album di sempre: una posizione ragguardevole, per quanto possano significare queste graduatorie. (Beppe Riva ©2012)

FIRE AND WATER secondo GIANCARLO TROMBETTI – TTTT

I Free non sono uno di quei gruppi che ebbi l’acume di cogliere al volo. Anzi. Preso com’ero da stili fin troppo debordanti e aggressivi, devo ammettere a quarant’anni di distanza che li classificai subito in posizioni di seconda fila. Ai miei occhi mancavano di… mordente. Non riuscivo a sentirli invadenti e presenti come sentivo, al contrario, la Triade (no, non quella Sacra Juventina bensì quella più terrena di Zep/Purple/Sabs). La realtà è che la chitarra di Kossoff non strabordava dai solchi, non ti saltava sulle spalle, anzi sembrava bearsi del fatto che fosse sempre lì, come un crotalo, pronta a fare qualcosa, ad azzannarti, senza però farlo veramente mai del tutto. E preso com’ero dalle voci fuori dalle ottave di Plant e Gillan e compagnia cantante, la perfetta, grande intonazione di Rodgers non mi pareva davvero tale. Mi ricordo che decisi di rivendermi – erano tempi duri, quelli, per chi voleva star dietro a tutte le bellezze che facevano mostra di se nelle vetrine ed i budget scarseggiavano, esattamente come oggigiorno – “Tons of sobs” per comprarmi “Masters of reality”…o lo scambiai? A dire il vero non ricordo, stavolta.

Continuai a seguirli, non fosse altro perché ogni tanto affiorava uno scritto occasionale dove si diceva un gran bene di Kossoff, anche se – stavolta sì, ne sono certo! – i Free vennero relegati sul lato destro della mia teca, quello meno frequentato. E poi, ora bestemmio, a me “All right now” stava proprio sulle balle; mi toccava sorbirmelo anche in discoteca nelle due o tre volte che mi ci avevano portato sotto narcosi. Ed a pensare oggi che esistevano un tempo discoteche che “mettevano su” del rock and roll da ballare, oggi mi commuove profondamente, pensando alla miriade di zombie, di ricercatori dell’unico neurone vivo che le frequentano. Sodoma e Gomorra una puzzetta al vento, a confronto. Poi venne l’illuminazione. Come al solito dettata dal fatto che un tempo gli appassionati passavano giornate sui propri dischi; li ascoltavano e riascoltavano, al buio, in cuffia, rigirandosi senza lente d’ingrandimento le copertine in mano al preciso scopo di trovare nuove emozioni. O la scintilla iniziale. Che poi è quello che accadde a me. Mi ritrovai dunque ad imparare ad amare una sorta di “nuovo” tipo di suono, per un ascoltatore rozzo di sedici anni com’ero, e a degustare poco per volta la voce di quello (lo scoprii molto dopo, parlando con molti cantanti) che era il cantante rock blues più stimato dagli stessi colleghi inglesi e a farne un mio idolo. Imparai a centellinare la presenza di Kossoff, con la sua vena sadica sempre a cavallo del “ti salto addosso, no non lo faccio” e “Highway”, “At Last”, “Heartbreaker” e il Live divennero trai miei preferiti. Sì, anche “Fire and water” ma solo dopo per colpa della mia residua sindrome-da-All-right-now… E credo di poter dire che furono i dischi “meno rock” degli Zeppelin che mi guidarono verso una nuova visione dell’oggetto.

Oggi non capisco come si possano non capire i Free. Non afferro come non si possiedano tutte le riedizioni degli album originali e almeno due copie del live rimasterizzato ed ampliato con sequenze di pura Arte Rock tramandate nei secoli e nei solchi. I Free rappresentano il mio primo passo verso un ascolto del rock più maturo e meno dedito alla ricerca dell’assolo di chitarra in coda alla tastiera o del godimento delle cavalcate di basso/batteria tracimanti. Un passaggio naturale, un’evoluzione per qualsiasi amante del rock e del blues, così come del folk e del jazz. Tutti termini di individuazioni di suoni che oggi sembrano bestemmie all’altare. (Giancarlo Trombetti ©2012)

DETROIT TALES: “la rock and roll damnation e Trilogy che piace alle garage rock girls” di Paolo Barone

30 Ott

Il nostro Michigan Boy è solito mandarmi riflessioni che spesso mi solleticano. Cose tra me e lui, senza tanti filtri, constatazioni tra amici… ma si sa, mi piace quel che ha da raccontare Paolino Barone e così finisco per chiedergli se posso usare la cosa per il blog. Polbi è tollerante, tornisce il tutto, cancella i nomi e mi da l’ok. Che pazienza che ha il mio amico.

L’altra siamo andati a vedere un nostro caro amico canadese Bloodshot Bill, che presentava il suo one man show in un club rock di Detroit.

Mentre eravamo con lui a fare due chiacchiere nel patio esterno del club, (incredibile ma vero fa caldo qui in questi giorni) riconosco una mia cara amica seduta ad un tavolo in disparte, in una zona praticamente buia, illuminata solo dalla luce dei lampioni della strada. Vado a salutarla e la trovo in compagnia di altre tre ragazze: la sua compagna, la cantante di una band locale (che ha anche avuto un certo successo internazionale, si chiamano Detroit Cobras, se vi capita dategli uno sguardo), e un altra persona, totalmente in ombra, ma non so perche’ mi sembra di conoscerla. Dopo un caloroso saluto a lei e alle altre due, vengo presentato alla terza tipa, ora la riconosco senza dubbio: E’ la batterista di una band/duo molto, ma molto famosa. Anche mia moglie la conosce e scambiano un paio di battute, poi noi torniamo alle nostre cose e le tre ragazze vengono via con noi lasciando la drummer sola al tavolo, nella semi oscurita’.

Dove lei rimarra’ a lungo, fumando una sigaretta dopo l’altra, bevendo un paio di bicchieri, scrivendo cose sul suo smartphone, sola, triste, ingrassata, depressa.

Praticamente incapace di comunicare, di parlare per piu’ di un minuto.

Per poi a un certo punto sparire, lasciando un po’ a tutti una sensazione di disagio, mitigata soltanto dalla forza del nostro amico che ne frattempo suona un concerto infuocato, coinvolgendo tutti i presenti.

Una volta a casa mi viene spontanea una riflessione.

Ma e’ mai possibile che questo sia il prezzo da pagare per la fama ed il successo nel mondo del rock?!? Da sempre, Elvis, Stones, Beatles, LZ, Pistols, Nirvana, J. Winter, un elenco infinito di anime in pena divorate da mille problemi, infelici, depressi, spesso finiti male, anzi, quasi sempre finiti male.

In fondo la band in cui suonava questa ragazza e’ stata  l’ultima band rock ad avere un successo di massa internazionale, lei e’ giovane, ha un pacco di soldi, potrebbe fare quello che cazzo vuole, o semplicemente godersi il successo raggiunto….no, me la ritrovo in un club di Detroit all’una di notte in quelle condizioni. No alle hawaii a godersi la vita….Ma perche???

Esiste una rock & roll damnation, una maledizione da scontare in cambio del successo e della fama???

Il mo amico Bill gira il mondo da solo con lachitarra, suonando dove capita e racimolando qualche soldo. Ha inciso diversi dischi che si vende da solo ai concerti. A casa ha una bimba di sette mesi, una moglie carina, dei genitori anziani, una vita non comoda. Ma e’, per quanto possibile, felice. Anzi, e’ una delle persone piu’ felici che conosco. Successo a dir poco di nicchia, soldi zero, fama sottozero, ma contento…Gli auguro dal cuore di restare cosi, il diventare una stella, a quanto pare, ha un prezzo troppo alto da pagare.

Ieri in macchina sulla I-75 stremato dalle solite banalita’ classic rock fm americane ( suonano sempre le stesse cose, da incubo! ) ho messo Trilogy. Mia moglie (ricordo che la moglie di Polbi e la leader dei DEMOLITION DOLL ROD ndtim) si e’ svegliata e pensavo che lo tirasse dal finestrino, ma invece mi dice, “bello questo disco, ma chi sono? ” “ELP”  rispondo io. “Ah”, dice lei, che ti assicuro non ha la minima idea di chi siano. “Mi piace sembra un incontro fra Frank Zappa ed Ennio Morricone, potrebbe essere una bella colonna sonora per un film….e’ proprio un disco particolare”. Mah, vai a capire i misteri…

Ho anche scoperto che ama cantare a palla con la radio in macchina una canzone della ELO, una un po’ rock, non mi ricordo come cazzo si chiama…!
Per il resto passo i miei giorni fra computer, malinconie in salsa Big Star, nipoti, parenti vari, halloween, e viaggi cosmici sulla nave pirata Hawkwind…
Hanno aperto un nuovo, enorme, negozio di dischi a cento metri da casa mia, 90% vinile il resto cd in via di esaurimento scorte. ieri ho preso master of reality del 71 con poster originale incluso a 26 dollari…non male dai.

Nei prossimi giorni dovrei andare a vedere Rocky Erickson e forse riesco a beccare anche Rodriguez. Del quale forse non hai sentito mai parlare (Peppe videtti lungo articolo su repubblica a luglio) ma poi spero di raccontarti qualcosa io….Un altro dei miei bellissimi perdenti del rock.
E per finire volevo dirti che ho scovato un manuale di istruzioni per il synt korg degli anni 70 che Margaret ha in cantina/sala prove. Una specie di moog, dal quale mi diverto a tirare fuori suoni pazzeschi….Diventero’ anch’io un corriere cosmico da grande?!?!?!

LE FRASI STORICHE DI PICCA: “Se l’accezione del rock è ‘musicista sincero che propone musica scaturita dall’anima…”

17 Ott

TT Blog, 1 ottobre 2012, post “Gente insospettabile che pensa che MADONNA sia rock”, commento n.10…sono ormai due settimane che ho in testa quelle parole, soprattutto la descrizione del rock nella parte finale, che evidenzio in grassetto. Lo ripropongo perché poche altre volte mi è capitato di leggere o sentire una descrizione così azzeccata, che unisca  la fredda  logica alla musica con un cuore pulsante  per eccellenza. Sono dell’idea che questa frasetta meriti un post tutto suo e quindi il fatto di ritrovarla tra i nostri pensieri.  Hats off to Picca. 

… Il dibattito su cosa sia o meno rock mi pare un po’ sterile. Chi è che decide dove va posta l’asticella per dividere i campi? A me pare molti gruppi ‘rock’ estremamente popolari si limitino a usare una certa iconografia rock da fumetto per sbolognare pessima musica diretta a ‘simple minds’ a cui piacciono gli stivaletti di pitone, le Les Paul zebrate e le foto di gente spappolata col Jack Daniel’s in mano. Lenny Kravitz è un rocker o solo uno che ‘roccheggia’ di comodo? I Guns n’ Roses sono rock o solo una cover band da comic book che ha venduto milioni di dischi di una carnevalata? Il punto è: nel momento in cui il rock significa poco, quanto può essere credibile un rocker? Si tratta di ‘poseurs’ o di gente sincera? E’ possibile riconoscere la sincerità? Ed è così importante? In fondo vogliono tutti diventare ricchi, famosi e giganteschi scopatori, da sempre. Qual’è e dov’è il semino etico che distingue il ‘reale’ dal ‘farlocco’.

Se l’accezione del rock è ‘musicista sincero che propone musica scaturita dall’anima suonata con strumenti in variabile distorsione con sezione ritmica prevalentemente in 4/4, che ha forgiato il suo look, il suo sound e la sua ‘attitude’ su modelli riconducibili al blues elettrico e alla prima ondata di rock ‘n’ roll poi sviluppato da Stones, Who e Zeppelin’…beh, allora possiamo cominciare a potare il 75 per cento della gente che dice di suonare rock.

RILETTURE: EMERSON LAKE & PALMER “Tarkus” (Island Records 1971) – TTTT

8 Ott

Riletture: un’umile rubrichetta per divertirci nel fare qualche considerazione con le orecchie di oggi su album che hanno fatto la nostra storia (nonché quella del rock). 

Del periodo magico degli ELP, quello relativo ai primi 5 indimenticabili anni dal 1970 al 1974, TARKUS fu l’album che arrivò da me per ultimo e che faticai molto ad amare. Riprendendo per un momento l’articolo LA PRIMA VOLTA: I LED ZEPPELIN che scrissi il 21 giugno scorso (vedi categoria LED ZEPPELIN), gli ELP mi conquistarono circa nello stesso periodo in cui mi rapirono i LED ZEPPELIN. Il mio amico Massimo, dopo THE SONG REMAINS THE SAME e qualche altro album del dirigibile, mise sul piatto BRAIN SALAD SURGERY, così fui catapultato in un altro mondo fantastico. Comprai il disco e solo nel tenerlo in mano mi venivano i brividi, la copertina apribile, l’artwork di Giger che mediante un gioco di fustelle si fondeva con i visi dei tre musicisti, quella musica così musica! Cristo, avevo 16/17 anni non potevo non impressionarmi e restarne marchiato a fuoco per l’eternità. Conoscevo già Emerson per via del singolo HONKY TONK TRAIN BLUES che amavo moltissimo, così mi lasciai avvolgere da quella suggestione sonora senza opporre resistenza. Dopo poco arrivò il primo album che trovai magnifico. Il mio amico Biccio prese TRILOGY, Pigi il triplo live WELCOME BACK MY FRIENDS TO THE SHOW THAT NEVER ENDS, qualcun’altro PICTURES AT AN EXHIBITION. Non ricordo chi avesse TARKUS, fatto sta che Lencio un giorno me lo portò.

Oh, sembravo essere refrattario ad esso, non che non mi piacesse, ma non riusciva a penetrare. Dopo un paio di settimane Lencio mi chiese “Allora TARKUS?“, e io “Mi piace un pezzo” e lui, “Sarà mica ARE YOU READY EDDY?” e io “Sì”. In realtà mi piaceva anche JEREMY BENDER, ma il resto lo trovavo troppo impetuoso per poterlo attraversare. Con gli anni sono poi riuscito ad espugnarlo, tuttavia il mio approccio a TARKUS rimane per tanti discutibile. Sono famoso per aver detto più di una volta “Beh io a TARKUS preferisco LOVE BEACH”. Ormai mi conoscete, lo sapete che mi piace forzare un po’ la mano e lasciarmi andare ad esclamazioni sopra le righe, tra il serio e il faceto… ma se penso che una volta ho detto quella cosa per telefono anche con Beppe Riva, mi vengono le palpitazioni…chissà cosa avrà pensato il maestro.

Io avrò quindi sempre un approccio un po’ strampalato verso questo album, la storia dell’armadillo/tank saltato fuori da una eruzione vulcanica e sconfitto nello scontro finale dal Manticore, mostro mitologico greco, nel mio animo non ha lo stesso impatto degli altri album. Le mie considerazioni vanno prese dunque con le molle, certi episodi che per me sono riempitivi per altri possono essere gemme musicali. A tal proposito vi rimando all’articolo TRIBUTO AD ELP di BEPPE RIVA apparso sul blog il 7 luglio del 2011 (lo trovate nella categoria SPECIAL GUESTS).

L’album, con l’artwork  creato da William Neal, uscì il 14 giugno in Inghilterra dove arrivò al numero uno delle classifiche. Fu pubblicato in USA qualche settimana dopo e arrivò alla posizione 9, diventando disco d’oro in un batter d’occhio.

In classifica in Italia Tarkus arrivò al primo posto (al primo posto un album come Tarkus, ci rendiamo conto di che anni erano?) e risultò essere il 14esimo album più venduto del 1971.

TARKUS – TTTTT:

A) Eruption: un 5/4 schizoide con un riff e una prova d’insieme magnifica

B) Stone Of Years: si lascia alle spalle la frenesia e si adagia su una maestosa melodia in puro stile ELP cullata dal “vento del tempo”.

C) Iconoclast: un minuto spaventoso di furia iconoclasta, appunto.

D) Mass: altro riff che si  innesta sulla trama tessuta fino ad ora, l’intermezzo con l’organo cerca di spezzettare il ritmo; la chitarra elettrica si inserisce su un contesto di controllata confusione.

E) Manticore: altra sezione piuttosto complicata; botta e risposta tra il riff ed Emerson, che la mano sinistra tiene una figura musicale delle sue e con la destra emersoneggia alla grande.

D) The Batterfield: tutto si fa più epico…di nuovo la melodiosa voce di Lake attraversata da sfumature sinistre. La chitarra acustica accompagna una solista quasi psichedelica.

F) Acquatarkus: chiusura strumentale della suite riprendendo, per gli ultimi colpi d’ala, il riff iniziale.

JEREMY BENDER – TTTTT: quadretto simil western, di quelli emersoniani che tanto mi piacciono. Lo stacco di atmosfera con la suite di TARKUS è notevole…un po’ di leggerezza sopraffina dopo tempeste musicali violentissime.

BITCHES CRYSTAL – TTT: si ritorna sui territori consoni al mood principle di questo secondo album degli Elp. Riff strumemtali frenetici e costanti a cui risponde la voce di Lake. L’assolo di Emerson al piano è bellissimo.

THE ONLY WAY (HYMM) – TTTTT: incastonato sulla TOCCATA E FUGA IN FA MAGGIORE BWN 540 di JOHANN SEBASTIAN BACH, è un momento imponente e sublime. Ancora sfumature sinistre nella bella voce di Lake. Testo dalla ironia tenebrosa su tematiche anche religiose.

INFINITE SPACE – TTT: è uno strumentale modesto, sembra un riempitivo con improvvisazioni su un giro un po’ monotono. Certo però che quando Emerson suona il pianoforte partono comunque vibrazioni profonde.

A TIME AND A SPACE – TTT: altro brano non particolarmente interessante pur mantenendosi in linea con il tenore e lo spessore dell’album.

ARE YOU READY EDDY – TTT½: momento ludico dedicato all’ingegnere del suono EDDIE OFFORD. Stravagante rock and roll pianistico che ho sempre trovato gustoso.

TARKUS quindi per me è l’album più ostico e difficile degli ELP. Ne riconosco la grandezza, lo spessore, ma fatica ad arrivare completamente alla mia anima. La groupie e Paolino Lisoni stravedono per quest’album, Picca non è mai riuscito ad arrivare alla fine, altri non ne parlano…è in ogni modo un album complesso, ricco, pulsante, concepito nel cuore del periodo più straordinario per la musica del genere umano, da tre giovani ragazzi inglesi in un momento di estasi creativa.

(Greg Lake 1971)

TARKUS secondo PAOLO BARONE – BBB½

Devo dire che quando Tim mi ha prospettato la rilettura di Tarkus me la sono vista brutta. Non amo EL&P, e quando tantissimi anni fa un mio amico mi diede una copia di Tarkus, lo ascoltai un paio di volte, mi sembro’ un sommo rompimento di palle e non l’ho piu’ sentito. Ora,d opo  migliaia di giorni e dischi, riprovo ad avvicinare il dinosauro del rock, uno dei lavori piu’ maltrattati dalla critica nella storia della musica contemporanea, curioso di vedere che effetto che fa’…

Bene, pur non rientrando nella top ten estiva dei miei ascolti, Tarkus non e’ male. Anzi. Diciamola tutta: nel momento giusto e’ un bel disco! Veramente, non sto scherzando… Specialmente la prima parte, quella dedicata a Tarkus in persona, e’ un bel pezzo di progressive tastieristico. La band ha un suo perche’, una sua forza e originalita’. E poi la voce di Lake, quella sì che fa la differenza. L’indimenticabile cantante dei primi Crimson riesce a portarti lontano, con quella voce unica, una delle piu’ belle del progressive, se non la piu’ bella. Certo, alle volte la compagnia di Emerson e Palmer e’…come dire…un po’ strabordante…Ma fa parte del gioco, ci sta, e’ nella natura del trio e della sua musica. il buon Greg suona anche qualche nota di elettrica floydeggiante niente male. Nel corso della prima parte del disco, in alcuni punti sembra quasi di ascoltare gli Area dei primi tempi. I quali continuano a citare John Cage, ma secondo me non ce la contano giusta, e si sparavano EL&P in dosi da cavallo. Insomma, la sezione “Tarkus”, quando uno si trova nel mood tastiere prog, e’ molto interessante ed intensa.

La seconda parte meno. Jeremy Bender a dir poco non lascia il segno, mentre The Only Way mi risulta praticamente inascoltabile, la voce regge sempre ma l’organo di Emerson stile chiesa…Francamente siamo al limite del cattivo gusto. Are you ready Eddy puo’ essere simpatica se avete voglia di r’n’r’ suonato da un gruppo prog inglese (cosi poi vi vorrete ascoltare anche un pezzo prog fatto da una band rockabilly di Memphis) altrimenti si puo’ tranquillamente saltare. Da non perdere invece Bitches Crystal e A Time and A Place, pezzi aggressivi e tirati come non mi ricordavo. In ultimo, Infinite Space, un momento ricco di feeling e classe, un piacere ascoltarlo.

Rimane da parte mia una difficolta’ di fondo ad apprezzare i barocchismi nello stile di EL&P. Non solo per quanto prodotto dal buon vecchio Emerson con le sue infinite tastiere, ma anche  il modo di suonare la batteria di Palmer mi sembra spesso eccessivo e gratuito. A conti fatti pero’, queste sono le cose e i numeri che piu’ piacciono agli appassionati della band, o almeno credo… E poi questi ragazzi, perche’ dei ragazzi erano all’epoca del disco, nel bene e nel male avevano creato un genere, dono dato a pochi dal dio del tuono e del r’n’r’. Certo, con questi suoni poi loro ed altri hanno a volte pasticciato, e il passo fra un buon avventuroso prog e il Rondo’ Veneziano puo’ essere breve…

Da non fan, continuo a preferire il primo album e certe cose di Trilogy, ma il povero Tarkus, pur con i suoi alti e bassi, invecchia con dignita’. E chi lo avrebbe mai detto. (PB2012)

(Carl Palmer 1971)

TARKUS secondo BEPPE RIVA – RRRRR

E’ difficile immaginare cosa potesse significare l’uscita di un album particolarmente importante all’inizio degli anni ’70, quando si assisteva anche in Italia ad un vero e proprio boom della cosiddetta “musica underground”, che coinvolgeva un pubblico di differenti fasce d’età.

Dopo il fenomenale debutto di ELP che aveva dimostrato come il primo supergruppo degli anni ’70 fosse assolutamente tale, all’avvento di “Tarkus” si parlò di “attesa parossistica per questa uscita discografica bramata da tempo” (Ciao 2001), e da molti appassionati fu vissuta realmente come tale.

Incorniciata dall’iconica copertina di William Neal, la musica raccontava la violenta storia di Tarkus, sorta di mostro dell’inquinamento atomico che fondeva il corpo di un gigantesco armadillo su un carro armato; la sua nascita avviene attraverso un’eruzione vulcanica (“Eruption”), e la musica assurge a concetti di eccentrica epicità, ostentando scansioni ritmiche complesse e sonorità innovative, dal formidabile impatto dinamico; quelle stesse che inizialmente avevano suscitato il disappunto di Lake, anima melodica del trio, che rischiò lo split dopo un solo album! Recuperato alla causa e gratificato dal ruolo di produttore, il grande Gregorio si riscatta con il suo inconfondibile retaggio crimsoniano in “Stones Of Years”, ma subito dopo, nelle vittoriose battaglie di Tarkus con altre bizzarre creature, “Iconoclast” e “Mass”, metà animali e metà macchine, Emerson torna a dominare lo scenario musicale estraendo dal moog effetti rivoluzionari e provocando dissonanze che servono a ricostruire i toni feroci dello scontro fra gli immaginari titani di questa saga. Ma se le stregonerie di Keith Emerson alle tastiere, ed i livelli di eccellenza raggiunti da Greg Lake come bassista e cantante sono da tempo affermati, “Tarkus” è l’album della definitiva consacrazione per ‘ideale “collante” fra i due: Carl Palmer, batterista dal disegno ritmico turbinoso quanto poliedrico, un’autentica forza della natura.

Il pezzo di maggior effetto della suite, “Battlefield”, è firmato da Lake, che sfodera anche una turgida chitarra alla Eric Clapton nell’eroico commento sonoro della sfida finale di Tarkus con la Manticora, un mostro della mitologia greca che provocherà la morte del protagonista: la carcassa di Tarkus finisce nella corrente di un fiume, scivolando nell’acqua che è invece origine della vita. L’epitaffio è scritto dalla marcia solenne di “Aquatarkus”, ma se l’armadillo corazzato perisce, i venti minuti di musica a lui dedicati rappresentano un trionfo, ruggente sinfonia densa di clangori metallici e risoluzioni epiche!

A mio avviso nessun altro lavoro “sulla lunga distanza” saprà eguagliarla, nemmeno esercizi magistrali di Genesis, Yes, Pink Floyd e King Crimson.

Dopo un pezzo così impegnativo, che occupa l’intera prima facciata del disco, la leggendaria Trilogia privilegia un repertorio accessibile sul retro, assumendo a sua volta un atteggiamento più scanzonato e divertente. Fa eccezione “The Only Way”, dove Keith suona l’organo a canne citando la Toccata in F e Preludio VI di J.S. Bach, maestoso tributo alla musica colta, e Greg canta con la sua intonazione da perfetto “ragazzo del coro”; invece “Jeremy Bender” è un accattivante brano da saloon del West, scandito dal piano in stile honky tonk. Dopo la sperimentazione elettronica di “Tarkus”, il tastierista sovrano del rock ritorna spesso al pianoforte, conducendo l’incisivo crescendo di “Bitches Crystal” e le variazioni sul tema di “Infinite Space”. L’organo Hammond si impone invece nell’heavy-prog di “A Time And A Place”, che è classico stile ELP concentrato in tre minuti. Infine, “Are You Ready Eddy” è puro rock’n’roll dedicato al loro celebre tecnico del suono, Eddy Offord. Quella che superficialmente può esser considerata la facciata “leggera” a completamento di “Tarkus”, è in realtà la dimostrazione del formidabile talento del trio inglese nel suonare ogni genere di musica con classe inarrivabile, estendendo gli orizzonti della fusione fra rock, musica classica e jazz, già collaudata dai Nice, veri e propri precursori del progressive.

L’impatto di “Tarkus” fu enorme per influenza esercitata e successo conseguito (al n.1 in UK, rock polls dominati), e resta un album EPOCALE, che nulla ha perso del suo carisma. (BR 2012)

(Keith Enerson 1971)

TARKUS secondo GIANCARLO TROMBETTI – TTTTT

Tarkus…i tre senza chitarra elettrica.. elemento essenziale per un giovinotto dai gusti in formazione…M ricordo benissimo che fui affascinato dalla copertina, prima di ogni cosa, anche se l’esordio lo avevo già consumato su di un giradischi che avrebbe fatto inorridire chiunque già ai tempi. Ma non c’era altro a disposizione e dovevi adattarti. Il primo, piccolo, vero impianto venne decisamente dopo. Ricordo anche che lessi qualcosa circa la storia di un mostro poco definito ma chiamato Manticore, ma gli diedi poco seguito: la critica dell’epoca era agli esordi…e guardate cosa ha prodotto oggi come ultima generazione… Ma il disco…difficile, elaboratissimo, pieno di tempi, cambiamenti di suono, grondante perle nascoste ogni ciuffo di solchi. In tre parole: splendido, unico, affascinante. Difficile avere musica così bella e solare oggi, impossibile sperare che anche chi ha prodotto quella riesca a tornare a quei livelli. Per uno strano allineamento dei pianeti, il periodo che va dalla seconda metà dei sessanta verso la fine dei settanta, escudendo una folta manciata di eroi che hanno saputo andar oltre, ha donato ai secoli a seguire le melodie e le composizioni più geniali, creative ed irripetibiili di sempre. Dopo sarà necessario avvinghiarsi ai ricordi e alla fantasia personale per ricreare, per concedere noi ad altri quel credito che in quel periodo i musicisti si prendevano da soli. Si legge spesso nelle memorie di artisti sulla settantina che in quegli anni potevi comprare decine di album alla settimana ed erano tutti bellissimi. E’ tragicamente vero. Oggi, per ritrovare 40 minuti di sogno come quelli che ci ha regalato Tarkus, è necessario riempirsi di scatolette di plastica da 80 minuti, per non arrivare neppure agli stinchi di quelle emozioni. Tarkus è stato un macigno nello stagno e le sue onde rimbalzano ancora oggi. Chi non l’ha capito, amato, assimilato e l’ascolta ancora oggi con rispetto trovandoci ogni volta qualcosa di nuovo, non ha capito…”the famous fucking idea” di dove stiano i bandoli di questa musica. Tanto per citare Zappa. (GCT – 2012)

Gente insospettabile che pensa che MADONNA sia rock

1 Ott

Tempo fa su Facebook mi chiese l’amicizia una donna con cui avevo amici in comune. Gliela confermai volentieri l’amicizia, pareva una donna rock, cantava in diversi gruppi rock e cose di questo genere. Nel corso del tempo vidi i suoi interventi e quasi tutti erano di tenore rock. Scomoda la ragazza, pensai più volte.

L’altro giorno ebbi una sorpresa: la ragazza in questione è diventata la cantante di un tribute band di Madonna. Rimasi colpito, non in modo positivo naturalmente. Come si poteva coniugare il rock con una cantante di pessima musica commerciale senza nessuna dote particolare? Nel pubblicizzare un prossimo concerto la vedo postare il seguente commento:

MTG (madonna tribute girl) “D’YOU LIKE ROCK AND ROOOLL?????D’YOU WANNA DANCE??YEAH. A NEW HOT MADONNA ROCK TRIBUTE IS COMING TO MAKE YOU SHAKE YOUR ASS AND CRY OUT YOUR……”

Io lo so, dovrei fregarmene e passare oltre, magari nascondere i suoi aggiornamenti, ma non ci riesco, quando si nomina il Rock senza cognizione di causa mi indigno. Così le rispondo ed inizia un piccolo confronto:

TT Scusa, ma cosa c’entra il rock and roll con Madonna?”

MTG “La Regina del Pop ha incontrato l’Anima Passionale e gli Istinti più Carnali del Rock… e da questa unione sono nati i (nome della tribute band), un concentrato di energia, sonorità potenti e…. il resto ti tocca vederlo dal vivo!!! Fidati, Madonna c’entra con il Rock molto più di quanto tu possa credere!”

TT Mi dissocio, Madonna è tutto fuorché rock. Musicalmente, spiritualmente, culturalmente.”

MTG Non parlare prima di aver sentito… date in arrivo, sei pregato di ESSERCI! :)”

TT Mi spiace, sono curioso di vederti, molto curioso, ma non in quel contesto.”

MTG “Ok, te lo farai raccontare… ;) e chissà che i contesti non si allarghino!”

AMICA di MTG Tim… Madonna ha iniziato la sua carriera di musicista suonando la batteria in una rock-band. Nei suoi live fa sempre canzoni ri-arrangiate in versione rock…suonando la chitarra elettrica. Vai a vedere Ilaria, io ci vado. Sono sicura che ne varrà la pena !”

MTG “Sapevo che non avrei avuto bisogno di aggiungere altro: chi conosce Madonna sa quanto può essere ROCK!!!”

AMICA di MTG Anche shakira suonava la batteria, e ascolta led zeppelin, nirvana, ac/dc… e ha fatto molte canzoni rock. il rock “inizia” grandi donne :) come te, e me chiaramente ! ahah”

AMICO di MTG Anch’io ero molto prevenuto su miss Ciccone tempo addietro, ma poi… ;)”

TT “Ma voi siete pazzi.Madonna fa musica di merda. Se vi piace nessun problema ma non tirate in ballo il Rock.”

AMICO di MTG “A quanto pare su questo argomento, meglio non titare in ballo te… :)”

THai ragione, tolgo il disturbo.”

MTG “Come direbbe Madonna: “Che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”!! E a quanto pare questi Lucky Star stanno già facendo sollevare polemiche, proprio come la Regina… Siamo sulla buona strada! ;)”

Ora, che cavolo di senso ha “e chissà che i contesti non si allarghino!”? Quali sono i contesti che devono allargarsi? Qui non c’è contesto. Madonna non ha nulla a che vedere col rock, metterli in relazione è come dire sono di sinistra ma anche di destra, tengo l’Inter e anche la J**e…e non si discute sulla bravura o meno della tipa in questione e della sua band.

Io già faccio fatica ad elaborare certi accostamenti all’interno del rock, voglio dire una volta ho visto la band di Lorenz proporre in concerto ROCK AND ROLL NIGHT dei KISS e un pezzo dei SEX PISTOLS (non ricordo quale). Accostamento alquanto bizzarro per chi ha una certa cultura rock, ma tutto sommato restiamo all’interno del mondo rock che sappiamo avere mille sfaccettature, e quindi è un imbarazzo che si può superare.

La faccenda di Madonna però no, quella non si supera, anzi la si combatte. E me ne infischio se corro il rischio di apparire chiuso e ripiegato sul rock di un certo tipo, perché tanto non è così.

E non ce l’ho nemmeno con l’easy listening, che se fatto bene è assai piacevole, quello che tutti ora chiamano Pop. Michael Jackson ad esempio non mi piace ma gli riconosco un gran talento, sapeva cantare e ballare benissimo, e sapeva scrivere grandi canzoni. Ma Madonna !? Donna di gran temperamento e determinata, ma cantante mediocre, ballerina mediocre, autrice inesistente. Ha avuto successo, buon per lei, ma la società (specie quella di questi ultimi tempi), si è specializzata nel preferire un intrattenimento artistico di livello assai basso.

Già siamo in tempi difficili, i nuovi nomi del rock sono quasi sempre una pallida sfumatura del rock che fu, se dobbiamo anche sopportare che ci facciano passare per rock musicaccia che rock non è, beh, allora è l’ora della lotta.

Cosa ascoltavamo nei difficili anni 80: la classifica

10 Set

Il nostro Alex si è preso la briga di riassumere in una classifica i nostri commenti a proposito di ciò che ascoltavamo nel buio degli anni ottanta, non avete scritto in molti quindi non è che i voti siano tantissimi, ma sono comunque sufficienti per stilare una classifica.

Qui il link al thread originale: https://timtirelli.com/2012/05/31/i-12-album-che-ascoltavamo-negli-anni-80/

Qui sotto il lavoro di Alex.

Se non mi sono perso qualche puntata (non dovrebbe, anche perché da tanto tempo nessuno ha mandato il suo elenco), ecco il risultato finale, spesso sorprendente. Enjoy:

6 Black Sabbath – Heaven and hell

5 Ac/dc – Back in black

5 Whitesnake – 1987

4 Van Halen – 1984

4 Robert Plant – Now and zen

3 Van Halen – Diver down

3 David Lee Roth – Eat ‘em and smile

3 Def Leppard – Hysteria

3 Guns N’ Roses – Appetite for destruction

3 Rolling Stones – Tattoo you

3 Deep Purple – Perfect Strangers

3 Robert Plant – Pictures at eleven

3 Bruce Springsteen – Born in the Usa

3 U2 – Under a blood red sky

3 Franco Battiato – La voce del padrone

3 Police – Synchronicity

3 Sting – The dream of the blue turtles

2 Whitesnake – Slide it in

2 Black Sabbath – Seventh Star

2 Black Sabbath – The eternal idol

2 Iron Maiden – Live after death

2 Marillion – Misplaced childhood

2 The Firm – The Firm

2 Jimmy Page – Outrider

2 Queen – The works

2 Queen – A kind of magic

2 Pink Floyd – A momentary lapse of reason

2 Motley Crue – Girls girls girls

2 Metallica – Master of puppets

2 Living Colour – Vivid

2 Cult – Love

2 Clash – Combat rock

2 U2 – The unforgettable fire

2 Stevie Ray Vaughan – Couldn’t stand the weather

2 Vasco Rossi – Va bene, va bene così

2 Zucchero – Blue’s

Un grande lavoro di Team, per un grande Tim!